I flussi migratori del XXI secolo
di Ignazio MASULLI –
L’emigrazione attuale per ordine di grandezza e alcune ragioni di fondo è confrontabile con quella transatlantica di fine ‘800 e primo ‘900, nonché con quella del secondo dopoguerra dall’Europa meridionale verso le aree più industrializzate del continente o verso mete più lontane.
Ma ciascuna di esse ha caratteri specifici. Vediamo quali sono le peculiarità di quella attuale.
1) Dura da decenni. Si è accentuata negli anni ’90 (3% Usa, 1,5% Germania). Non è cresciuta molto negli anni 2000 (1,6% in Usa, 0% in Germania). Né v’è stata forte accentuazione fino al 2013. Negli ultimi 2 anni la crescita è stata più forte, ma in linea con l’andamento precedente. Oggi gli immigrati nati all’estero e regolarmente censiti corrispondono al 12,4% della popolazione in Francia, al 13,2% in Germania, al 10% in Italia, al 13,3% in Gran Bretagna, al 13,3% negli Usa.
2) I rifugiati e richiedenti asilo costituiscono una percentuale minima degli immigrati nati all’estero. Dallo 0,6% in Usa al 3,1% in Francia.
3) Le legislazioni possono essere più o meno restrittive nei vari paesi. Non per questo arginano il fenomeno. Semmai allungano tempi di clandestinità e le quantità di lavoro nero, nonché i tempi di regolarizzazione amministrativa e legale.
4) Il variare di queste legislazioni e dei loro gradi di rigidità non è da connettere con l’andamento del fenomeno né incide su esso se non in proporzioni minime. Piuttosto dipende dagli orientamenti e competizioni politiche prevalenti all’interno dei paesi meta.
I flussi sono comunque inarrestabili e in crescita. Quelli attuali possono considerarsi prime ondate costituite soprattutto da giovani, spesso istruiti e relativamente meno poveri.
Le cause principali dell’aumento del numero di rifugiati e migranti sono due.
La prima è dovuta alle guerre imposte dagli Usa e dai loro più stretti alleati in Iraq e in Afghanistan, al rinfocolamento di vecchi conflitti, come quello in Sudan; come pure alla strumentalizzazione di vecchie contrapposizioni etniche e religiose. Per non dire del sostegno diretto e indiretto dato a ribellioni contro regimi non si sa se più colpevoli di dispotismo o piuttosto di ostilità agli interessi della Nato. L’ultimo esempio è quello siriano. Agli storici l’analisi precipua delle responsabiltà. Ma è indubbio che, al di là dei nobili intenti di volta in volta propagandati, i metodi adottati e i risultati raggiunti hanno comportato enormi sofferenze e lutti per le popolazioni.
Non è certo un caso che i paesi che nel 2015 hanno contato il maggior numero di rifugiati, profughi e sfollati siano stati: Siria, Colombia, Iraq, Repubblica Democratica del Congo, Afghanistan, Sudan, Sud Sudan, Somalia, Pakistan, Repubblica Centrafricana. Il loro elenco è indicativo delle manovre tardo-colonialiste in cui sono coinvolti gli Stati Uniti e alcune delle maggiori potenze europee. Sicché, succede che tra i paesi recalcitranti a dare asilo ai rifugiati vi siano alcuni dei maggiori responsabili delle loro sofferenze.
Molto più diffusa e varia è la geografia della seconda e concomitante causa dell’esodo, quella di quanti cercano di fuggire da condizioni di povertà e sfruttamento divenute insopportabili. Ed è la geografia della delocalizzazzione produttiva, quella con cui le multinazionali hanno trasferito parti crescenti della propria attività in paesi con manodopera a basso o bassissimo costo e che consentono di avere mano libera nello sfruttamento anche delle risorse naturali, senza alcuna remora per i danni all’ambiente. Anche alterazioni “climatiche” sono connesse alla rapina e distruzione delle risorse naturali.
La ragione di fondo è sempre quella del rapporto sviluppo-sottosviluppo, quale si è stabilito attraverso il colonialismo e il neocolonialismo nelle più varie forme.
