IL VALORE INESTIMABILE DELLA DISOBBEDIENZA CIVILE da IL MANIFESTO e THE NATION
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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IL VALORE INESTIMABILE DELLA DISOBBEDIENZA CIVILE da IL MANIFESTO e THE NATION

Il valore inestimabile della disobbedienza civile

LE PROTESTE PER GAZA. Dobbiamo essere grati agli studenti che stanno manifestando nelle università statunitensi e europee. Le loro azioni non violente sono un appello rivolto non solo alla nostra coscienza, ma anche al nostro senso di giustizia. Eppure i liberali si girano dall’altra parte

Mario Ricciardi  12/04/2024

Tra i pericoli che minacciano l’umanità, la mancanza di curiosità intellettuale è una delle più insidiosi. Insieme al conformismo, che si alimenta sia di timore sia di egoismo, la tendenza a non farsi troppe domande e a lasciarsi andare con la corrente produce un certo tipo di stolidità con cui abbiamo a che fare un po’ ovunque – sui giornali, in tv, nei social.

Di fronte a una tragedia come quella che si sta consumando a Gaza, la mancanza di curiosità intellettuale è particolarmente grave, perché contribuisce a generare una forma di insensibilità morale che spinge molti a ignorare una sistematica violazione del diritto internazionale che si sta consumando sotto i nostri occhi.

Non informarsi, non cercare di comprendere le ragioni delle vittime (di tutte le vittime), ci spinge ogni giorno più vicini a un baratro nel quale finiremo per precipitare. Per questo dobbiamo essere grati agli studenti che stanno manifestando nelle università statunitensi e europee.

Le loro azioni non violente di disobbedienza civile sono un appello rivolto non solo alla nostra coscienza, ma anche al nostro senso di giustizia. Gesti che, in un regime democratico, hanno un valore inestimabile.

Colpisce che in prima fila, tra coloro che praticano questo tipo di stolidità, spesso menandone vanto, sono intellettuali che si ergono a difensori del liberalismo. Eppure, dovrebbero essere proprio i liberali a riconoscere che il modo in cui gli studenti stanno mettendo in atto la propria protesta ha tutte le caratteristiche di un atto politico che si rivolge alla maggioranza di governo, ed è giustificato da principi di giustizia che trovano nelle costituzioni dei paesi democratici la propria formulazione giuridica.

L’eguale rispetto per ciascuno, il riconoscimento e la tutela della dignità personale e della sicurezza di tutti, l’osservanza del diritto internazionale, non sono patrimonio soltanto di una parte, ma dovrebbero essere valori condivisi dall’intera cittadinanza.

A dircelo sono stati alcuni dei pensatori più significativi del liberalismo contemporaneo, da John Rawls a Ronald Dworkin, e anche una delle coscienze critiche più lucide della cultura ebraica del Novecento, Hannah Arendt. Le occasioni che spinsero questi autori a riflettere sulla disobbedienza civile furono l’ascesa del movimento per i diritti civili negli Stati Uniti, nel quale si impegnarono anche molti studenti, e poi le proteste contro la guerra in Vietnam, che ebbero origine proprio nelle università.

Anche allora chi invocava la repressione delle proteste si presentava come un difensore della legge e dell’ordine, contro dimostranti che, occupando le sedi universitarie, stavano violando il diritto di proprietà. Per confutare questa concezione ristretta del diritto e della libertà (che non si riduce al diritto di proprietà) John Rawls difendeva la disobbedienza civile come “atto pubblico”. Non solo perché esso avviene in pubblico, ma anche perché richiama principi pubblici, in quanto non ha una motivazione legata al tornaconto personale.

Chi attua queste forme di protesta mette anzi a repentaglio il proprio interesse, esponendosi a un intervento violento da parte delle forze dell’ordine e al rischio di incorrere in sanzioni di vario tipo: penale, amministrativo, o sociale (negli Stati Uniti i difensori dell’ordine invitano i futuri datori di lavoro a non considerare gli studenti che hanno preso parte alle proteste come candidati per un impiego).

