“ILSISTEMA DI CURE PER TUTTI È GIÀ FINITO” da IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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“ILSISTEMA DI CURE PER TUTTI È GIÀ FINITO” da IL FATTO

“Il sistema di cure per tutti è già finito. È un disastro sociale ed economico”

NINO CARTABELLOTTA – Presidente della fondazione Gimbe. “Il tempo è scaduto tra l’indifferenza di tutti i governi”

 STEFANO CASELLI   9 MARZO 2023

“La fine del Sistema sanitario nazionale pubblico e universalistico porterà a un disastro sociale ed economico senza precedenti. Ma temo che nessuno se ne renda conto”. Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, da anni misura la temperatura della sanità italiana. Che, inesorabilmente, continua a salire.

Cartabellotta, è davvero “in gioco il Sistema sanitario pubblico e universalistico” come ha denunciato ieri, incontrando il governo, Raffaele Donini, assessore in Emilia-Romagna?

Purtroppo sì. Il sistema è stato travolto dal Covid dopo un imponente definanziamento di circa € 37 miliardi negli anni 2010-2019. Il capitale umano si è ulteriormente depauperato; sono emersi nuovi bisogni di salute quali long-Covid e disturbi psicologici e psichiatrici; non si riescono a recuperare le prestazioni non erogate durante la pandemia. E gli investimenti 2020-2022, assorbiti dall’emergenza, non permettono alle Regioni di mantenere i conti in ordine. E difficilmente ci saranno margini per nuove risorse a breve termine.

Quanto tempo rimane?

Il tempo è già scaduto tra l’indifferenza di tutti i governi che continuano a ignorare tre concetti chiave. La sanità pubblica è una conquista sociale irrinunciabile. Il livello di salute e benessere della popolazione è una determinante per la crescita economica del Paese. Infine, che la perdita – lenta ma inesorabile – di un servizio sanitario pubblico e universalistico, oltre a compromettere la salute delle persone, porterà a un disastro sociale ed economico senza precedenti.

La pandemia non ci ha insegnato nulla?

Assolutamente no. Inizialmente il Ssn sembrava essere tornato al centro dell’agenda. Poi con la fine dell’emergenza tutto è rientrato nei ranghi. Nel Def 2022 (governo Draghi) il rapporto spesa sanitaria/Pil nel 2025 crolla al 6,1% e nella Nota di aggiornamento del Def (governo Meloni) viene ridotto al 6%; e la legge di Bilancio 2023 non ha previsto alcun rifinanziamento strutturale del Ssn, ma ha lasciato alla sanità solo briciole, in larga parte destinate a coprire i costi dell’energia.

Come affrontare la carenza cronica di medici e infermieri?

Stanziare consistenti investimenti per valorizzare e motivare la colonna portante del Ssn e programmare il fabbisogno di medici, specialisti e altri professionisti sanitari. In caso contrario, rischiamo lo svuotamento del Ssn da professionalità capaci di garantire la qualità dell’assistenza, affidando in parte la gestione delle risorse umane a società private senza alcun controllo e spendendo ingenti somme di denaro pubblico.

Di fatto, cosa rischia concretamente di non trovare più un cittadino se va avanti così?

Il diritto costituzionale alla tutela della salute. Sarà impossibile accedere in tempi ragionevoli a servizi e prestazioni necessarie, ricorrendo al privato se può pagare, oppure rinunciando. È il cosiddetto “universalismo selettivo” che non è affatto una minaccia incombente, ma una realtà quotidiana, soprattutto al Sud.

A che servono i soldi del Pnrr se non possono essere utilizzati per la spesa corrente?

Senza investimenti sulla spesa corrente solo a un costoso lifting.

Istat: le liste d’attesa infinite ingrassano la sanità privata

Numeri. Nel 2021 la spesa per strutture non pubbliche era di 41 mld. L’anno scorso è aumentato del 5% chi ha pagato di tasca propria

MARCO PALOMBI  9 MARZO 2023

Le mancanze del Servizio sanitario nazionale ingrassano la sanità privata, specialmente grazie alla spesa diretta delle famiglie (cosiddetta “out of pocket”) che aumenta da anni, escluso il 2020 dei lockdown, e che nel 2022 è stata spinta in particolare dalle lista d’attesa infinite. Questo, in estrema sintesi, il contenuto di un’audizione dell’Istat di ieri in Senato. È l’altra faccia della notizia che Il Fatto ha riportato sempre ieri, cioè l’allarme sul sistema sanitario lanciato al governo dalle Regioni: mancano medici, infermieri, strutture territoriali e ovviamente soldi, perché dopo un sotto-finanziamento durato un paio di decenni e lo choc del Covid l’universalità del Ssn e persino il suo funzionamento sono a rischio. Le Regioni chiedono subito le spese “pandemiche” non ripianate dallo Stato (circa 4 miliardi), ma anche un percorso pluriennali di aumento dei fondi sulla salute: non pare aria visto che l’Italia si è impegnata con l’Ue a riportare il bilancio in avanzo primario, impegno messo nero su bianco dal governo nella Nota di aggiornamento al Def.

