Dissonanze americane
di Alessandro CASICCIA, da “alfabeta2“, 1 ottobre 2017
Notoriamente, la letteratura può aiutare a cogliere il lato profondo di certe svolte della Storia immaginandole come possibilità del passato, narrandole come fossero reali e vicine in certo modo a quelle realmente accadute. Ciò sembra particolarmente evidente nella narrativa americana, specie considerando il tratto che va dall’era fordista ai giorni nostri. Il complotto contro l’America può costituire un esempio e offrire un’occasione. Scritto nei primi anni duemila ma ambientato nel 1940, il romanzo di Philip Roth è fra le opere che in modo più abile e sottile svelano alcune relazioni apparentemente paradossali tra gli Stati Uniti, patria della democrazia, e le dittature di estrema destra trionfanti allora in Europa. Ogni accostamento con l’esito delle presidenziali americane alla fine del 2016 (come già segnalato qui, a caldo) è addirittura scontato. Pensiamo all’influenza avuta in quella campagna elettorale da un ammiratore di Evola, d’Annunzio, Guénon, Mussolini stesso. Si parla di Steve Bannon naturalmente, ora uscito di scena e divenuto critico, così parrebbe, nei confronti di quel Donald Trump di cui era stato autorevole consigliere. Pensiamo anche alla riapparizione dello slogan “America first” che tre quarti di secolo fa, nel momento più acuto della Seconda Guerra Mondiale, era stato lanciato da esponenti isolazionisti, anti-rooseveltiani e filofascisti contro l’imminente possibile entrata in guerra degli Stati Uniti,
L’elezione dell’attuale presidente non poteva non ridestare l’interesse per molti altri romanzi distopici, dove tempo prima era stata descritta una deriva nazionalista e razzista dell’Unione. Si può pensare a opere come quella di Philip K.Dick La svastica sul sole; ma ancor più a Tutti gli uomini del re di Robert Penn Warren e a Da noi non può succedere di Sinclair Lewis. Pur appartenendo a quel filone narrativo, il romanzo “allostorico” di Roth si distingue per vari aspetti. Il germe della deriva nazista sembra più sottile, più interno. Inoltre, lo svolgimento dei fatti nella finzione è meno “alternativo” rispetto al corso reale della Storia. Lungo tale corso, viene immaginata una “deviazione”. Inizia un vero incubo, certamente, che però si protrae per un paio d’anni scarsi; poi le vicende narrate si riallineano a quanto in quegli anni era realmente avvenuto.
Grande scrittura ma anche documento sociologico. Come Pastorale americana o altri romanzi di Roth, The Plot Against America è ambientato a Newark, capitale del New Jersey. Solo il fiume Hudson separa da Manhattan quello stato. Ma, nel quartiere dove vivono i Roth, i tratti culturali della comunità ebraica appaiono meno caratterizzati rispetto a quelli del Lower East Side o di altri distretti yiddishdi New York City. E ciò rende ancor più estendibile il senso di tutta la vicenda.
Anche se la trama è piuttosto conosciuta, alcuni cenni possono aiutare a ricollocarla. Siamo nel 1940. Parigi è ormai caduta. L’Europa continentale è in mano al nazi-fascismo; e sul suo lato orientale, Hitler non ha ancora violato il patto con l’Unione Sovietica. L’Inghilterra, che rappresenta l’ultimo baluardo di un mondo libero, appare sull’orlo della sconfitta. Alle elezioni presidenziali, Roosevelt si presenta per il suo terzo mandato. Fin qui, tutto come nella realtà. A questo punto però qualcosa cambia. I repubblicani candidano il leggendario aviatore Charles Lindbergh, che vince le elezioni. Il suo successo è in buona misura dovuto alle dichiarazioni contro l’entrata in guerra. Le quali però sono dovute all’ideologia filo-nazifascista che permea il nuovo governo. Inizia un periodo oscuro e angosciante, specie per le famiglie ebraiche come i Roth. Che attraverseranno momenti drammatici ma troveranno solidarietà anche in personaggi fuori dal loro stesso ambiente.
Rispetto ai grandi eventi effettivamente accaduti sulla scena mondiale la vicenda narrata presenta, come si è detto, temporanee modifiche, “variazioni sul tema”; cui seguirà un rientro nel corso storico reale, ma solo verso la fine. Ai primi d’ottobre del 1942, Lindbergh in volo scompare misteriosamente. Solo più tardi si avrà una spiegazione, ma nel frattempo viene riaperta la campagna elettorale e Roosevelt questa volta viene eletto per il suo terzo mandato. Con qualche mese di differenza rispetto alla realtà storica, si va rapidamente al riallineamento: il Giappone attacca Pearl Harbour e l’America entra in guerra.
Per inciso dobbiamo ricordare che negli ultimi decenni del Novecento, e anche nei primi anni del Duemila, a contestare gli interventi militari americani nel mondo, erano stati i movimenti pacifisti e antimperialisti. Ma decenni prima, negli anni Quaranta dello stesso secolo, era esistito un altro anti-interventismo, di segno enormemente diverso: quello di molti repubblicani isolazionisti; fra essi Lindbergh, che tra l’altro aveva realmente dichiarato le proprie simpatie per il Terzo Reich. Analoga posizione era stata a quel tempo assunta da altre personalità come Charles E. Coughlin, prete cattolico fortemente antisemita che da Detroit, capitale del Michigan, trasmetteva un programma settimanale diffuso in tutti gli Stati, dove tra l’altro F.D. Roosevelt era accusato di “comunismo”. Ma attenzione: Detroit era soprattutto il regno di Henry Ford, il grande uomo d’industria, antisemita a sua volta, che nel romanzo Lindbergh sceglie come ministro dell’interno.
