Scuola. La scrittura della Carta di Roma. Il nostro dibattito
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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Scuola. La scrittura della Carta di Roma. Il nostro dibattito

31 gennaio 2018

Care e cari

ho buttato giù un pò di punti programmatici della Carta di Roma. Spero di avere indicato una modalità di scrittura. Il resto dei punti dovrebbe secondo me riguardare il ruolo degli insegnanti, anche una sacrosanta rivendicazione di un reddito più dignitoso, a fronte del lavoro fondamentale (e sempre più faticoso) che compiono. Altri punti potrebbero essere l’aggiornamento tramite forme di sabbatico da concordare con le Università. Insomma, metteteci le mani e la testa.

Cari saluti,

Piero Bevilacqua

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31 gennaio 2018

Condivido molto la bozza di “Carta”, che è giustamente l’esatto contrario della lettera del presidente di Confindustria piemontese di cui si parla in questi giorni: https://www.quotidiano.net/cronaca/cuneo-industriali-giovani-1.3693694

Brutto segno quando è Confindustria a suggerire alle famiglie cosa devono (non) studiare i loro figli.

Saluti

Rossano Pazzagli

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1 febbraio 2018

Caro Piero,

la stesura della carta mi convince molto nei suoi principi generali e di metodo.

Penso che eventuali aggiunte tipo quelle che proponi su un collegamento nella formazione e nell’aggiornamento con l’università (e qui qualche parola sulla normalizzazione dell’istituzione ci starebbe bene) dovrebbero scaturire dal dibattito della giornata come dati anche propositivi del movimento.

Ma su questo è bene sentire anche gli organizzatori.

Un saluto,

Ugo Olivieri

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1 febbraio 2018

Buongiorno amici,

anche io trovo molto belli gli spunti della “carta di Roma” e ringrazio Piero Bevilacqua e Velio Abati per quanto scritto.

Come parte del gruppo di insegnanti che si è cimentato nella stesura di un documento che, idealmente, doveva avere uno spirito analogo a questo (poi lo abbiamo chiamato “appello per la scuola pubblica”), volevo esprimervi una sola perplessità, vissuta ad un mese dalla pubblicazione di quel “manifesto” (https://sites.google.com/site/appelloperlascuolapubblica/).

Provo a riassumere in estrema sintesi ciò che intendo come perplessità, nata anche sulla base delle riflessioni che con il gruppo degli 8 colleghi scriventi abbiamo fatto – e continuiamo a fare – a seguito delle voci critiche e meno critiche, sollevatesi dopo la pubblicazione del testo di cui parlo.

Forse la giornata di discussione e la “carta” che da essa scaturirà, dovrebbe avere più affermazioni su “ciò che deve essere” la scuola, su “come ripensare” la scuola, piuttosto che su ciò che essa “non deve essere o non è”. Sarebbe bello arrivare a formulare delle proposte politiche sui vari temi individuati, con cui presentarsi al governo neo-eletto (sorvoliamo su questo punto).

So bene che ogni proposta è insita (in maniera evidente o implicita) in ciascuna delle tesi enunciate. Ma, forse, mettere in luce in modo più netto la parte propositiva della carta potrebbe essere un’idea.

Pensiamoci.

Buona giornata a tutti,

Rossella Latempa

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1 febbraio 2018

Caro Piero, cari tutti dell’Officina dei saperi,

ho letto con attenzione il testo della Carta di Roma cui state lavorando per il convegno del marzo prossimo. Ne condivido l’impianto generale e le finalità riformatrici di massima, ma avrei due osservazioni da trasmettevi, che a me sembrano imprescindibili:

  1. dalla Carta di Roma, salvo errore, mancano gli opportuni riferimenti alla concretezza del lavoro degli insegnanti nella loro documentabile collaborazione effettiva nella scuola reale (diritti e doveri), di ogni ordine e grado;
  2. dalla Carta di Roma, salvo errore, mancano i necessari riferimenti al nesso scuola-università (qualsiasi scuola e l’università, del territorio anzitutto).