E ora veniamo all’Istat: altri dataset possono dare numeri diversi, persino “peggiori” di quelli dell’Istituto statistico nazionale, ma è il trend che conta. Nel 2021, ultimo dato definitivo disponibile, la spesa sanitaria in Italia era complessivamente di circa 168 miliardi di euro: lo Stato ne finanziava il 75,6%, il resto – che in soldi fa 41 miliardi – era a carico delle famiglie, in gran parte mettendo direttamente mano al portafogli (35,6 miliardi di spesa “out of pocket”) e per una quota molto minore attraverso assicurazioni volontarie (4,5 miliardi). Il 2021, è bene tenerlo a mente, è uno dei due anni in cui la spesa sanitaria dello Stato è cresciuta per l’emergenza Covid: se prendiamo il periodo 2012-2019 (escludendo gli anni della pandemia) la spesa pubblica è salita dello 0,8% l’anno in media (meno dell’inflazione, il che si traduce in un taglio, tanto più che l’inflazione sanitaria normalmente è assai più alta di quella generale), la spesa diretta delle famiglie del 2,1% annuo e quella assicurativa del 4,3%. Cosa ci compravano le famiglie con quei soldi? Visite e cure ambulatoriali (36,5% del totale), farmaci (29,3%), degenza ospedaliera a lungo termine e apparecchi terapeutici da usare a casa (10,4% per ciascuna voce).

Il trend, secondo i dati preliminari comunicati dall’Istat in Parlamento, è proseguito nel 2022 probabilmente peggiorando: la percentuale di cittadini che hanno rinunciato alle cure è tornata ai livelli pre-Covid (il 7% contro l’11,1% del 2021 e però il 4% del 2008), ma con diversa composizione geografica (aumenta il peso del Nord) e sociale (sale la quota dei benestanti). Questa l’interpretazione di Istat: “Nel confronto tra il 2022 e gli anni pregressi della pandemia, emerge un’inequivocabile barriera all’accesso costituita dalle lunghe liste di attesa, che nel 2022 diventa il motivo più frequente” di rinuncia alla prestazione medica, persino più dei motivi economici (il 4,2% della popolazione contro il 3,2).

Questo comporterà, quando avremo i dati definitivi, un probabile corposo aumento della spesa privata diretta: “Un altro aspetto che potrebbe evidenziare una maggiore difficoltà di accesso alle cure è che per soddisfare il bisogno di prestazioni sanitarie è stato necessario un maggior ricorso all’“out of pocket” o a spese sanitarie garantite da copertura assicurativa”.

L’anno scorso, dice Istat, la composizione della spesa per visite e accertamenti “si sposta di alcuni punti percentuali da prestazioni a carico del Ssn o gratuite a quelle pagate di tasca propria o con rimborso parziale o totale da parte delle assicurazioni private o aziendali”: nel 2019 il 37% degli intervistati dichiarava di aver pagato del tutto privatamente una visita specialistica, l’anno scorso erano il 41,8%; stesso discorso per gli accertamenti diagnostici (dal 23 al 27,6%). Prestazioni tra le più colpite dalle infinite liste d’attesa nella sanità pubblica che diventano sempre più profitto privato: da notare che la quota del campione coperta da un’assicurazione è un residuo 5% e che – specie per il “welfare aziendale” – si parla della parte più ricca dei lavoratori (il quinto col reddito più basso vale il 2,5% della spesa).

Sanità, ultimatum Regioni al Governo: “4 miliardi o è crac”

IERI PRIMO INCONTRO CON GIORGETTI E SCHILLACI – Il disastro annunciato. Mancano soldi, infermieri e medici: Parigi e Berlino spendono 40 mld in più

NATASCIA RONCHETTI  8 MARZO 2023Ieri mattina, Raffaele Donini, coordinatore della commissione Sanità della Conferenza delle Regioni, ha pubblicato un post su Facebook: “È in gioco il sistema sanitario pubblico e universalistico. Lo devono capire”. Un invito al governo Meloni a comprendere fino in fondo la profondità del baratro nel quale sta precipitando il Servizio sanitario nazionale. Ed è stato con i numeri alla mano che Donini si è presentato nel pomeriggio, alla guida di una delegazione di assessori regionali alla Salute (insieme a lui anche il presidente della Conferenza delle Regioni, Massimiliano Fedriga) all’incontro con il ministro dell’Economia e delle finanze, Giancarlo Giorgetti, e con il titolare del dicastero della Salute, Orazio Schillaci. Il tempo è scaduto. “Dobbiamo intervenire subito e nel modo più appropriato – ha esordito Donini –. Perché non vorremmo trovarci nella condizione di affermare che l’operazione è riuscita ma il paziente è morto”. Subito significa proprio subito per le Regioni: con l’attivazione immediata di un tavolo di lavoro che entro e non oltre la fine di aprile, cioè tra meno di due mesi, individui gli “interventi urgenti e risolutivi di ordine finanziario e legislativo attraverso i quali consentire alle Regioni di non interrompere la programmazione sanitaria ed evitare la riduzione dei servizi”. D’altronde il sistema è quasi al collasso. “Siamo alla canna del gas”, ammette Luigi Icardi, che guida l’assessorato alla Salute del Piemonte.

