L’UNIVERSITÀ HA BISOGNO DELLA CRITICA DEL REALISMO CAPITALISTA da IL MANIFESTO e IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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L’UNIVERSITÀ HA BISOGNO DELLA CRITICA DEL REALISMO CAPITALISTA da IL MANIFESTO e IL FATTO

L’università ha bisogno della critica del realismo capitalista

IL DISCORSO. In un discorso di sette minuti Alessandra De Fazio, presidente del Consiglio degli studenti dell’università di Ferrara, ha criticato la politica neoliberale che domina l’intero settore pubblico, dall’istruzione alla sanità al Welfare. Se una qualche sinistra intende riaprire i giochi, è da qui – con una radicale autocritica – che deve cominciare

Girolamo De Michele  09/04/203

A voler prendere sul serio la «scuola delle competenze», questo cavallo di Troia che cela l’assoggettamento della didattica, bisognerebbe concludere che il discorso di Alessandra De Fazio, che in sette minuti ha compendiato cos’è il neoliberismo (quello che Mark Fisher definì «Realismo capitalista»), dimostra che l’università italiana è in grado di produrre eccellenze. Ma lo scaffale vuoto delle competenze nulla sarebbe senza i contenuti: in questo caso i punti cardine del New Public Management, che riguardano l’intero settore pubblico, dall’istruzione alla sanità al Welfare.

Cominciamo col ricordare, dunque, che ascendere ai più alti gradi degli studi non è una facoltà, né un premio, ma un diritto sancito dall’articolo 34 della Costituzione; quello stesso che nomina il merito, non come principio di selezione meritocratica, ma come titolo per esercitare un diritto «senza altra condizione che quella dell’attitudine e del profitto, cioè prescindendo dall’appartenenza a un determinato ambiente sociale o ad una particolare condizione economica» – quel «padrone inesorabile e invisibile» che è «la tirannia del bisogno» (così Aldo Moro e Concetto Marchesi nel dibattito costituente).

In altri termini, quel sistema classista che allarga sempre più le differenze sociali, e contrappone alla falsa retorica dell’ascensore sociale la dura realtà del pavimento colloso che inchioda i subalterni alla condizione sociale di origine.

Dal Rapporto Censis 2021 agli scenari disegnati dal rapporto Excelsior di Unioncamere 2019-23, emerge un’occupazione povera di capitale umano, una disoccupazione che annovera tra i suoi componenti un numero elevato di laureati e una domanda di lavoro non orientata a inserire persone con livelli di istruzione elevati (il problema della sovra-istruzione) dovuta a caratteristiche strutturali del sistema produttivo italiano su cui il Pnrr non incide; in cui prevalgono le micro-imprese con produzioni a basso valore aggiunto e a basso grado di innovazione: come attesta la quota particolarmente alta di sovra-qualificati tra i laureati Stem.

Il ciclo dei rendimenti decrescenti degli investimenti sociali si salda col sottoutilizzo del capitale umano e la dissipazione delle competenze, determinando un vero e proprio dispositivo di assoggettamento sociale che agisce anche attraverso i problemi elencati in modo puntuale da De Fazio.

È la realizzazione di quel paradigma di governance noto come New Public Management, che costituisce la vera egemonia culturale della destra: il sistema d’istruzione, così come la sanità e la pubblica amministrazione, vengono amministrate in base a criteri che non contemplano la qualità dei servizi, dal momento che per il New Public Management la qualità non è altro che una proprietà derivata dalla quantità. E della quantità contano solo gli aspetti economici, in base al presupposto che non c’è altro modello di gestione della società possibile al di là di quello basato sulle regole del mercato (There Is No Anternative).

Mercato che non contempla un’entità come la società, ma singoli individui concepiti come consumatori-utenti, imprenditori di sé stessi, individualmente responsabili del proprio futuro. Successo o insuccesso non dipendono dal contesto sociale, dalla struttura, dalle cause concomitanti: se ti va bene è perché, da bravo imprenditore di te stesso, sei un buon interprete delle regole del mercato; se ti va male è colpa tua, del tuo stile di vita o della tua origine sociale o geografica.

La privatizzazione del disagio (malattia, istruzione, depressione sono fatti individuali, non sociali) si salda con la solidarietà negativa (se posso cavarmela scaricando la colpa sull’altro, perché no?) e la risignificazione della categoria della colpa come giusto destino: la società dei consumi non sa che farsene degli scarti.

Non per caso, alla dura requisitoria di De Fazio è seguito il vacuo, divagante e inconcludente blablabla dell’ex ministro Patrizio Bianchi, partecipe della stessa cultura manageriale dell’attuale ministra dell’università Annamaria Bernini: che ha contribuito, assieme ai suoi predecessori, alla distruzione dell’istruzione pubblica. Se una qualche sinistra intende riaprire i giochi, è da qui – con una radicale autocritica – che deve cominciare.

Cara destra invidiosa, giù le mani da Gramsci

DI GAD LERNER

8 APRILE 2023

Protesa com’è nello sforzo di apparire più che mai moderna e omnicomprensiva, la destra nostrana è perfino disposta a sostituire l’anticomunismo con il luogocomunismo. Leggo che l’intellettuale più citato al convegno romano “Pensare l’immaginario italiano. Stati generali della cultura nazionale”, svoltosi alla presenza del ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, è stato nientemeno che Antonio Gramsci. Sì, proprio lui, il segretario del Partito Comunista d’Italia, solo per questo condannato dal Tribunale Speciale fascista a 20 anni, 4 mesi e 5 giorni di reclusione il 4 giugno 1928. Cioè dieci anni prima delle leggi razziali.

Del grande intellettuale rivoluzionario alla destra piace – non da oggi – l’idea che la trasformazione della società necessiti, prima ancora della presa del potere politico, di una “egemonia culturale” a cui diano il loro apporto anche gli intellettuali capaci di instaurare un rapporto di sintonia con le classi subalterne.

Ci sarebbe da compiacersi del rinnovato interesse per l’opera gramsciana manifestato dagli eredi non pentiti della corrente politica che lo perseguitò fino alla morte. Non fosse che, nella loro accezione, l’egemonia culturale viene ridotta, per l’appunto, a luogo comune di natura cospirativa. Quasi che si trattasse di una subdola azione mirante al “dominio frutto di assenso, persuasione e vicinanza da parte degli intellettuali organici al popolo-nazione”. Così la casa editrice Historica storpia Gramsci nel presentare un’antologia dei suoi scritti sull’egemonia culturale.

Potessimo adoperare ancora un concetto psicoanalitico freudiano dai tratti misogini, diremmo che siamo in presenza di un tipico caso di invidia del pene. Meglio farebbero, gli intellettuali di destra, a convocare un convegno sulle colpe storiche del fascismo. Nell’attesa, il povero Gramsci si rivolta nella tomba.

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