UNA CRISI AMBIENTALE PER CAMBIARE IL MONDO da IL MANIFESTO
Una crisi ambientale per cambiare il mondo
Scaffale «Come il cambiamento climatico potrebbe salvare il mondo» del sociologo tedesco Ulrich Beck (Castelvecchi). Scritto un anno prima di morire nel 2014, si rivela oggi quasi un saggio preveggente
Francesco Antonelli 03/04/2025
Mentre l’avanzare delle posizioni belliciste in Europa relega necessariamente in secondo piano il fondamentale obiettivo della transizione ecologica – esiste qualcosa di più inquinante delle industrie militari e degli armamenti? – un «messaggio nella bottiglia» arriva a ricordarci che la crisi ambientale continua ad incombere su di noi, in barba alla folle miopia delle attuali classi dirigenti: si tratta di Come il cambiamento climatico potrebbe salvare il mondo (Castelvecchi, pp. 70, euro 11,50) di Ulrich Beck; un saggio tradotto con cura da Angela Taraborrelli pubblicato dal grande sociologo tedesco nel 2014, un anno prima di morire, e che espone con straordinaria chiarezza, riassumendole in otto tesi, le principali conclusioni cui era giunto sul problema principale della sua sociologia: come è possibile – e necessario – ripensare le nostre società al tempo del cambiamento climatico; processo globale per eccellenza.
COME RICORDA Danilo Selvaggi nella bella introduzione al libro, al centro del pensiero dell’ultimo Beck si trova il concetto di metamorfosi: un cambiamento strutturale che fa saltare obiettivamente i capisaldi antropologici su cui si fondano le nostre società, rendendo possibile e necessario ciò che prima non lo era. In particolare, siamo ormai passati da un mondo fondato sulla logica dello Stato-nazione, tutta centrata sulla difesa dei confini e il tentativo di controllare l’accesso di ciò che proviene dal loro esterno, a un mondo cosmopolita; basato cioè sul dispiegamento di una pluralità di rischi ecologici prodotti dal normale funzionamento del capitalismo industriale, i cui effetti attraversano oggettivamente qualunque confine: nascono le comunità transfrontaliere del rischio, frutto dell’inestricabile interdipendenza del mondo contemporaneo.
IL PROBLEMA È CHE ESISTE uno iato crescente tra questa situazione obiettiva e una conseguente presa di coscienza in grado di ripensare la politica: al centro occorrerebbe mettere la cooperazione tra i popoli per fronteggiare e governare il cambiamento climatico, e non solo. Disfarsi delle categorie e delle pratiche fondate sul nazionalismo e la difesa dei confini – cioè quel «nomos della terra» che il principale teorico dello Stato (autoritario) novecentesco, Carl Schmitt, indicava come fondamento antropologico della politica.
È così che Beck invita ad andare oltre il catastrofismo distopico e il negazionismo per individuare, proprio nel cambiamento climatico, la più straordinaria occasione di evoluzione della civiltà umana che si sia mai presentata nella storia: costruire un sistema basato su regole cosmopolite in grado di organizzare la cooperazione tra i popoli di fronte al rischio climatico e, quindi, avvicinarci all’orizzonte della «pace perpetua» di Kant. L’alternativa che Beck individua – e che parla con straordinaria preveggenza del mondo di oggi – è la barbarie, la guerra, il disastro dell’umanità nel suo complesso; tutti elementi legati a quel ritorno del nazionalismo e del sovranismo che cerca di opporsi, in modo reazionario e velleitario, alla metamorfosi del mondo che intanto si è oggettivamente affermata. Mentre l’autore individua nelle città globali, nel loro fermento e nelle loro contraddizioni, i luoghi per eccellenza per sviluppare un riassetto cosmopolita della politica mondiale, sono le classi medie riflessive – la «classe creativa», per dirla con Florida – il principale soggetto da lui indicato per costruire il nuovo orizzonte.
BECK È UN RIFORMISTA e non un utopista: se da una parte cerca di mostrare la convenienza anche economica della cooperazione tra i popoli rispetto alla tradizionale competizione nazionale, indica chiaramente la necessità di compromessi politici; e, quindi, di accettare che i regimi democratici cooperino con quelli autoritari in nome di una comune minaccia, indipendentemente da considerazioni ideologiche. Tuttavia, osservando il deficit di consenso che ha infine arenato il «new green deal» europeo, nonostante le misure condivisibili, possiamo riconoscere la necessità di arricchire ulteriormente la visione di Beck con le urgenze politiche da affrontare nel nostro presente: se non si lega la questione della lotta alla crisi ecologica con quella della giustizia sociale – cioè dell’inclusione dei ceti popolari e non solo di quelli medi nel progetto cosmopolita – ogni evoluzione positiva della civiltà umana appare preclusa. E, come sta accadendo proprio in queste ore, il nazionalismo – anche in salsa europeista – non può che riprendere fiato e condurci tutti all’autodistruzione.