Sì, perché tutti i nodi sono venuti tragicamente al pettine. Lo storico sotto-finanziamento del servizio sanitario nazionale; il mancato rimborso di una buona parte delle spese sostenute per combattere la pandemia (mancano all’appello 3,8 miliardi); la continua fuga dei medici dagli ospedali – un esodo che sta facendo della gravissima carenza di specialisti una voragine: ne mancano più di 15 mila –; la necessità di arrestare questa fuga con riconoscimenti economici e professionali. “Da tre anni chiudiamo i bilanci con nostre risorse straordinarie e per questo in molti casi irripetibili – osserva Donini –. Non è accettabile essere sottoposti a un piano di rientro, che significa taglio dei servizi e tasse in più, a causa del sotto-finanziamento e dei mancati rimborsi. I soldi si devono trovare. Saltano fuori per le armi e invece non si spendono per il servizio sanitario, che deve al contrario essere la priorità”. È vero, Giorgetti e Schillaci hanno promesso un immediato tavolo di confronto. Altrettanto, però, non hanno fatto per quanto riguarda l’incremento della dote finanziaria. “Solo che se non si trovano subito i finanziamenti e non si interviene rapidamente anche sul piano legislativo il sistema non reggerà”, dice Icardi.

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Lo scenario del resto è drammatico, il confronto con gli altri Paesi europei (per spesa sanitaria in rapporto al Pil) è impietoso. In pratica, dicono le Regioni, se si volessero raggiungere i livelli del Regno Unito servirebbero circa 20 miliardi in più all’anno, addirittura 40 per stare al passo con Germania e Francia. Invece è stata addirittura innestata la retromarcia: la nota di aggiornamento al Def (rivista e aggiornata il 4 novembre 2022), prevede una spesa sanitaria per il 2025 pari al 6% del Pil (nel 2019 era al 6,4%). Un arretramento nel contesto di un sistema ospedaliero che era già stato ampiamente spolpato prima della pandemia: in dieci anni sono stati tagliati 35 mila posti letto.

“Ormai anche le Regioni benchmark, come Emilia-Romagna, Toscana, Veneto sono in forte difficoltà”, avverte Pierino di Silverio, segretario nazionale di Anaao, sindacato dei medici ospedalieri. Tanto che lo storico confronto tra Nord e Sud su questo punto potrebbe ormai avere anche poco senso. Mancano gli infermieri (circa 60 mila) e mancano gli specialisti. La mappa sulle gravi carenze di medici ospedalieri, redatta sempre da Anaao qualche tempo, fa spiega che la Sicilia ha un deficit superiore ai 60 medici in quasi tutte le principali specialità (11 su 13). Proprio come la Toscana. La Puglia non ce la fa in nove specialità, nessuna regione ha un organico adeguato. Solo che questa mappa è già persino preistoria, ampiamente approssimativa, oggi, per difetto.

Mentre le liste d’attesa per accedere alle prestazioni appaiono aumentano i medici specialisti continuano a fuggire dal pubblico. Si chiamano dimissioni inattese. “Sette al giorno solo nel 2020 e nel 2021”, rammenta Di Silverio. C’è poi la questione dei Pronto soccorso, la più grave, come rilevato dalle stesse Regioni, che chiedono anche una revisione del tetto di spesa al personale, con “una metodologia che ne definisca il fabbisogno effettivo”. L’indennità aggiuntiva riconosciuta dal ministro Schillaci a medici e infermieri dell’emergenza-urgenza non basta. Tanti continuano a scappare, stremati da turni massacranti mentre le scuole di specialità vedono andare a vuoto i contratti di formazione: tra il 2021 e il 2022 non ne sono stati assegnati quasi il 55%. Risultato, concludono le Regioni, “occorre rendere esigibile il principio secondo il quale nessuna Regione debba sottoporsi a piani di rientro o di riduzione dei servizi o di aumento della fiscalità a causa del mancato riconoscimento dell’attuale criticità finanziaria. In caso contrario sarebbe irrimediabilmente compromesso il sistema sanitario universalistico”.

Già due anni fa la spesa sanitaria privata, che continua a crescere, aveva superato la soglia del 25% di quella annua complessiva: oltre 40 miliardi. Chi può, infatti, si rivolge ai privati. Cosa che approfondisce il solco che separa il Settentrione (più ricco) dalle regioni del Sud (più povere). Per esempio: nel 2021 la spesa privata pro-capite a livello nazionale è stata di 623 euro. Ma le differenze tra le varie aree del Paese si sono rivelate macroscopiche: si passa da 849 euro a 335. E la stessa cosa si rileva nella sanità integrativa. Quattro anni fa, hanno avvertito ancora una volta le Regioni, le persone assicurate erano 13,9 milioni, per il 43% concentrate nel Centro-Nord, per il 9% nel Meridione. Con buona pace dell’equità nell’accesso alle cure.

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