Per questa ragione, anche per la collocazione “romana” del Convegno, allego a questa lettera, con invito alla condivisione e diffusione, un testo collettivo predisposto da studenti e professori nel 2003, approvato dal Senato Accademico della Sapienza Università di Roma, ma sostanzialmente disatteso (tranne che in qualche caso). Un documento a mio parere ancora attualissimo, che mi pare però chiarisca e renda cogente, anche operativamente il senso delle mie attuali osservazioni e proposte.

Vi auguro buon lavoro e buona giornata,

Nicola Siciliani de Cumis

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1 febbraio 2018

Mi trovo d’accordo con Nino Siciliani, e non potrebbe essere altrimenti, considerata la competenza e la passione pedagogica di cui è pervaso. A titolo provocatorio aggiungo che quanto è avvenuto e avviene nella scuola e nelle università a partire dalla sciagurata riforma Berlinguer (pensate cosa sarebbe successo se fosse stata progettata da un ministro di Berlusconi), mi fa pensare con nostalgia al sano nozionismo pre-sessantottino. Almeno gli studenti imparavano e i docenti insegnavano.

Franco Santopolo

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1 febbraio 2018

Care e cari,

le vostre osservazioni mi sembrano molto giuste e preziosi i vostri suggerimenti. Ne ho ricevuto anche in via privata. Non posso rispondere a tutti partitamente, ma rispondo a Nino Siciliani in maniera specifica. Intanto gli chiedo se vuole mettere il suo nome per un intervento (stessa cosa chiedo a Velio), poi per vedere come si può utilizzare il testo della Sapienza. Lo può leggere lui nella nostra assemblea? Metterò mani al testo anche con emendamenti formali di Velio, soprattutto aggiungendo più pars costruens come suggerisce Rossella. Tuttavia, la parte che riguarda gli insegnanti, su cui giustamente insiste Nino, l’ho lasciata in bianco non a caso. Vorrei che fossero gli insegnanti a scriverla, perché sono ovviamente più competenti di me. Ma aspettiamo altri suggerimenti. facciamo girare ancora il testo!

Un caro saluto,

Piero Bevilacqua

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2 febbrio 2018

Cara Rossella,

problema centrato. Credo di poter dichiarare in anticipo che, tanto nella mia relazione che in quella di Laura Marchetti, ci saranno per lo meno tentativi programmatici per prefigurare la scuola che vogliamo. Anche nella Carta di Roma ho aggiunto dei punti apertamente programmatici. Con le integrazioni fatte da me e da Velio, potrebbe essere considerata quasi completa per per farla circolare e sottoporla alla discussione del 16. Ma naturalmente attendo altre osservazioni.

Cari saluti,

Piero Bevilacqua

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2 febbraio 2018

Cari officini, vi giro una bella lettera di una mamma indirizzata ai professori (da Comune-info),

Enzo Scandurra

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Gent.mi,

tutti i vostri interventi e la bella lettera condivisa da Enzo Scandurra toccano la carne viva della questione.

A cosa stanno riducendo la scuola? A uno spazio morto di misurazione e certificazione di saperi procedurali (le ‘competenze’), in gran parte ‘processati’ da enti esterni (vedi l’Invalsi, ma vedi anche tutte le certificazioni dei ‘crediti formativi’ che ‘ratifichiamo’ nel triennio) in cui gli insegnanti sono ridotti a semplici passacarte. Ogni tentativo di mantenere viva la relazione umana (tra docenti e docenti, docenti e studenti, docenti e genitori) e lo spazio mobile, reciproco e sempre in divenire dell’insegnamento/apprendimento è sempre più azzerato. L’imposizione della didattica informatizzata in nome dell’innovazione e dello sviluppo (ma hanno mai letto Pasolini?) fa parte di questo progetto di de-umanizzazione, iniziato anni fa con l’introduzione del registro elettronico (sapete che la legge che lo ha imposto si chiama “dematerializzazione dei rapporti scuola-famiglia”!?!) e portato avanti a passo di carica con la sistematica svalutazione della didattica tradizionale (che non è affatto, e da un bel pezzo, nozionistica-trasmissiva-passivizzante, come cercano di far credere), con il dispositivo ‘meritocratico’ di regolazione e di autoregolazione delle condotte e soprattutto con l’imposizione di una superfetazione burocratico-ministeriale senza fine: all’obbligo di misurazioni, certificazioni e procedure elettroniche si accompagnano continue rendicontazioni, rapporti, tutoraggi, pratiche, passaggi e percorsi obbligati, perlopiù /online/.