Per Rawls, la disobbedienza civile «si può paragonare al discorso pubblico, ed essendo una forma di appello politico, un’espressione di una convinzione politica profonda e consapevole, ha luogo in sede pubblica». Perciò deve essere non violenta, e le proteste studentesche lo sono.

Astenersi dalla violenza è infatti il modo in cui chi protesta, nel momento in cui sta violando una regola, riafferma il proprio rispetto per il diritto nel suo complesso, che non ammette violenze private, e restringe l’uso della forza da parte dei tutori dell’ordine solo ai casi in cui essa sia necessaria per difendere valori fondamentali e entro limiti che sono definiti in modo tassativo.

Quella posta dagli atti di disobbedienza civile è, per Rawls, «una prova cruciale per qualunque teoria delle basi morali della democrazia». Nei prossimi giorni saremo chiamati tutti, ciascuno nel proprio ruolo come cittadino, e alcuni di noi come educatori, a mostrare di essere all’altezza di questa sfida.

Stati uniti, studenti giornalisti contro la repressione

STATI UNITI. Un articolo di The Nation sul lavoro svolto dai reporter universitari durante le occupazioni dei campus e le proteste contro la guerra a Gaza

Amber X. Chen  12/04/2024

articolo originale sul sito di The Nation

Il 3 maggio abbiamo celebrato il World Press Freedom Day, un giorno di festa internazionale dedicato all’importanza del giornalismo e della stampa libera. E, al 3 maggio, più di 140 giornalisti erano stati uccisi a Gaza dal 7 ottobre – una media di cinque a settimana. Di fatto, a Gaza sono stati uccisi più giornalisti nei primi tre mesi di guerra che in tutta la Seconda guerra mondiale e la guerra in Vietnam combinate.

Il 5 maggio, il governo israeliano ha fatto irruzione nell’ufficio di A Jazeera a Gerusalemme, e lo ha chiuso. Negli Stati uniti – dove la libertà di stampa è sancita dal primo emendamento della Costituzione – le forze di polizia e le amministrazioni universitarie hanno abitualmente ignorato i diritti degli studenti giornalisti, che lavoravano instancabilmente per raccontare le proteste universitarie filo palestinesi in corso.

Alla Ucla, i reporter del Daily Bruin sono stati attaccati, colpiti con il gas urticante e minacciati di arresto. Quattro giornalisti del Daily Bruin sono anche stati presi di mira e attaccati dai contromanifestanti filo israeliani – mentre la polizia di Los Angeles ci ha messo quasi quattro ore a intervenire. Al Dartmouth, due studenti giornalisti sono stati arrestati per violazione di proprietà privata, nonostante si siano ripetutamente identificati come membri della stampa. Le accuse contro di loro non sono ancora state fatte cadere. Alla Columbia, gli studenti giornalisti del Columbia Daily Spectator e della radio Wkcr sono stati minacciati di arresto dalla polizia di New York, derisi, spintonati e poi banditi dal loro stesso campus. E solo lo scorso weekend agli studenti giornalisti di Annenberg Media e Daily Trojan della Usc è stato negato l’accesso a informazioni fondamentali per raccontare il raid notturno della Lapd – una violazione diretta del codice penale della California, che garantisce alla stampa il diritto di seguire liberamente ogni attività sui campus.

Dato che i media mainstream hanno ripetutamente dato false rappresentazioni dei gruppi filo palestinesi nei campus, il lavoro degli studenti giornalisti è più fondamentale che mai. Sono loro le persone meglio attrezzate per raccontare le storie dei campus universitari, perché fanno parte di quelle comunità. «Il lavoro dei reporter è raccontare storie che le persone non vogliono sentire. Quindi per sua stessa natura il conflitto è al cuore del giornalismo, o dell’atto del giornalismo», ha detto Geeta Annand, reporter premio pulitzer e preside di Berkeley Journalism. «Negli Stati uniti, dove la libertà di stampa dovrebbe essere protetta, in quanto cittadini crediamo davvero che il nostro governo e le nostre forze dell’ordine non debbano tentare di impedire ai giornalisti di fare il loro lavoro. E’ deplorevole che dei giornalisti stiano venendo uccisi mentre fanno il loro dovere, ed è sconvolgente che gli studenti giornalisti che cercano di raccontare le proteste stiano venendo arrestati».

