Ambiente, l’emergenza c’è ma non nelle agende dei governi
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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Ambiente, l’emergenza c’è ma non nelle agende dei governi

di Alberto ZIPARO, da “il manifesto”, 8 luglio 2017

Le «ondate di calore» – le successive «bombe d’acqua», ovvero le precipitazioni iperconcentrate che interrompono bruscamente le fasi di alta temperatura e siccità, disastrando però ulteriormente i già stressantissimi ecosistemi territoriali – sarebbero poco rilevanti se fossero delle vicende occasionali. Purtroppo sono diventati la quasi normalità, con accelerazioni che trovano conferma ai livelli più autorevoli: gli scienziati del gruppo IPCC/UNEP che osservano i cambiamenti climatici, i quali stanno seguitando a ricordare come i tempi già previsti per l’arrivo di eventi disastrosi «tanto frequenti da diventare normali», stiano registrando tremendi accorciamenti; per cui potrebbe accadere tra pochi anni – o addirittura mesi – quanto era previsto nel prossimo trentennio.

A fronte di questo si registrano dichiarazioni (fintamente) preoccupate. E sostanzialmente poco altro. Di fatto i problemi vengono lasciati alle comunità e istituzioni territoriali colpite. Salvo le rituali dichiarazioni «d’emergenza», cui seguono stanziamenti di solito modesti rispetto ai danni.

Stiamo affrontando una questione talmente grande ed epocale da richiedere svolte drastiche, una nuova programmazione nazionale e comunitaria, nonché una riscrittura degli impianti delle leggi di bilancio. Insomma politiche completamente nuove. Colpiscono invece le dichiarazioni di questi giorni: «Noi e l’Europa non siamo come Trump!», e che si rivendichi il rispetto degli accordi di Parigi, e delle altre direttive internazionali già stipulate su ambiente e clima.

Al di là delle declaratorie; e dell’attesa di provvedimenti tanto ampi da rasentare l’astrattezza, che tra l’altro «non dipendono solo da noi», si potrebbe investire subito nel risanare il territorio che riceve le ricadute della crisi ecologica. Ma l’esecutivo a matrice renziana è tuttora quello della logica dell’iperconsumo di suolo, della Legge Obiettivo, abrogata ma vigente tuttora per moltissime opere, e per il resto integrata dai vari provvedimenti «Sblocca Italia» o simili. Mentre si profila già la nuova «Mini IRI» , la superstazione appaltante fusione dalle due aziende cui negli scorsi anni si sono regalati centinaia di miliardi pubblici, Ferrovie e ANAS, oggi gestite da renziani di provata fede.

Peraltro le governance ai diversi livelli si adoperano ogni giorno per aggirare i vincoli territoriali e paesaggistici prescritti da norme e piani. È di qualche giorno fa l’inaugurazione dell’ultima cattedrale nel deserto di Afragola: la stazione alta velocità già sotto inchiesta della magistratura, anche per l’aggiramento o l’obliterazione di qualsiasi regola o valutazione urbanistica e ambientale (a parte il rischio di infiltrazioni criminali). È l’ennesima megastruttura fallimentare nel rapporto costi/benefici, oltre che ecologicamente disastrosa. Che chiude la serie inaugurata dalla «Grande Tiburtina» (vi è già capitato di andarci e trovare un deserto di cemento?) o della stazione medio-padana, in piena campagna reggiana. Sfasci economici e ambientali, ma grandi affari, perfettamente rispondenti ai dettami di un’economia e di una politica «finanziarizzate».

Laddove invece servirebbero svolte drastiche, di definanziarizzazione «delle scelte» e di territorializzazione delle azioni di riassetto sociale. Tra le icone dei problemi di oggi proprio la Toscana dei renziani in declino anche per la pesante rottura a sinistra del presidente della regione Enrico Rossi (interlocutore frequente del giornale): le spaccature politiche hanno comportato qualche svolta nelle azioni ambientali o territoriali? Macché; tutto come prima. È quotidiano l’attacco al Piano Territoriale e Paesaggistico, redatto dalla precedente amministrazione dello stesso Rossi, grazie soprattutto al lavoro dell’allora assessore al territorio, Anna Marson, con il contributo delle università locali. Si seguita, anzi si pretende di rilanciare le grandi opere che hanno messo in crisi le istanze di mobilità sostenibilità sostenibile, e di riqualificazione ecologica dell’area fiorentina: il nuovo aeroporto – che tra l’altro con le stesse prescrizioni del ministero dell’Ambiente diventa progetto pressoché irrealizzabile – e l’inceneritore della Piana, tanto inquinante quanto obsoleto.

Nonostante le pretese di Mdp di fondersi con il Campo di Pisapia, per cui ambiente e sostenibilità sarebbero «irrinunciabili», non si è ancora cancellato neppure il disastroso progetto del sottoattraversamento ad alta velocità di Firenze. Che, al di là dei disastri ambientali e delle inchieste giudiziarie per cui è sempre fermo, è reso palesemente inutile dalle stesse Ferrovie, che chiariscono che la stazione AV di Firenze era e resta Santa Maria Novella; cui si accede agevolmente in superficie, viste le nuove tecnologie. A proposito di direttive sulla sostenibilità e agli accordi di Parigi, va sottolineato che questo progetto, oltre agli impatti sul sottosuolo fiorentino, prevede cantieri che per una decina d’anni consumerebbero acqua ed energia quanto una cittadina di 500 persone! Su questi temi sarebbero graditi, per una sinistra vera, atti concreti e non chiacchiere.

La definanziarizzazione dell’economia (e della politica) dovrebbe comportare un riassetto sociale basato sulle caratteristiche ecologiche dei contesti territoriali. Come un grande studioso dei distretti locali e industriali, Giacomo Becattini, ha indicato nel suo ultimo libro, «La coscienza dei luoghi». Il Belpaese potrebbe essere rilanciato dalle produzioni dei beni della terra, materiali (agricoltura) e immateriali (storia, cultura, arte, paesaggi). Da qui si potrebbero trarre anche le regole per le nuove ecosmart city. Ovvero i criteri per il rinnovo urbano e per la riconversione ecologica e tecnologica delle produzioni industriali.

La riqualificazione di città e territori – per cui esistono oggi solo progetti pilota – è centrale in questo programma: che prevede riorganizzazione idrogeologica e difesa da eventi meteo climatici esasperati nel breve periodo (resilienza eco territoriale: su questo il Comune di Bologna, sotto la guida dell’ex assessore e docente di urbanistica, Patrizia Gabellini, ha redatto un piano «di adattamento climatico» assai interessante); riassetto dei sistemi paesistici e degli habitat, blocco del consumo di suolo e riuso dell’enorme patrimonio edilizio inutilizzato per le domande sociali degli abitanti vecchi e nuovi, con ripresa delle economie ecologiche anche nelle aree interne, nel periodo medio-lungo. In questo quadro, andrebbe incrementata anche la ricerca ambientale, specie pubblica. Invece si prevede di spendere un sacco di soldi per Human TecnoPole, gestito dalla privata IIT, e per istituire le scandalose «cattedre Natta», controllate dall’esecutivo. Mentre si tagliano gli investimenti alla comunità scientifica e ricerca rischia di chiudere il benememerito ISPRA (Protezione e Ricerca Ambientale), con il licenziamento di quasi mille esperti del settore. Forse in realtà vogliamo proprio alimentare la crisi ambientale.

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