Il carattere espansivo del capitalismo specie in età industriale e il suo sfruttamento delle risorse naturali e del lavoro nei paesi meno sviluppati ha assunto negli ultimi decenni caratteri particolarmente aggressivi.
Quali sono i fattori aggravanti e specifici degli ultimi decenni?
In primo luogo la delocalizzazione produttiva. Nel 2015, essa ha raggiunto il 57% del Pil in Francia, il 45% in Germania, il 29% in Italia, il 74% in Gran Bretagna, il 32% negli Usa.
Il suo principale obiettivo è lo sfruttamento della manodopera a basso costo nei paesi in via di sviluppo. Si possono fare in proposito alcuni esempi.
In Cina gli operai percepiscono in media 110-120 dollari mensili . Ma vi sono casi più gravi come quello degli operai della Foxconn: scondo un’inchiesta del 2006 essi lavorano 15 ore al giorno per un salario di 50 dollari mensili, i capi reparto ne percepiscono 100. Circa la metà della retribuzione è trattenuta dall’azienda per vitto e alloggio nella fabbrica caserma.
Circa il 60% popolazione che vive in campagna (800 milioni) sopravvive con redditi che possono essere inferiori a 260 dollari annui.
In India il 75% della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno (compresi 270 milioni di lavoratori poveri). Il salario medio giornaliero di tutti i lavoratori dipendenti è di 2,18 $ (Ilo 2010)
Nel settore tessile le retribuzioni mensili variano da 16 a 60 dollari , in altri settori da 50-60 a 100-110 dollari.
In Messico la retribuzione media mensile di tutti i dipendenti è di 369 dollari, contro i 3.000 dei dipendenti negli Usa (Ilo 2013). Ma perdita del potere d’acquisto è stata dell’80% in 30 anni. E 1/3 della manodopera lavora in nero.
Non è vero che la delocalizzazione ha portato benefici alla popolazione locale:
1) ha fatto saltare equilibri economico-sociali di complementarietà;
2) non ha diminuito l’emigrazione “economica” di chi non resiste perché è ai limiti della sussistenza e facilmente va sotto questa soglia, quindi si sposta verso megalopoli e/o da queste per mete più lontane.
Alcuni flussi dirigono verso paesi-bacino. Com’era l’Egitto di Mubarak, la Libia di Gheddafi o sono tuttora Pakistan, Giordania, Kenya e altri. In vari casi le migrazioni sono interne. Ad esempio, verso la costa sud-est brasiliana, il Messico settentrionale e altre.
Ma la grande maggioranza delle popolazioni nei paesi meno sviluppati resta condannata alle piaghe della mortalità infantile, fame, malattie endemiche. Sono le popolazioni che non riescono ad uscire dal circolo perverso di aumento della povertà e della popolazione. Che non riescono, cioè, a compiere la transizione demografica avvenuta nei paesi euro-atlantici a metà ‘800.
Oggi, per la prima volta nella storia, si sono verificano due migrazioni in senso opposto e incrociate. Dal Nord la delocalizzazione di attività produttive in cerca di manodopera a basso costo e supersfruttabile. Dal Sud emigranti in cerca di lavoro.
La quota dei rifugiati e richiedenti asilo (riconosciuti dall’Unhcr), pur costituendo una parte piccola o molto piccola dei flussi migratori, per la loro maggiore tracciabilità, consentono di evidenziare contraddizioni, irresponsabilità e prepotenza degli Usa e dei paesi più ricchi dell’UE.
Nel 2014 sono stati 54,9 milioni i rifugiati e richiedenti asilo. I 10 paesi che in quell’anno contavano il maggior numero di profughi erano: Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Repubblica Democratica del Congo, Sudan, Sud Sudan, Somalia, Repubblica Centrafricana, Nigeria. Di essi 8,2 milioni hanno trovato scampo nei 10 paesi che ne hanno accolto di più: Pakistan, Turchia, Libano, Iran, Etiopia, Giordania, Kenya, Uganda, Sudan. Il PIL pro capite, a parità di potere d’acquisto, di questi paesi è 1/5 dei 10 più ricchi d’Europa: Svezia, Finlandia, Danimarca, Gran Bretagna, Olanda, Belgio, Germania, Austria, Francia, Italia (senza contare gli Usa). Se la disponibilità di questi paesi fosse pari a quella dei 10 più accoglienti (nonostante ben più poveri) dovrebbero accogliere 41,1 milioni di rifugiati.
