Cultura per una nuova cittadinanza
di EMMANUELE CURTI
1815, con il congresso di Vienna, abbiamo dato vita allo Stato moderno. Da quel momento fu costruita la grande impalcatura della nuova era moderna. L’Inghilterra, la grande vincitrice di quel momento storico, lavorando sulle nuove discipline storiografiche (storiografia che era stata dimenticata per secoli), costruisce la sua nuova identità inventando il British Museum e la National Gallery, dando vita allo stesso tempo alle nuove università e scuole.
Il sapere del passato, o meglio, il recupero strumentale del passato greco (Londra come la nuova Atene con l’acquisto dei marmi di Fidia del Partenone fulcro intorno al quale immaginare il British Museum), al centro del discorso identitario, con annesso percorso che bypassando il Medioevo, riparte dal periodo giottesco nelle sale della National Gallery. Le nuove discipline diventano il fulcro della nuova cultura: storia, storia dell’arte, archeologia, geografia modellano i nuovi cittadini.
A 200 anni di distanza, a 200 anni dall’invenzione di discipline, musei, accademie, scuole, ecc. (che hanno costituito l’ossatura di questo percorso bicentenario), sarebbe forse ora di iniziare a domandarsi verso dove stiamo procedendo: in questi decenni l’infrastruttura culturale (sempre e purtroppo nella sua accezione di ‘cosa’ per il tempo libero) è rimasta strutturalmente la stessa, anche se attraversata da mille pensieri, teorie, approcci. Dal positivismo al crocianesimo, dal pensiero marxista al postmodern, dalle diverse teorie storiografiche alle cultural studies, da Gramsci a Foucault, Derrida, Anderson, Hobsbawm, Augé, non ci sarebbe spazio qui per elencare correnti e pensatori che hanno segnato il tempo, senza peraltro avere effetto sulle forme del nostro spazio, marcato ancora dalle istituzioni di sempre (accademie, scuole, musei, ecc.). Lo stesso secolare dialogo fra discipline umanistiche e scientifiche, costruito sempre su di un sano confronto, sembra evaporato, così come ci ha recentemente ricordato Giuseppe Genna su queste pagine.
Come dice un altro grande padre, Bauman, siamo in un periodo di interregnum, sociale e culturale, e per assurdo, dalla sua liquidità sembriamo non sapere venirne fuori con vocabolari nuovi di riferimento.
Nel frattempo, dallo smarrimento del post Novecento emergiamo con la consapevolezza di una democrazia occidentale in crisi e con un sistema del lavoro stravolto: Carl Benedikt Frey e and Michael A. Osbornein già nel 2013 denunciavano che in pochi decenni circa il 47 % delle professioni (in USA), tipiche del ‘900, scomparirà nei prossimi anni, vittime della computerizzazione della nostra società.
Una società in piena evoluzione, con noi spettatori. Oppure no?
L’idea di questo contributo nasce dalla sensazione che di fronte ad un vuoto del pensiero ufficiale e la fissità delle sue infrastrutture, mille sparsi pensieri (e pratiche) si stiano infiltrando nei meandri del tessuto territoriale, senza però riuscire a fare rete, rifondando insieme nuovi spazi di riferimento. È come se ci muovessimo su di un terreno antico senza riconoscerne più i markers ufficiali, mentre sottoterra si stanno costruendo fondazioni e gallerie che si intersecano senza ancora trovare la luce dello spazio riconosciuto.
Mentre le pagine di cheFare e di mille altri luoghi del dialogo immaginano incroci e/o pratiche di rigenerazione culturale (come suggerisce Anna Lucia Cagnazzi), dobbiamo iniziare ad immaginare i luoghi di elaborazione del pensiero, che dal basso, dalle pratiche dei beni comuni, diventino i nuovi spazi di riferimento.
Avendo sempre lavorato in un ambito accademico – che sento sempre più stanco e ossessionato solo a rispondere all’ufficialità degli atti ministeriali, ma poco incline a interrogarsi sul senso di sé e della missione educativa proiettata al futuro che le nuove generazioni giustamente richiedono –, sono rimasto colpito dalle parole di FF3300, recenti vincitori del bando cheFare con la Scuola Open Source: ‘‘C’è domanda di futuro, ma l’Università non è in grado di rispondere’’.
È vero, hanno ragione. L’accademia è silente, i ministeri (MIUR e MIBACT) si arrovellano a ragionare ancora nei vecchi spazi della cultura, senza rendersi conto che tutto sta cambiando intorno a loro.
Dagli open data alle pratiche di coinvolgimento delle comunità, dai musei come case aperte alle nuove narrazioni social (e non), dalla burocrazia creativa alle imprese culturali e creative che stanno sostituendo il concetto di welfare, dalla paesologia alle pratiche dei beni comuni, questi sono i mille laboratori al lavoro nel declinare un nuovo senso di cittadinanza.
Tutti con un’unica inconsapevole (o meglio, non ancora fra tutti condivisa) missione, quella di fondare una teoria della società, superando lo Stato moderno di 200 anni fa e riposizionando la cultura al centro della ridefinizione di un noi (oltre le nicchie della cosiddetta innovazione).
