Il mondo galleggia su un mare di debiti
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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Il mondo galleggia su un mare di debiti

Pubblichiamo due articoli sulla questione del debito globale. “La questione del debito globale” è il titolo del convegno organizzato a Pescara il 27 gennaio da Cadtm Italia (Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi) e arcidiocesi di Pescara-Penne.

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Il tema eluso nel dibattito elettorale. Debito, l’ora del coraggio

di Francesco GESUALDI, da “Avvenire“, 2 febbraio 2018

Il convitato di pietra di questa campagna elettorale è il debito pubblico. Se ne parla poco e di sfuggita, ma tutti sanno che è la pietra d’inciampo di qualsiasi promessa elettorale. Che si tratti di riduzione fiscale, di diminuzione dell’età pensionabile, di reddito di cittadinanza, nessuna promessa sarà praticabile senza un’idea per ridurre gli interessi che ogni anno ammontano a una cifra pari al 10% del gettito fiscale. Fino a oggi la parola d’ordine è stata “pagare a ogni costo” e si sono susseguiti governi così uguali fra loro da avere permesso a Mario Draghi di dire che ormai si governa col pilota automatico. È la politica dell’austerità, con effetti così devastanti sulla vita dei cittadini che nessun governo vuole assumerne la paternità. Meglio scaricare la colpa sulla Commissione Europea, dipingendola come il gendarme cattivo che costringe tutti ad agire contro la propria volontà. Ma sappiamo che in Europa certe decisioni sono prese all’unanimità.

Del resto come la pensino i governi europei sul debito pubblico, emerge anche da come lo narrano. Da un punto di vista morale ripropongono la visione tedesca secondo la quale il debito è una colpa, come si evince dalla sua stessa struttura linguistica, che nella lingua di Goethe indica debito e colpa con lo stesso termine shuld. Da un punto di vista sociale perpetuano la favola secondo la quale ci siamo indebitati per vivere al di sopra delle nostre possibilità. Tesi non casuale: un popolo convinto di essersi inguaiato per garantirsi lussi immeritati, si piega con maggior facilità a ogni sacrificio.

Occorre un’operazione verità sul debito pubblico, a partire da tre punti.

Il primo: non è vero che siamo indebitati perché abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità. Dal 1992 l’Italia è in regime di avanzo primario, ossia di risparmio, perché i servizi e gli investimenti resi dallo Stato ai cittadini sono inferiori al gettito fiscale. Complessivamente i risparmi realizzati dal 1992 al 2016 ammontano a 768 miliardi. Ciò nonostante il debito ha continuato a salire fino all’astronomica cifra di 2.250 miliardi perché i risparmi non sono stati sufficienti a coprire l’intera spesa per interessi. Su un ammontare complessivo di 2.038 miliardi, relativi a tutto il periodo, ben 1.270 sono stati pagati con nuovi prestiti, mettendoci nella trappola infernale del debito che alimenta se stesso.

Il secondo punto da sottolineare è che il debito l’hanno pagato i più poveri come mostrano la crescita delle disuguaglianze e della povertà.

Il terzo punto è che il nostro debito è diventato così grande da esporci a due rischi di segno opposto, ma di uguale potere lesivo. Da una parte la morte per strangolamento nel caso attuassimo il Fiscal Compact che ci chiede di dimezzare il nostro debito in 20 anni. Dall’altra la morte per dissanguamento nel caso permettessimo a debito e interessi di continuare ad alimentarsi a vicenda come è successo fino a ora.

Nonostante la drammaticità del momento, i governanti cercano di rassicurarci dicendoci che esiste un modo per procurarci le risorse necessarie a saldare gradatamente il nostro debito pubblico senza sacrifici per nessuno. Si chiama crescita e si ottiene come premio se solo sappiamo mettere in atto le riforme che poi significano riduzione dei salari, del welfare e dei diritti.

Ma nonostante le riforme, le variabili che possono condizionare la crescita sono troppe, per cui il taglio ai servizi continua a rimanere l’arma di riserva usata da tutti i governi per aggiustare i conti all’ultimo momento. E di rassicurazione in rassicurazione il nostro debito cresce, i servizi peggiorano, l’esercito dei poveri si ingrossa. Per questo, in ogni ambito, cresce il fronte di chi chiede di ridurre il debito attraverso vie non convenzionali come il ripudio della parte illegittima, la rinegoziazione della parte più onerosa, il trasferimento di una certa quantità alla Bce.

Bestemmie per i neoliberisti, ma quando il debito compromette la funzione sociale dello Stato, smette di essere una questione finanziaria e diventa una questione politica, addirittura etica. Che fare: privilegiare l’interesse dei creditori o la dignità dei cittadini? Nel 2004, quando nella tormenta c’erano i popoli del Sud del mondo, la Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite sancì che «l’esercizio dei diritti fondamentali non può essere subordinato all’applicazione delle politiche di austerità e di riforme economiche legate al debito».

Più recentemente, tramite l’Evangelii gaudium, Papa Francesco ha esortato «il ritorno dell’economia e della finanza a un’etica in favore dell’essere umano».

Considerato che il mondo galleggia su un mare di debiti, tre volte più grande di quanto l’umanità produce annualmente, sarebbe conveniente per tutti procedere a un Grande Giubileo, affinché non succeda, come ammonì Neemia, che i creditori stessi perdano tutto.

