Proiettili politici
di Alessandro CASICCIA, da “alfabeta2“, 8 luglio 2017 –
Giugno 2017 Alexandria (Virginia). Colpi d’arma da fuoco vengono esplosi ai bordi di un campo di baseball dove stanno allenandosi esponenti repubblicani. L’attentatore, ucciso dalla scorta, risulta un sostenitore di Sanders, il quale però condanna con sdegno ogni violenza di tal genere. Tra i feriti, Steve Scalise eletto in Louisiana presidente della commissione studi del partito e sostenitore tra i più accesi del “secondo emendamento”, che apre al generalizzato diritto di possedere armi.
Lo sparo ricorre nella storia americana. Nel mirino gente illustre. Non solo personaggi da film western o da detective story; ma uomini politici di primaria importanza, governatori, candidati alla Casa Bianca, presidenti. Il caso di Andrew Jackson, nel 1835, è il primo fra le decine di attentati non riusciti. E fra quelli invece riusciti, va naturalmente ricordato quello in cui perse la vita Abraham Lincoln nel 1865. Il novecento poi si apre con l’uccisione di William McKinley (1901), mentre nella seconda parte del secolo, abbiamo quelle di Malcom X, di Martin Luther King e dei due fratelli Kennedy. Fra i tentativi falliti vanno ricordati quello contro Ford, nel 1975 e quello contro Reagan nel 1981.
Una certa attenzione merita il caso di George Wallace, ferito il 15 maggio 1972 da alcuni colpi di revolver. Quattro volte governatore democratico dell’Alabama e successivamente candidato alle presidenziali, seppure con una lista indipendente, Wallace veniva giudicato dai suoi critici incline al razzismo e fascisteggiante. Si dichiarava però amico dell’operaio, del contadino, del piccolo borghese impoverito. E, naturalmente, nemico delle élite, specialmente di quelle intellettuali, universitarie, giornalistiche. Sotto quest’ultimo aspetto, parve possibile cogliere qualche tratto comune con l’attuale, discussa presidenza USA, seppure di opposto schieramento. Paralizzato in seguito alle ferite, George Wallace entrerà nella comunità dei Cristiani Rinati e chiederà perdono agli afro-americani per il suo passato segregazionista.
Le contraddizioni interne al Partito Democratico americano si riproducono nel tempo. Uno degli esempi possibili, saltando indietro di decenni, lo troviamo in un altro Wallace dai tratti però del tutto diversi. Democratico egli pure, membro dell’amministrazione Roosevelt, Henry Agard Wallace aveva raggiunto la carica di vice-presidente nel quadriennio ‘41-‘45. Morto Roosevelt e finita la guerra, si era in seguito candidato alla presidenza (ma in una lista minore, il Progressive Party, non riconoscendosi nell’amministrazione Truman). Questo Wallace si era allora schierato con l’America operaia e proletaria, in termini però del tutto diversi rispetto a quanto avrebbe fatto l’altro Wallace tanti anni dopo. Al punto che venne da molti giudicato nell’immediato secondo dopoguerra, un filocomunista. (In realtà poteva dirsi piuttosto l’esponente di un “comunitarismo” diffuso a quel tempo negli stati del Midwest.)
Queste note potrebbero anche contribuire a ricordarci quanto spesso le vicissitudini del Partito Democratico, vengano interpretate al di qua dell’Atlantico come riguardanti una versione americana di ciò che in Europa le sinistre hanno rappresentato fino a tempi recenti. Ma la realtà è stata ed è diversa, a partire da quanto riguarda le organizzazioni e gli indirizzi elettorali dei colletti blu. Che in USA non hanno mai avuto riferimenti politici simili a quelli europei. E sul piano sindacale hanno in parte subìto e in parte riprodotto una molteplicità di riferimenti, spesso profondamente contrastanti. Sul perché negli Stati Uniti non ci fosse il socialismo sappiamo che già indagò Werner Sombart ai primi del novecento. Ma non va neppure dimenticata la varietà di movimenti sindacali (alcuni peraltro molto radicali) che in quel tempo nacquero e successivamente si estinsero.