La legge 59/97 sull’autonomia scolastica di Berlinguer aveva avviato questo processo di trasformazione (permettetemi un ricordo personale in omaggio al compianto Maurizio Matteuzzi: https://ilmanifesto.it/cosi-il-pensiero-unico-destra-sinistra-ha-distrutto-scuola-e-universita/) nei termini neoliberisti di una totale deregolazione dell’istituzione scolastica, resa autonoma finanche costituzionalmente nel novellato Titolo V. A 20 anni di distanza, la legge 107 – un unico articolo con 212 commi – rideclina quell’autonomia in una perfetta dimensione ordoliberista, in cui è lo Stato che assicura all’economia di mercato una scuola confacente alla sue esigenze di funzionamento. Proprio attraverso quella pletora di circolari, direttive e pratiche burocratiche cogenti con cui il MIUR ci sta uccidendo.

E laddove cerchiamo, ormai quasi in apnea, di parlare, di leggere, di scrivere, di pensare, di studiare (sic) con i nostri studenti, ce li portano via con l’alternanza scuola-lavoro. Noi entriamo in classe e loro non ci sono. E spesso tornano disperati, perchè si rendono conto che hanno perso tempo (la cosa più preziosa che abbiamo) a non far nulla o che sono stati costretti a svolgere lavoretti ignobili.

A fronte di questa situazione, e tocco solo fuggevolmente alcune delle drammatiche questioni che riguardano la scuola, in cui tutti siamo stretti nella morsa di una///governance /che comprime ogni spazio di cultura e libero pensiero, bisogna fare qualcosa di più di qualche proposta politica. Siamo andati troppo oltre. Nessuna abolizione, nessuna correzione, nessuna attenuazione di questo o quel provvedimento sarebbe sufficiente per garantire il ripristino degli articoli 3, 33 e 34 della Costituzione che, di fatto, nella scuola oggi sono stati aboliti perché corrispondono a valori e principi di democrazia, pari opportunità, crescita personale e sociale e capacità critiche di libera riflessione su di sè e sul mondo che questa ideologia mercatistica e utilitaristica così pervasiva e totalizzante non può tollerare.

Io credo che dobbiamo chiedere al futuro Governo che si fermi, e al futuro Parlamento che avvii una profonda riflessione pubblica in cui si individui una diversa prospettiva per il futuro, a partire dai temi fondativi indicati nell’Appello per la scuola pubblica e dalla Carta di Roma, due documenti che descrivono perfettamente qual è la posta in gioco.

Grazie per l’attenzione.

Cordiali saluti a tutti,

Anna Angelucci

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2 febbraio 2018

Un grazie ad Anna Angelucci per questa lucida ed angosciata lettera. Sì, i processi di desertificazione sono andati troppo avanti. E non è certo con un convegno che cambieremo le cose: la battaglia è di lunga lena e occorrerà sconfiggere una cultura diventata senso comune. Senso comune soprattutto di un ceto politico e di gruppi tecnocratici per combattere i quali occorreranno molte forme di lotta. Ma quando avremo un nuovo governo occorrerà che gli insegnanti più attivi e consapevoli pensino a forme di mobilitazione e di protesta anche clamorose.E soprattutto occorrerà collegarsi a quelle poche forze politiche che in parlamento possono ascoltare le nostre voci.

Cari saluti,

Piero Bevilacqua

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31 gennaio 2018

Caro Piero,

un’eccellente sintesi, e di grande respiro. C’è quasi tutto.

Qualcosa in più ci vorrà sulla condizione docente, sui portatori di una visione alternativa per ora minoritari e assediati dal neoqualunquismo aziendalista e produttivista.

Entro fine settimana invio una cartellina.

Sarò a Roma il 16 . Il breve mio intervento, come ti accennavo pertelefono, porrebbe avere come titolo: “Per una scuola del bricolage creativo”.

A presto.