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Lotte sociali in Tunisia, dove «il debito è un’arma»

Intervista a Fathi Chamkhi, militante e deputato del Fronte Popolare: «Il vero contenuto rivoluzionario» è espresso dalle «masse di giovani che prendono rapidamente coscienza attraverso le lotte. Un’esperienza originale e promettente». Che la sinistra deve farsi carico di interpretare.

 

di Pino DRAGONI, da “il manifesto“, 2 febbraio 2018

 

Roma, 2 febbraio 2018, Nena News – «Il debito in Tunisia è stato usato come arma contro-rivoluzionaria per sbarrare la strada alle lotte popolari»: ne è convinto Fathi Chamkhi, attivista e professore all’università di Tunisi eletto in parlamento nel 2014 nelle fila del Fronte popolare. Lo abbiamo incontrato nella cornice del convegno internazionale «La questione del debito globale», organizzato a Pescara il 27 gennaio dal Cadtm Italia (Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi) insieme all’arcidiocesi di Pescara-Penne.

 

«DOPO LA RIVOLUZIONE del 2010-2011 – ci dice Chamkhi – l’Europa non ha saputo fare niente di meglio che riproporre la stessa ricetta economica di sempre». Per paura che la rivolta mettesse in discussione il modello neoliberista, nel maggio 2011 le potenze mondiali del G8, insieme a Fondo monetario, Banca mondiale, Turchia e paesi del Golfo, hanno offerto degli enormi prestiti a Tunisia, Marocco, Giordania ed Egitto. In cambio hanno imposto riforme che aprissero ai mercati e alle liberalizzazioni. Al punto che «la sovranità è di fatto passata nelle mani della commissione Ue e delle istituzioni internazionali».

 

Oggi lo stato tunisino si ritrova con un debito più che triplicato rispetto al 2010 (passato da 25 a 77 miliardi di dinari tunisini), e il 34% delle entrate fiscali vanno a ripagare i prestiti e gli interessi. La Tunisia oggi è un paese «quasi fallito», che si è indebitato enormemente senza riuscire a migliorare la situazione economica e ora fa fatica a ripagare i prestiti e a ottenerne di nuovi.

 

IL TEMA DEL DEBITO è diventato ormai centrale nel dibattito pubblico grazie anche al lavoro di varie organizzazioni come Attac, Raid, e Cadtm. Dalla militanza in un’organizzazione comunista clandestina negli anni ’70 all’approdo al movimento altermondialista negli anni ’90, fino al parlamento, la proposta di Chamkhi per una legge sull’audit del debito nel 2016 ha subito raccolto il consenso di un terzo dei membri del parlamento (ma non degli islamisti di Ennahda). L’audit prevede un esame pubblico dei debiti contratti dallo stato per decidere se e quanti di questi sono annullabili in quanto contratti in violazione dei principi democratici, e contro i diritti civili, politici, economici e sociali della popolazione.

 

E mentre la cosiddetta «Legge di Riconciliazione» assolve i crimini e la corruzione del regime di Ben Ali per permettere alle vecchie élite di tornare in sella, sono più di mille i giovani arrestati nel corso delle proteste che hanno scosso il paese dall’inizio di gennaio. Le sommosse delle ultime settimane sono direttamente legate all’intervento dell’Europa e del Fondo monetario, che per ottenere la restituzione dei prestiti ora chiedono il conto attraverso un piano di austerità e aumenti delle tasse.

 

IL PAESE è stato attraversato negli ultimi anni da ondate continue di protesta sociale, con migliaia di manifestazioni e scioperi ogni anno. «La novità delle proteste recenti – riflette Chamkhi – è la spettacolarità della violenza». A scendere in strada sono i giovani che non hanno ottenuto nessun beneficio dalla rivoluzione del 2011. Sono i disoccupati, i giovani dei quartieri popolari, gli esclusi. Esclusi non solo dal sistema economico e sociale, ma anche dalle tradizionali organizzazioni dei lavoratori.

 

IL GRANDE SINDACATO UGTT, che ha avuto un ruolo fondamentale nella rivoluzione e gode di enorme legittimità tra i lavoratori, ha saputo in questi anni far avanzare gli interessi dei salariati ma «non ha mai preso in considerazione i giovani disoccupati». E il blocco dell’emigrazione verso l’Europa non ha fatto altro che peggiorare frustrazione e rabbia, tappando quella che era una valvola di sfogo del malessere sociale.

 

IL PARADOSSO è quello di una situazione in cui esistono «le migliori condizioni possibili per una rivoluzione»: le destre spaccate, un governo in calo vertiginoso di consensi, povertà, disoccupazione, ingiustizia, ma con una sinistra «debole» e incapace di prendere l’iniziativa. Il Fronte popolare, nato nel 2012 come coalizione di diverse forze di sinistra, oggi ha 15 eletti in parlamento, il 7% dell’assemblea, ma «una limitata capacità di mobilitazione» nelle strade. «Il vero contenuto rivoluzionario», dice Chamkhi, è espresso dalle «masse di giovani che prendono rapidamente coscienza attraverso le lotte. Un’esperienza originale e promettente» che la sinistra deve farsi carico di interpretare. «È la nostra grande sfida»: uscire dalla retorica per «avere un impatto sulla gente vera, sui lavoratori, concentrarci su battaglie concrete per ottenere la fiducia delle classi popolari».

 

Ma occorre uno sforzo, insiste Chamki. «Essere rivoluzionari significa credere che il cambiamento è possibile. Ma dipende da noi, da come ci organizziamo, come agiamo, come facciamo politica».

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