Che i paesi più ricchi e principali mete dei migranti “forzati” ne possano accogliere un numero esponenziale rispetto alle quote che rifiutano o dichiarano onerose, non assorbibili, ecc, è evidente anche considerando un altro fatto. I rifugiati e richiedenti asilo sono una percentuale assai ridotta rispetto agli immigrati nati all’estero, censiti, quindi regolarizzati e attivi nei paesi di approdo. Infatti questi ultimi costituiscono il 12,4%, in media, della popolazione dei paesi su nominati.
Non è vero che gli immigrati, “economici” e ”forzati”, sottraggono posti di lavoro, né che concorrono al ribasso delle condizioni di lavoro e di vita della popolazione autoctona.
Sappiamo bene che prima di giungere ad una regolamentazione della propria condizione lavorativa e censuale, quegli uomini e donne hanno dovuto scalare i duri e ripidissimi gradini del lavoro clandestino e supersfruttato, poi quelli dei lavori più pesanti, malpagati ed estremamente precari.
Lungo questo doloroso percorso, gli immigrati non tolgono proprio nulla ai lavoratori autoctoni. Sono solo sfruttati al massimo da datori e appaltatori di lavoro privi di scrupoli. Anche quando raggiungono la meta agognata della regolarizzazione della propria situazione, la maggioranza di loro trova impiego nelle occupazioni meno appetibili. Solo in parte e col tempo accedono a occupazioni migliori e a pari condizioni con la manodopera locale. Ma, anche in questo caso, essi non sottraggono lavoro agli occupati del paese ospite. Semplicemente si aggiungono ad essi aumentando il volume complessivo della manodopera impiegata. Il loro inserimento nel mercato del lavoro dei paesi in cui si dirigono dipende dalla quantità e tipologie di lavoro richiesto.
In ogni caso la convinzione che gli immigrati sottraggono lavoro ai residenti di più lunga data è priva di fondamento. Il che risulta evidente anche dal confronto dei dati riguardanti l’immigrazione con quelli della disoccupazione.
La tabella seguente indica le percentuali dei disoccupati in rapporto alla forza lavoro e quelle degli immigrati nati all’estero in rapporto alla popolazione.
1990 | 2000 | 2010 | 2012 | 2013 | 2014 | ||
Francia | disoccupati | 9.37 | 9.56 | 9.27 | 9.77 | 10.28 | 10.3 |
immigrati | 10.4 | 10.35 | 11.7 | 11.9 | 11.6 | … | |
Germania | disoccupati | 8.2 | 8.01 | 6.97 | 5.38 | 5.24 | 4.99 |
immigrati | 11.5 | 12.5 | 13.0 | 13.13 | 12.80 | … | |
Italia | disoccupati | 8.87 | 10.5 | 8.35 | 10.64 | 12.13 | 12.65 |
immigrati | … | 9.6 | 9.4 | 9.5 | 9.6 | … | |
Uk | disoccupati | 6.87 | 5.37 | 7.81 | 7.99 | 7.56 | 6.16 |
immigrati | 4.6 | 7.0 | 7.58 | 7.86 | … | … | |
Usa | disoccupati | 5.62 | 3.99 | 9.62 | 8.07 | 7.38 | 6.17 |
immigrati | 7.92 | 11.02 | 12.09 | 13.0 | 13.1 | … |
Fonti: Oecd.Stat,Dataset: Annual labour force statistics; International migration database
Da questi dati si può vedere che, dopo la crisi del 2008, la disoccupazione ha continuato ad aumentare in Italia e in Francia, mentre negli ultimi 2-3 anni è stata contenuta in Gran Bretagna, è calata negli Usa ed è diminuita decisamente in Germania. Invece l’immigrazione è cresciuta in tutti questi paesi ed in misure non rapportabili a quelle della disoccupazione.