La repressione degli studenti reporter non è limitata al movimento di protesta nelle università. Leon Orlov-Sullivan, direttore di The Campus del City College di New York, afferma che seguire le proteste studentesche gli ha rivelato fino a che punto i media sono obbligati a lavorare sotto gli ordini della polizia. «Se non vogliono la presenza di membri della stampa, i giornalisti non ci saranno», osserva. Un poliziotto della Nypd ha detto a Orlov-Sullivan che gli era proibito fare un livestream del raid all’accampamento della Cuny. In quel momento indossava un pass stampa.

«Non credo che alla polizia importi. Il 24 aprile hanno perfino arrestato un cameraman di Fox 7 e le accuse contro di lui non sono state fatte cadere; hanno ferito un giornalista del New York Times. Quindi scordatevi degli studenti giornalisti, a loro non importa neanche quelli di alto livello», dice Maryam Ahmed, studente giornalista di The Daily Texan. «Hanno arrestato o malmenato tutti quelli su cui riuscivano a mettere le mani. Da studente reporter non mi sento più sicura di qualunque manifestante».

Lo stesso sentimento si ritrova alla Usc. Durante il suo raid notturno del 5 maggio la polizia di Los Angeles ha rinchiuso tutti gli studenti reporter in un’area per i media, che Henry Kofman – vicedirettore del servizio fotografico del Daily Trojan – ha descritto come «un’area recintata da barriere nere dell’altezza di una persona» che ostruiva la vista delle attività degli agenti.

Kofman ha osservato che la polizia di Los Angeles e il Department of Public Safety (Dps) della Usc hanno mancato di incaricare un addetto alle pubbliche relazioni, e Annenberg Media ha riportato inoltre che «dei funzionari del Dps hanno minacciato di requisire i press pass dei reporter di Annenberg Media».

«Che io sappia non c’era alcun protocollo o documento in vigore che ci proteggesse in quanto giornalisti», dice Alesandra “Dre” Gonzales, una reporter, fotografa e videomaker di The Dartmouth, che è stata arrestata insieme alla alla caporedattrice di Dartmouth Charlotte Hampton mentre seguivano gli scontri con la polizia degli studenti del campus in protesta. «Ho detto ripetutamente di essere una giornalista», racconta Gonzales. «E una cosa a cui continuo a ripensare a proposito della notte del primo maggio, e del mio arresto, è che il poliziotto ha fatto una foto del mio press pass, e ciononostante c’era una grande indifferenza nei confronti del fatto che fossi una giornalista».

Se da un lato è importante che gli studenti reporter vengano identificati come giornalisti, l’assalto mirato contro i quattro del Daily Bruin ci ricorda che i reporter possono venire presi di mira semplicemente per il fatto di essere membri della stampa. «Dobbiamo confrontarci con la realtà per la quale esistono alcuni settori della società ostili ai media, che incolpano il messaggero», aggiunge Anand. «Quello che è successo alla Ucla è deplorevole. Significa che la nostra sicurezza è qualcosa a cui dobbiamo pensare costantemente. E’ terribile essere costretti a farlo, ma questo non significa che smetteremo di raccontare ciò che sta succedendo».

Gli studenti giornalisti sono stati molto chiari sul fatto che non hanno intenzione di interrompere le loro attività. «Al contrario, il mio arresto mi ha fatto amare di più questo lavoro», dice Gonzales. «Il giornalismo è troppo importante. Raccontare questioni grandi o piccole, locali, nazionali o globali perché le persone siano informate è un aspetto essenziale delle nostre vite».

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