Le contrastanti tendenze interne al Democratic Party risultano particolarmente evidenti negli Stati del Sud. Non si dovrebbe dimenticare che in quegli Stati il partito, pur quando assumeva posizioni per qualche aspetto progressiste e riformatrici, sostenne più volte rappresentanti che non nascondevano (lo abbiamo già visto) indirizzi discriminatori della popolazione nera. E tra gli anni venti e i trenta anche simpatie per il fascismo. Ma quest’ultimo punto è uno dei più complessi nella politica americana degli anni che seguirono la grande depressione e che avrebbe portato poi alla svolta dell’amministrazione Roosevelt.
Molti ritengono che l’esempio più significativo di tali controverse vicissitudini sia stato quello di Huey Long, governatore della Louisiana negli anni trenta. Qui lo ricordiamo comunque in quanto cadde vittima di un attentato. Vicenda dai contorni peraltro poco chiari: incerto il movente; soverchiante la sparatoria degli agenti di scorta; inspiegabile il reperimento, nell’autopsia, di un proiettile dal calibro non compatibile con l’arma dell’aggressore.
Sulla personalità di Huey Long e i tratti caratterizzanti la sua storia, si è riaccesa nel 2017 l’attenzione della stampa e in genere dei media. Facendo ampio ricorso all’abusata espressione “populismo”, sono stati operati accostamenti e si son volute trovare analogie diverse: sul piano storico, con l’esperienza successiva di George Wallace (che già abbiamo visto) e ancor più con quella attuale di Donald Trump; sul piano letterario un riferimento ricorrente è con il romanzo di Sinclair Lewis It can’t happen here, tradotto una prima volta in Italia come Qui non è possibile e recentemente ristampato con il titolo Da noi non può succedere. La storia è quella di un politico carismatico e demagogico che riesce a raggiungere la presidenza promettendo di fare grande l’America varando grandi riforme sociali; e finisce con l’instaurare una dittatura personale incarcerando gli avversari e deformando l’”eccezione” americana.
Dal romanzo si trassero un’opera teatrale nel 1936, e un Film TV nel 1968. Ma ispirato alla vicenda di Long fu anche il romanzo di Robert Penn Warren Tutti gli uomini del re: da cui un film di Robert Rossen nel 1949 e uno di Steven Zaillian nel 2006. Si narra l’ascesa e la caduta di un politico che prima diviene governatore di uno stato del sud e aumenta la sua popolarità sollevando dalla miseria i diseredati ma poi viene trascinato in un vortice di compromessi e corruzione da cui nessuno potrà salvarlo. E finisce assassinato. (Il titolo viene da una filastrocca per bambini introdotta da Lewis Carrol nella seconda storia di Alice.)
È probabile però che le elaborazioni letterarie e cinematografiche della parabola Huey Long non ne abbiano realmente colto il senso. Ma soprattutto impropri oltremodo sono gli attuali accostamenti a Trump. Le riforme introdotte nei primi anni trenta dal governatore della Louisiana riguardarono l’occupazione, la sicurezza sociale, la progressività del prelievo fiscale, la ridistribuzione della ricchezza (Share our wealth fu denominato un suo programma). La sanità, e l’istruzione divennero gratuite. E poterono trarne vantaggio non solo i bianchi disagiati ma anche gli afroamericani. Quest’ultimo punto fu quello che irritò i membri del Ku Klux Klan, normalmente favorevoli, nel Sud, al Partito Democratico.
Quanto ciò possa poi contribuire a far più luce sull’attentato è impossibile dirlo. Troppo tempo è passato. Forse l’atteggiamento pesantemente critico di parte del mondo intellettuale e politico su esperienze di quel tipo è anche riconducibile al classico tema dell’intervento pubblico nell’economia. Presenza che da un lato stava per attuarsi in misura seppur limitata nel corso del New Deal, ma d’altro lato appariva (e soprattutto oggi appare) difficilmente compatibile con le versioni convenzionali della cultura puritana. Ma ancor più incompatibile con l’ “antistatalismo” neoliberista pervicacemente dominante. Nonostante tutto.
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