Le cause della disoccupazione nei paesi più sviluppati sono altre e riguardano principalmente le tre principali strategie di massimizzazione dei profitti adottate nel trentennio neoliberista:
1) la massiccia delocalizzazione di attività produttive in paesi meno sviluppati per sfruttare manodopera a bassissimo costo (di cui abbiamo già detto);
2) l’automazione spinta della produzione grazie ad applicazioni della microelettronica ai fini della massima riduzione, intercambiabilità e precarizzazione della manodopera impiegata (e che facilita ulteriormente la delocalizzazione);
3) il cospicuo e crescente spostamento di capitali dagli investimenti produttivi alla speculazione finanziaria.
Tutto ciò ha provocato un deciso spostamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro a vantaggio del primo e ha consentito una sistematica riduzione dei diritti di tutti i lavoratori, sia locali che immigrati.
Un’altra mistificazione grossolana, eppure diffusa, consiste nel sostenere che l’accoglienza di migranti e profughi costa troppo per gli stati e sottrae risorse utili per i cittadini già residenti. È stato ampiamente dimostrato che le tasse e i contributi versati dagli immigrati non solo ripagano, ma eccedono abbondantemente le spese dei servizi e prestazioni di welfare di cui essi si valgono.
Ancor più consistenti sono i vantaggi che vengono dal lavoro degli immigrati per la crescita economica più in generale, nonché dal loro apporto agli equilibri demografici. E ciò vale per l’Italia come per gli altri paesi dell’Ue, come dimostrano recenti studi dell’Ocse.
Che i fatti stiano molto diversamente da quanto si vuol far credere è facilmente dimostrabile. Prendiamo, ad esempio, il caso dell’Italia.
Per quanto riguarda i rifugiati e richiedenti asilo, nel 2015, il nostro paese ha impiegato poco più di 800 milioni di euro per la spesa complessiva di accoglienza dei rifugiati. Sempre nel 2015, il costo delle “missioni” militari italiane in alcuni dei paesi d’origine dei rifugiati è stato di un miliardo e mezzo di euro. Altre spese sono da aggiungere per la prosecuzione della interminabile guerra-occupazione in Afghanistan, i nuovi impegni assunti in Iraq e in Libia. Gli uni e gli altri aperti ad ulteriori sviluppi.
Per quanto riguarda gli immigrati nati all’estero nel complesso, se torniamo a fare l’esempio dell’Italia, nel 2014, l’ammontare delle tasse e contributi pagati dagli immigrati ha superato di 4 miliardi il totale delle spese pubbliche per le politiche di accoglienza e tutti i servizi di welfare di cui hanno usufruito. Ma c’è di più: essi hanno concorso alla creazione di ricchezza nella misura dell’8,8% del PIL. E conti simili valgono anche per gli altri paesi che sono mete preferite degli immigrati.
Ancor più importante è il loro contributo al riequilibrio demografico. Com’è ben noto, proprio nei paesi più sviluppati, la popolazione invecchia, sia per il calo della natalità che per l’aumento degli anni di vita. Il che significa che non bastano i continui tagli alla sanità e la riduzione della spesa pensionistica. Se vogliamo che quel che resta del sistema di welfare in Europa regga in qualche modo, occorre un rapido aumento della popolazione in età lavorativa. Per il raggiungimento di tale obiettivo, la popolazione europea dovrebbe aumentare di circa 42 milioni in 4 anni! Il che è concepibile solo attraverso massicci afflussi di immigrati.
Perché, allora, ci si ostina a presentare all’opinione pubblica il fenomeno migratorio come ingovernabile e minaccioso? E perché questa rappresentazione falsa e questa chiusura si sono accentuate notevolmente negli ultimi anni?
La risposta non può essere che una: per ragioni politiche valutate nel breve periodo e nei termini più ristretti.
Il fallimento delle strategie economiche e delle politiche neoliberiste è sotto gli occhi di tutti. La crisi e la recessione prolungata sono i sintomi più evidenti. La forte e crescente concentrazione tecnico-produttiva e finanziaria ha finito con il frenare e, tendenzialmente, arrestare l’allargamento delle basi produttive. Sennonché tale allargamento costituisce una dinamica vitale per lo sviluppo capitalistico.