Dino Vitale

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3 febbraio 2018

Caro Piero, cari tutti,

il testo proposto da Piero mi sembra assai bello. Ha poi una omogeneità e una “leggerezza” di linguaggio (non burocratica, non scolasticistica) che mi piacerebbe assai se fosse conservata nella sua impostazione originale.

Non ho quindi emendamenti da proporre, riconoscendomi pienamente.

Un abbraccio a tutti

Laura Marchetti

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3 febbraio 2018

Credo anch’io, come Laura Marchetti, che il testo di Piero dovrebbe essere toccato il meno possibile. Le sue scelte stilistiche sono in grado di parlare a cerchie più ampie rispetto a quelle degli addetti ai lavori.

Paolo Favilli

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3 febbraio 2018

Sono dello stesso parere di Laura e Paolo, Credo che sia importante utilizzare un linguaggio che si discosti da quelli tradizionali, soprattutto in questo caso,

Enzo Scandurra

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3 febbraio 2018

Care e cari,

ringrazio gli amici della stima. Non vorrei apparire troppo pro domo mea – anche perché la Carta di Roma viene firmata dall’ autore collettivo Officina dei saperi – ma la questione dell’unità stilistica è importante. È meno rilevante se manca qualche punto rivendicativo di quanto non sia rilevante la facilità di lettura di un intero testo. Tuttavia, le cose che scrive Velio, rimaste in giallo e che io non ho saputo uniformare al nero del mio testo, sono importanti. Se la sente Velio di snellirle ulteriormente? Ho aggiunto al mio testo alcuni altri spunti, uno che potrebbe creare controversie, e che è toanche un pò oscuro per necessità di sintesi, è nel punto 2 e riguarda il sapere manuale.Vorrei il vostro parere.

Altri spunti sono programmatici e riguardano l’unità dei saperi. Avevamo dimenticato di rivendicare l’abolizione della figura del preside manager e l’ho fatto. Infine ho avanza la richiesta di un reddito dignitoso per gli insegnanti.

Cari saluti,

Piero Bevilacqua

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3 febbraio 2018

Caro Piero,

mi spiace ma preferivo la prima versione. La scuola per me è soprattutto dei bambini e delle bambine, delle ragazze e dei ragazzi, il posto dove dovrebbero sperimentare, grazie ai maestri, l’immaginazione, la cooperazione, l’ amicizia per i viventi e la passione per i saperi. Solo in seconda battuta è degli insegnanti (lo scrivo al neutro perchè, nella didattica viva, spesso si comportano come un corpo neutro – corpo docente – contro il corpo discente, come stigmatizzava Derrida). Così il testo appare sbilanciato verso rivendicazioni di categoria. Guadagno 2200 euro al mese ma non mi sembra proprio il caso di mettere, nella nostra visione, l’aumento degli stipendi.

Laura Marchetti

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3 febbraio 2018

Caro Piero,

condivido il riferimento al sapere manuale (che può essere inteso anche riferito più in generale ai saperi contestuali, o popolari come si potrebbe anche dire).

In effetti i punti 6, 7 e 8 somigliano più a una piattaforma rivendicativa che a una carta di principi. Sfumerei un po’ “la centralità dell’insegnante” (la vera centralità è lo studente), parlando piuttosto di ruolo dell’insegnante, e non attaccherei così frontalmente l’autonomia. Come principio essa può anche significare una maggiore capacità delle scuola di riflettere le condizioni territoriali dei luoghi e delle comunità in un paese articolato e plurale come è l’Italia.

Saluti

Rossano Pazzagli

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3 febbraio 2018

Gentilissimi,

propongo di sostituire il termine ‘centralità ‘ con la parola ‘dignità’: dignità degli insegnanti, degli studenti, della scuola come istituzione. Una dignità che i disinvestimenti (negli stipendi ma anche nei fondi per l’istituzione scolastica, cioè per gli studenti), la svalutazione dello studio e delle discipline e la mistificazione dell’alternanza scuola-lavoro hanno gravemente compromesso.

Dignità della costruzione di un sapere che docenti e studenti conducono insieme, nelle aule scolastiche, in una relazione umana reale, con un impegnativo lavoro quotidiano. Perché lo studio è lavoro.

