Halper: «Guerre contro i popoli: il modello è Israele»
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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Halper: «Guerre contro i popoli: il modello è Israele»

di Chiara CRUCIATI, da “il manifesto“, 19 ottobre 2017

Intervista. «Il capitalismo globale reprime i popoli usando il concetto di pacificazione. Ma l’Occidente non ha molta esperienza in questo tipo di conflitti. E Israele gli fornisce armi e high tech», spiega lo storico attivista e fondatore di Icahd

Guerre contro-insurrezionali, anti-terrorismo, guerre non convenzionali, limitate, guerre a bassa intensità. Nell’ultimo decennio il mondo ha assistito alla trasformazione del concetto di conflitto militare: da guerre tra Stati e eserciti a guerre contro i popoli. Repressione, stato di polizia, frontiere chiuse al passaggio di esseri umani ne sono la plastica rappresentazione.

In cima alla piramide del mercato globale della sicurezza c’è Israele, paese che conduce da 70 anni una guerra contro un intero popolo, quello palestinese. Ne abbiamo discusso con Jeff Halper, fondatore di The People Yes! Network e di Icahd, Comitato israeliano contro la demolizione di case.

In questi giorni è in Italia per la presentazione del libro La guerra contro il popolo. Israele, i palestinesi e la pacificazione globale (ed. Epokè).

I sistemi usati oggi in Europa per impedire l’ingresso dei rifugiati lungo le rotte terrestri sono spesso made in Israel.

Muri, sistemi di sorveglianza, barriere high tech che individuano i movimenti umani: è tutto israeliano. Israele vende in Europa le tecnologie di confine sviluppate sui palestinesi a Gaza e in Cisgiordania. Questa è la Palestina globalizzata. Israele sa che i palestinesi non rappresentano alcuna minaccia ma forniscono un conflitto di basso livello che gli permette di sviluppare armi e sistemi di sicurezza e sorveglianza da esportare sul mercato globale. Israele è all’avanguardia perché ha un popolo intero da usare come cavia da laboratorio.

Il libro introduce i concetti di «conflitto securitario» e «industria globale della pacificazione». Perché il modello israeliano è diventato globale?

L’occupazione israeliana va posta oggi all’interno del sistema capitalista globale che, entrato in crisi, è divenuto maggiormente coercitivo. Cambia anche la guerra: dalle guerre tra Stati, convenzionali, si è passati oggi a guerre contro i popoli, repressive di istanze popolari e a bassa intensità. Il capitalismo globale reprime i popoli utilizzando il concetto di pacificazione, ovvero una forma di repressione popolare che rende la base incapace di reagire e riorganizzarsi.

E, a parte il caso del Vietnam per gli Stati uniti, il nord globale – il centro del sistema capitalista mondiale – non ha molta esperienza in questo tipo di conflitti. Ed è qui che Israele si inserisce: ha le armi, le tattiche, il sistema di sicurezza e sorveglianza, il sistema di controllo della popolazione a cui oggi anelano le classi dirigenti di tutto il mondo. E questo dà a Israele un potere nuovo, sul mercato militare ma anche sul piano politico.

Un know how militare che si traduce in cartamoneta politica e diplomatica?

La sua incredibile influenza è proporzionale al bisogno che di Israele ha il capitalismo globale. La chiamo la «politica della sicurezza» che intreccia l’economia israeliana (fondata sulla commistione tra industria bellica e high tech) a influenza politica internazionale.

Alcuni esempi. L’avvicinamento alla Cina: Israele è il secondo o il terzo esportatore di armi a Pechino, tradizionalmente vicina alle istanze palestinesi. O la normalizzazione con l’Arabia saudita che sul piano ideologico dovrebbe essere una nemica ma con cui condivide obiettivi (l’Iran) e bisogni (la repressione interna).

Durante le proteste di Black Lives Matter negli Usa, gli attivisti palestinesi inviavano consigli su come resistere alle cariche della polizia. Se il sistema securitario si globalizza, se il capitalismo si globalizza, è possibile che si globalizzi anche la resistenza?

Il problema è l’assenza della sinistra. Il capitalismo è globalizzato, la cooperazione è globalizzata, gli Stati sono globalizzati e lo sono anche terrorismo e reti criminali. Solo la sinistra non riesce a globalizzarsi. Il movimento delle donne non parla agli attivisti pro-palestinesi, il movimento per il clima non parla a quello per i diritti degli afroamericani e così via. I movimenti di base tendono a restare isolati, limitati, a concentrarsi su temi specifici senza fare i dovuti collegamenti con altre questioni.

La ragione sta nell’incapacità della sinistra di vedere il quadro completo. Le nuove generazioni sono nate e cresciute sotto il modello globale del neoliberalismo, un sistema che ha annullato i movimenti globali e distrutto la collettività, imponendo l’individualismo e la riduzione dei cittadini a consumatori. La sinistra dovrebbe dotarsi di un’agenda globale che leghi le diverse questioni.

Il neoliberismo vive anche istigando la guerra tra gli ultimi.

Le opinioni pubbliche si sono assuefatte alla violenza di questo modello securitario. Il cittadino medio pensa a come proteggersi da soggetti che apparentemente mettono in pericolo il suo lavoro, la sua casa, i suoi interessi, affibbiando le responsabilità del neoliberismo ai soggetti da questo esclusi. Anche qui Israele è modello ad una visione distorta, al non-impatto del modello repressivo sulla società.

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