Parto dalla mia prospettiva, sono archeologo: non entro qui nei dettagli di una disciplina, che, come molte altre nel campo umanistico, sento ancora interrogarsi rispetto a domande fatte decenni fa. Ricerca, tutela, valorizzazione, si sono perse in un vocabolario antico, in un dialogo che in questi giorni si arrovella sulle riforme delle soprintendenze, senza capire che la relazione cittadinanza/memoria sta nel frattempo drammaticamente cambiando. Le nuove generazioni, avvezze a percorsi logici diversi influenzati come sono dalla nuova cultura dell’internet (che pare stia anche ristrutturando il nostro cervello), studiano meno storia, e si appassionano più ad altre forme di narrazione, in cui sta emergendo una nuova ‘visione digitale’ (come emerge anche dal bel libro di Simone Arcagni), che va oltre i ‘monumenti e opere’ della tradizione.
La stessa crisi colpisce i musei che a livello ministeriale sembrano solo voler nutrire il vecchio concetto di rilancio dell’economia attraverso l’obsoleto meccanismo di luogo di bigliettazione: in questi spazi invece si stanno infilando nuove generazioni che sentono di dover non solo raccontare, ma anche liberare gli oggetti, oltre le mura del museo stesso (e qui cito, fra tante, le voci di Maria Chiara Ciaccheri, Maria Elena Colombo e Christian Caliandro), per nutrire nuovi intrecci identitari.
Alla base c’è una crisi culturale del pensiero occidentale, che non sa più come raccontarsi, e quindi viversi: incapaci di rigenerarci attraverso un nuovo pensiero storiografico (mentre per assurdo in contemporanea è stata decretata la morte anche del suo pensiero nemico, il postmodernism), ci asserragliamo dentro alle vecchie istituzioni, inneggiando alla conservazione forse anche di noi stessi, morenti.
Spesso dico che l’archeologia è il simbolo di questa nostra insita schizofrenia: noi scaviamo ciò che l’umanità ha deciso nel passato di cancellare. La portiamo alla luce, e decidiamo che tutto debba essere conservato. Conserviamo, infilando noi stessi nelle teche. Un po’ come la storia della Matera, la mia città: 60 anni fa luogo della vergogna, oggi, celebrata come centro Unesco e Capitale Europea della Cultura per il 2019, a rischio di svendita al turismo. Bella o vergognosa, museo vuoto di quale dimensione? Così i mille paesi che hanno rappresentato dal Medioevo in poi l’ossatura dell’Italia interna, sempre più spopolati: li conserviamo come future novelle Pompei mentre i territori si stanno sbriciolando.
Sempre da archeologo dico che spesso dimentichiamo che la nostra disciplina ragiona per stratigrafie, ristabilendo una relazione fisico/materiale con i luoghi che abitiamo. Ma usiamo questo approccio sempre al passato, senza renderci conto che la prima relazione con l’antico parte dallo strato superiore, di chi oggi vive quegli stessi luoghi. Per fare un esempio drammatico, che dimostra l’obsolescenza occidentale, urliamo alla distruzione delle antichità siriane, mentre dimentichiamo che è la cultura siriana contemporanea, che vive quel luoghi, che è stata violentemente sradicata (intanto poi qui copriamo le statue..).
Dobbiamo unire le voci perché le nostre pratiche escano dalla frammentata sperimentazione. Quelle voci, armonizzate, diventano quel pensiero oltre l’interregno.
Concentriamoci per esempio su di un uso veramente rivoluzionario degli open data come elemento non di falsa trasparenza, ma di consapevole uso dei beni comuni (qui rimando a Luca Corsato).
Usciamo dai musei, o meglio, usiamoli come laboratori per esplorare il vero racconto che sta fuori dalle mura stanche: capiamo come dall’Italia si possa generare un nuovo racconto (senza decadere in storytelling spesso solo brand di riverniciatura), che pervada il territorio, vero luogo dell’esperienza umana. Liberiamoci del complesso dell’innovazione (spesso termine usato per rimanere sulle mensole del vecchio sistema) e affrontiamo la questione dei commons come vera palestra di una nuova cultura (e qui il richiamo a Christian Iaione).
Uniamo le mille voci che nutrono questa prospettiva. Cosa ci manca, l’interlocutore (come mi diceva pochi giorni fa Alessandro Bollo, nel descrivere la fatica che quotidianamente compiamo nel far sì che le nostre pratiche abbiano un riconoscimento)? Se per interlocutore, intendiamo ancora il vecchio Stato moderno, si, abbiamo problemi. Ma quello Stato non ha più parole, e noi tante. E anche economicamente, dovremmo richiamare lo stato che è in noi ad un senso di responsabilità ad investire sul vero pubblico che rappresentiamo, così come ci richiama Marianna Mazzuccato, muovendoci anche su parametri di misurazione diversa, oltre il PIL, come il Social Progress Index. Perché il nostro lavoro non si misura per prodotti, ma per la capacità che abbiamo di costruire nuovi sensi di cittadinanza. Un’impresa mastodontica? Contiamoci, l’impressione è che ci siamo.
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