In termini sociali i costi sono stati enormi. Le diseguaglianze sono cresciute a tal punto da determinare una sorta di piano inclinato nella stratificazione sociale sul quale continuano a scivolare non solo le classi lavoratrici, ma anche i ceti medi. Ciò significa che per la maggioranza della popolazione dei paesi del capitalismo storico è venuta meno la possibilità di mobilità sociale e la speranza di migliorare le proprie condizioni e quelle dei figli. Il che è causa di un profondo malessere e disagio nella maggioranza della popolazione.
Stando così le cose, i gruppi economici e politici dominanti hanno bisogno dei mezzi più facili e rozzi per ristabilire controllo e disciplinamento sociale. Occorre deviare l’attenzione dell’opinione pubblica dalle vere ragioni del malessere. Quindi, si cerca d’indirizzarla verso una supposta minaccia proveniente dall’esterno. La figura dell’immigrato, cioè di colui che è estraneo e diverso, si presta benissimo a tale dirottamento.
Ma la deriva xenofoba comporta un altissimo costo politico. La negazione dei diritti fondamentali dell’uomo non è circoscrivibile agli immigrati. Sono diritti universali o non sono. La loro negazione compromette le basi giuridiche del patto sociale e condanna le istituzioni politiche che provocano tale rottura ad una crisi di legittimazione.
In realtà, il progressivo svuotamento della politica in una crescente resa agli interessi e alla logica di un mercato autoregolato ed insofferente di controlli e vincoli ha condotto alla sostituzione di un’autentica azione di governo con una mera amministrazione dell’esistente. La rinuncia, divenuta anche incapacità, di correggere squilibri economici e sociali a monte ha comportato un ripiegamento su un’azione di mera compensazione a valle dei loro effetti meno desiderabili. Il risultato è una sorta di neoclientelismo in funzione di meri obiettivi elettorali.
In altri termini, si è rinunciato a correggere le diseguaglianze sociali che, infatti, si aggravano sempre più. Come si è rinunciato a qualsiasi forma di redistribuzione della ricchezza.
La crescente mercificazione, marginalizzazione e precarizzazione del lavoro. La continua riduzione dei sistemi di welfare contribuiscono ad un peggioramento delle condizioni economiche e sociali della maggioranza della popolazione.
Il “che fare” non riguarda solo una risposta positiva al fenomeno migratorio, ma una riforma profonda del funzionamento del sistema economico, sociale e politico dominante.
È necessario stabilire il diritto del lavoro come base costitutiva dell’ordinamento sociale e politico. Tale diritto è fondamentale per due ragioni.
La prima è dovuta al fatto che il lavoro risponde ad un bisogno antropologico della persona di provvedere ai bisogni della propria esistenza attraverso l’espressione di tutta la sua volontà e intelligenza.
La seconda dipende dal fatto che il lavoro costituisce l’unica base della organizzazione e ri-organizzazione sociale, che non può essere affidata alla logica utilitaria, unilaterale e contingente del mercato.
Una tale opera di ricostruzione sociale e politica è improcrastinabile. Solo in questa prospettiva è possibile affrontare quella che in definitiva è una costante dell’evoluzione sociale, vale a dire i movimenti di popolazione. Essi portano e comportano mutamenti demografici, economici, sociali e politici che, ai punti di biforcazione della nostra storia, diventano ineludibili.
Proprio per questo il fenomeno dei nuovi flussi migratori cui stiamo assistendo segna una vera e propria svolta storica.
Occorre, perciò, dotarsi di tutti gli strumenti economici e socio-culturali per governarlo in maniera affatto inclusiva e positiva. In altre parole bisogna considerarlo molto più che un’opportunità, una necessità ed una ricchezza.
Se invece lo intendiamo in maniera riduttiva, come un fenomeno accanto agli altri da affrontare settorialmente, andiamo incontro ad un fallimento molto pericoloso. La chiusura del sistema sociale in se stesso lo condanna all’entropia e ad una crisi irreversibile. Una deriva che ha già chiari i connotati di nuove forme di fascismo e razzismo, negli Usa e in Europa.
È già accaduto dopo la crisi del ’29 e sappiamo che dopo disastri storici di quella portata occorre ricostruire dalle macerie. Il governo della nuova grande migrazione rappresenta una sfida di questa portata, non meno.
29 novembre 2016
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