È ora il momento di uscire del tutto dal romanzo, aprendo alcune considerazioni proprio su Ford e sull’era del fordismo: a partire da quella sua storica capitale, che fu sede della più grande produzione automobilistica e patria di rivoluzioni industriali, di grandi innovazioni organizzative, di produzioni per un mercato di massa. Il sistema tayloristico di organizzazione scientifica del lavoro, era stato sviluppato dalla linea fordista operando un inglobamento del lavoro nel processo di produzione. E non solo del lavoro, ma anche della vita stessa. Quel processo si sarebbe molti decenni dopo capovolto in un’azione escludente, per effetto della deindustrializzazione e delle delocalizzazioni: di tutti quei processi che dovevano segnare la fine di un mondo e confluire nella crisi economica culminata poi tra la fine del novecento e l’inizio del nuovo millennio.
Oggi Detroit, dopo tanti decenni di semi abbandono e di degrado sociale e urbano, sta divenendo oggetto di una super-gentrificazione, che però lascia fuori il superstite proletariato e non risolve i problemi di fondo. Forse sottolineando ancor più i drammi di chi resta escluso. Il declino strutturale e occupazionale della grande industria è stato imputato al globalismo neoliberista delle élites manageriali e finanziarie e il voto operaio per Trump è sembrato attribuibile alla sommaria condanna di quelle élites da parte del candidato presidente; oltre che alla speranza da lui suscitata, con illusorie promesse, in una politica di reindustrializzazione. Chi s’interroga su quel voto non dovrebbe comunque dimenticare certi peculiari caratteri del proletariato americano bianco che in parte lo differenziano da quello europeo: la mancanza di riferimenti politici in primo luogo; poi un pregiudizio razziale a tratti riaffiorante e riconducibile all’uso tardo-ottocentesco di forza-lavoro ex–schiava come “esercito di riserva” per la rottura di molti scioperi. A ciò alcuni storici aggiungono un superstite orgoglio puritano del lavoro, parzialmente poi assimilato anche da molti lavoratori non WASP.
La storia di chi originariamente aveva posto Detroit al centro di un dinamico mondo industriale, Henry Ford appunto, è stata segnata da sorprendenti dissonanze culturali e da contraddittori atteggiamenti politici. L’innalzamento del salario e la riduzione dell’orario furono misure cui gli altri attori in scena, come la GM e la Chrysler, reagirono inizialmente con sdegno, considerandole un tradimento delle posizioni padronali. Per Ford quelle misure dovevano costituire la condizione di un nuovo mercato di massa, cui però doveva accompagnarsi una razionalizzazione della vita economica e una moralizzazione della vita privata. Lo stesso proibizionismo peraltro rientrava in quella visione. E il rapporto con le organizzazioni sindacali assunse le forme di uno scontro durissimo. Nel 1932, ad esempio, le milizie private di Ford mitragliarono una manifestazione operaia causando morti e feriti. L’azienda aprirà infine trattative con l’UAW solo nel 1941.
Circa la vicinanza di Ford al nazi-fascismo, possiamo ricordare che un suo scritto fortemente antisemita, The International Jew, aveva preceduto e parzialmente ispirato il Mein Kampf. In seguito Ford fu anche decorato da Hitler con un’alta onorificenza. Non va tuttavia ignorato che il suo modello organizzativo venne attaccato non solo da sinistra, da critici del lavoro alienato, dell’asservimento razionale della vita stessa; o da coloro che (come Simone Weil) avevano sperimentato di persona la linea di montaggio. Venne infatti respinto anche da scrittori “rivoluzionari di destra” come Céline. E soprattutto da gran parte della stampa e della cultura del periodo fascista. Durante gli anni Trenta molti intellettuali italiani vedevano trionfare nel sistema fordista quel meccanicismo e quel materialismo che attribuivano alla modernità americana; e che accusavano di dissacrare un’allora diffusa visione idilliaca e “spirituale” dell’Italia e in certa misura dell’intera Europa.
Nello schierarsi di Ford contro Roosevelt potremmo poi cogliere un altro paradosso, considerando la fattuale funzionalità del suo sistema all’applicazione del New Deal, perlomeno nei suoi aspetti keynesiani: a partire dall’accento sul ruolo della domanda, reso possibile anche grazie alla politica di alti salari praticata nel fordismo. D’altra parte (ed ecco un ulteriore, apparente motivo di curiosità) va ricordato che le politiche d’intervento pubblico nell’economia avviate da Roosevelt (e realizzate come s’è visto anche con il contributo indiretto dell’antirooseveltiano Ford) destarono l’interesse di Mussolini, che il 24 aprile del 1933 scrisse a Roosevelt una lettera molto cordiale, dove esprimeva il suo interesse per l’avvio del piano d’intervento pubblico nell’economia, cui riteneva accostabili i primi provvedimenti concernenti le partecipazioni statali e l’istituzione dell’IRI. Non va dimenticato peraltro che nove anni prima (altra apparente “dissonanza”) l’Italia fascista era stata fra i primi stati a riconoscere l’Unione Sovietica. Ma non va neppure ignorato come Gramsci, recluso nelle carceri mussoliniane, avesse osservato la funzionalità del modello di sviluppo fordista al salvataggio, almeno temporaneo, del capitalismo insidiato dalla crisi e corroso dalle sue stesse interne contraddizioni. Sarebbe certo errato interpretare quelle note come una piatta apologia gramsciana del modello americano. Ma non meno errato sarebbe ignorare del tutto quel lato marxista del suo pensiero, che solo nella fase avanzata del capitalismo prevedeva maturassero le condizioni di un suo possibile superamento.
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