Riguardo all’autonomia, la critica è più che pertinente: questa legge è stata il cavallo di troia della riconversione aziendalistica e privatistica della scuola e, prima ancora, proprio per la sua finalità intrinseca di legare la scuola al territorio, ha disarticolato il sistema scolastico nazionale, amplificando invece che riequilibrando le differenze economiche e culturali. I risultati, in termini di sperequazioni e ingiustizie anche semplicemente tra quartieri di una stessa città, sono purtroppo sotto gli occhi di tutti.

Saluti,

Anna Angelucci

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3 febbraio 2018

Cari amici, ho provato a riscrivere in forma meno contratta le due parti che nel testo inviato da Piero erano in giallo. Le trascrivo di seguito. Fatemi sapere.

Velio Abati

6) La politica dell’autonomia è in realtà diventata l’occasione per sottrarre risorse pubbliche all’istruzione, costringendo le singole scuole a inventarsi aziende alla ricerca di finanziamenti, di progetti, d’iscrizioni, in concorrenza l’una con l’altra. In questo modo gli svantaggi economici, sociali e geografici, invece che essere in parte contrastati da una formazione di qualità, diventano motivo di ulteriore svantaggio per gli studenti e le loro famiglie: scuole povere nelle aree povere, scuole ricche nelle aree ricche. Inoltre i carichi burocratico-amministrativi dei nuovi compiti e la loro rilevanza per la vita stessa dell’istituto scolastico hanno creato la separazione tra il gruppo ristretto di docenti a essi assegnati e gli altri che si dedicano solo all’insegnamento. Il rischio concreto è la perdita di vista dei bisogni educativi e formativi degli studenti, mentre per il docente è a rischio la libertà d’insegnamento e, in sostanza, la svalutazione del suo lavoro.

7) Occorre una decisa politica d’investimento, indispensabile per mettere davvero al centro la scuola e la ricerca, per invertire la rotta di marginalizzazione del Paese e di esclusione di strati sociali e aree geografiche drammaticamente sempre più estese. Occorre liberare gli istituti scolastici da compiti impropri e gli studenti dall’attuale saturazione dei tempi, mettendoli nella condizione di sperimentare che il tempo dell’apprendere, del creare e dell’immaginare, della meditazione interiore, della consapevolezza di sé, è un tempo disteso, non quello soffocato delle mille cose mordi e fuggi, dei mille addestramenti, dei cento attestati.

***

4 febbraio 2018

Caro Velio,

i due testi revisionati, mi sembrano ottimi e li inserirò, insieme ai suggerimenti di Anna Angelucci (la dignità dell’insegnante, più che la sua centralità, molto giusto) nel testo della Carta. Aspetto che arrivino altre osservazioni. Anch’io ritengo giusta la critica all’autonomia, che reca certamente delle potenzialità apprezzabili: l’aderenza ai caratteri dei territori, una maggiore possibilità progettuale della periferia rispetto al centro burocratico, ecc.tutte cose che hanno tratto in inganno il progressismo dei vecchi comunisti come Luigi Berlinguer, i quali avevano ormai esaurito la propria “spinta propulsiva”. In realtà, l’autonomia – questo motivo mi pare che l’accenni Anna – svuota l’idea di una scuola come progetto unitario di emancipazione delle nuove generazioni e del paese.

Progetto che affonda nei valori contemporanei della Costituzione e in quelli antichi della sua grande tradizione umanistica. Inoltre nel disegno dell’autonomia, si annida la ratio neoliberista: come spiega Velio le singole scuole vengono costrette progressivamente a cercare risorse non a quel potere collettivo che è lo Stato, ma ai privati, ai cui interessi, sempre progressivamente, occorrerà piegare anche i contenuti dell’insegnamento.In USA succede già, i privati finanziano scuole in cambio di pubblicità ai loro prodotti negli istituti. Inoltre, il radicamento e la specificità locale invocate dall’autonomia costituiscono le premesse perché le scuole possano competere tra di loro.Ecco avvenuta la trasformazione dei luoghi della formazione, della cultura, dell’emancipazione umana, del pensiero critico, ecc. in aziende.I l pensiero unico ancora una volta trionfa: ogni frammento del vivente deve essere piegato ad unico fine, il profitto.

Buona domenica,

Piero Bevilacqua

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4 febbraio 2018

Caro Piero,

ti ringrazio davvero di cuore per aver portato a sintesi le ragioni complesse che hanno felicemente animato, negli ultimi giorni, l’Officina: il risultato mi pare notevolissimo!!! Gli ultimi ritocchi di Velio sono ottimi.

Ti scrivo qui qualche dubbio su alcune questioni specifiche, lasciando, ovviamente, alla tua penna affilata le scelte definitive:

— noto una qualche dissonanza tra il primo punto, dove si dice che le tecnologie richiederanno «sempre più intelligenza e immaginazione che non abilità manuali» (per cui non possiamo tarare la scuola sul lavoro) e il secondo punto dove si parla della scuola che «Deve anche cercare di fare emergere negli allievi che ne sono dotati, il loro talento manuale la loro inclinazione al pragmatismo dei mestieri»;

— sempre quel primo punto, in cui si chiarisce che la scuola non deve essere tarata sul mondo del lavoro anche perché le tecnologie non richiederanno tanto abilità manuali, ma funzioni più complesse, mi pare un po’ in contraddizione con quanto si dice a proposito nel punto 4 sul fatto che la scuola non deve adeguarsi al «mercato del lavoro»;

— il punto sui lavori manuali è molto suggestivo ma non vorrei che fosse inteso come un assist all’alternanza scuola-lavoro;

— il legame col territorio, che in nuce avrebbe potuto essere un elemento di positività, ha in realtà agito come elemento di destrutturazione della scuola pubblica (non a caso è stato il mantra di ogni riforma, da Berlinguer a Gelmini). Ha aperto il varco per l’atomizzazione dei programmi e dei valori formativi, che lascia spazio alle tante diseguaglianze territoriali, di censo e di ceto. Senza nessuna possibilità di costruire un codice comune di civiltà che almeno affianchi l’unico valore altrimenti ampiamente condiviso: quello del mercato.

— inserirei almeno un riferimento alla indispensabile abolizione di forme di verifica attraverso i test (INVALSI nella scuola, TECO nell’Università). La scuola che noi vogliamo ha bisogno di docenti per cui verbi come competere, somministrare, verificare non significhino nulla.

Questi i miei due cents per la nostra Carta.

Grazie ancora e un grande abbraccio,

Tiziana Drago

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5 febbraio 2018

Cari e care,

torno un attimo sulla nostra Carta per porvi una questione a mio avviso rilevante, di ordine innanzitutto politico, in seconda istanza anche tattico.

Io credo che sarebbe opportuno che la Carta dell’Officina scaturisse, nominandolo in apertura, dall’Appello per la scuola pubblica promosso dai docenti, come testimonianza di una presa in carico da parte di un gruppo significativo di intellettuali di una questione fondamentale.

E questo per diverse ragioni.

1) perché credo che nella sostanza quell’Appello rappresenti un arricchimento epistemologico notevolissimo della nostra riflessione sul sistema pubblico di istruzione e ricerca.

2) perché quell’Appello, che tanti di noi hanno sottoscritto e condiviso, rappresenta l’opinione di oltre 10.000 persone (tante sono le firme sinora raccolte… la nostra Carta, a rigor di numeri, è espressione di un piccolo gruppo, sia pure significativo, di cittadini abituati a discutere e a riflettere)

3) perché ciascuna di quelle firme porta con sé un’aspettativa e una speranza, che non va delusa, ma incoraggiata (chi ha firmato l’Appello constaterebbe l’inutilità della propria firma, qualora i responsabili dell’Appello non si impegnassero a portarlo avanti in tutti i modi possibili…).

Si tratta, insomma, di un documento troppo prezioso perché ora lo si possa ‘oscurare’ o ‘superare’: quell’appello chiede una moratoria e una riflessione pubblica sulla scuola, ovvero l’unica cosa sensata che il prossimo Parlamento potrebbe fare.

In concreto, quindi, io penso che non debba mancare un esplicito riferimento a quel documento ad apertura della Carta dell’Officina e che le due elaborazioni (Appello per la scuola pubblica e Carta) debbano essere da noi intese come complementari, ovvero presentate entrambe ai nostri interlocutori politici.

Grazie di cuore e un abbraccio,

Tiziana Drago

***

5 febbraio 2018

Cara Tiziana e cari tutti,

non posso che condividere queste riflessioni in merito all’Appello e ai suoi contenuti.

L’idea che la Carta di Roma ne sia testimonianza e rilancio, in forza della presa in carico di una questione sino ad ora fin troppo sottovalutata mi pare bellissima.

L’una rafforza l’altro, e viceversa.

Mi unisco dunque alla proposta di Tiziana di inserire un esplicito riferimento all’Appello in apertura della Carta.

Grazie,

Anna Angelucci

***

5 febbraio 2018

Carissimi,

sulla scia di quanto scrive l’amica Tiziana, senza alcuna pretesa di rivendicarne preminenza e/o importanza, penso anche io che quel documento, dato da 8 insegnanti sconosciuti ma in cui oltre 10500 persone hanno riconosciuto un pezzettino del proprio pensiero sulla scuola, sia uno sforzo da non “disperdere”, ma, al contrario, da amplificare. Per questo, vedo nella Carta di Roma e nella vostra apertura al dibattito con noi insegnanti in quella giornata due strumenti potentissimi.

L’Appello per la Scuola pubblica non è “un testo di insegnanti”, che “riguarda gli insegnanti”.E’ un documento, scritto da chi vive la quotidianità scolastica, sulle trasformazioni della scuola collocata in un preciso contesto sociale, storico, economico, quindi politico. Trasformazioni alle quali, consapevolmente o inconsapevolmente, gli studenti, gli insegnanti, i genitori (la cittadinanza) partecipano. E sulle quali siamo chiamati ad interrogarci, entro un orizzonte che non è puramente “pedagogico”, ma storico e “materiale”, quindi – di nuovo –politico.

Vi dicevo – qualche email fa – che mi piacerebbe parlare dell’insegnante e di cosa significa insegnare oggi. Non perché ritengo che la scuola appartenga agli insegnanti e debba essere disegnata sulle loro necessità. Ma perché, al contrario, penso che disegnare un “tipo medio” di insegnante, un “insegnante” e un insegnamento “standard” – come sta accadendo con le recenti derive ministeriali (meccanismi e dinamiche che solo “dal di dentro” si conoscono e subiscono) – implichi disegnare un “tipo medio di studente” e prefigurare un certo tipo di società e cittadinanza.

I 20 anni che ci separano dall’autonomia (tema fondamentale, come dice Anna Angelucci, di cui parleremo a Roma il 22 febbraio) ci aiutano a collocare le evoluzioni della politica scolastica in perfetta sincronia con quelle del mercato del lavoro. Pacchetto Treu 1997, Jobs Act (a regime) 2017. La riforma della scuola è “una riforma del mercato del lavoro”. Passatemi questa “esagerazione”, che però ci aiuta a sollevare lo sguardo dai nostri libri (anzi, tablet) e dalle nostre aule, per guardare ad un orizzonte che non è più semplicemente pedagogico-educativo.

Per questo, credo, sia il momento di unire tutte le nostre forze, al di là di sensibilità più o meno convergenti, di priorità più o meno differenti, che attraverso il dibattito, la discussione e il confronto, troveranno una naturale “composizione” verso un obiettivo comune: aprirsi un varco e trovare un’alternativa a questa deriva linguistica e culturale.

La pretesa e la speranza che nutrivamo quando abbiamo scritto il documento erano proprio quelle di suscitare una “presa in carico” di un’istanza culturale, riassunta in un *unico testo *(sulla cui stesura, lunghezza, articolazione, etc si può discutere, dibattere, migliorare, non sono le Tesi di Lutero…) da parte del mondo della Scuola e dell’Università.

Per questo penso che la vostra partecipazione, attraverso lo spazio in quella giornata di discussione, il dibattito e la Carta di Roma che ne scaturirà, possano essere fondamentali.

Grazie!

Rossella Latempa

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