Big Tech, tecnofeudalesimo inquietante
Energia Pensavamo ad una energia finalmente pulita e distribuita, in un modello economico diverso che negasse le tensioni neoliberiste. La mutazione genetica del capitalismo ha invece scavato nel suo interno producendo […]
Livio De Santoli* 03/04/2025
Pensavamo ad una energia finalmente pulita e distribuita, in un modello economico diverso che negasse le tensioni neoliberiste. La mutazione genetica del capitalismo ha invece scavato nel suo interno producendo qualcosa ben peggiore, un ultra-capitalismo che Yanis Varoufakis chiama tecnofeudalesimo, in cui si ha una concentrazione di poteri dominata dai colossi digitali Google, Amazon, Meta e Apple che accumulano enormi quantità di dati e risorse.
C’è da chiedersi come sia possibile che oltre alle critiche di Varoufakis, anche dall’altra sponda ideologica, Steve Bannon, consigliere del primo Trump, ritiene di affermare che Elon Musk rappresenti una minaccia alla sovranità nazionale, perché è inammissibile che le decisioni politiche siano prese dalle grandi aziende e non dai governi eletti. Se capisco bene, questo atteggiamento feudale che rende gli individui, i lavoratori e persino i governi dipendenti dai servizi di un dominus, che trasforma i profitti in rendite, segnerebbe un profondo distacco dalle regole del capitalismo e del suo mercato, quelle della concorrenza e della innovazione. Eliminando definitivamente il mercato e sostituendolo con il cloud e le sue rendite, dove il controllo del digitale domina su ogni logica, i profitti derivano dal possesso delle piattaforme piuttosto che dalla produzione e i lavoratori sono sostituiti da ogni singolo individuo in una massificazione culturale in cui sono costretti a cedere i diritti dei propri dati.
I big del digitale svolgono il ruolo tipicamente riservati agli Stati, esercitando una sovranità pericolosa: controllo dell’informazione per superare la rete dei media, criptovalute e pagamenti globali per contrastare l’influenza delle banche centrali, la politica dei dazi, addirittura bypassando il controllo dei governi e mettendo in discussione l’autorità delle istituzioni, con un sistema in cui l’azione privata sostituisce progressivamente quella pubblica.
Le implicazioni sono geopolitiche e giuridiche, addirittura operando al di fuori dei perimetri normativi e fiscali nazionali. In tutto questo l’energia assume un ruolo piuttosto inquietante. Il tecnofeudalesimo non ha neppure bisogno di essere negazionista nei confronti del clima. A livello ideologico, l’errore di fondo di poter affrontare la crisi climatica trasformando e decarbonizzando completamente l’economia globale, senza dover risolvere nessuna delle relazioni sociali e delle disuguaglianze che definiscono il capitalismo, nel caso del tecnofeudalesimo viene amplificato a dismisura.
Il suo scopo è chiaro: mantenere il più possibile una sovranità per pochi, eliminando anche i pur flebili meccanismi di mercato, come il prezzo del carbonio o le politiche di responsabilità aziendale Esg, per non parlare degli investimenti e interventi pubblici. Le grandi aziende digitali hanno la necessità di grandissime quantità di energia e le loro decisioni sulle fonti energetiche vengono utilizzate per influenzare la politica energetica in senso passatista. Inoltre, esse raccolgono e utilizzano una enorme mole di dati energetici per promuovere i propri interessi con una completa estromissione dei consumatori.
Lo sviluppo delle tecnologie energetiche viene fatto in ambito di monopolio, e il terreno è propizio per creare fondi miliardari per investire nell’alimentazione dei data center e per l’intelligenza artificiale. Per riuscirci, Black Rock e Microsoft per esempio, chiedono ad una società di investimento degli Emirati Arabi investimenti da 100 miliardi di dollari, naturalmente basati sull’oil&gas. Il settore dei data center contribuisce per circa lo 0,3% delle emissioni complessive di carbonio e l’intero sistema dell’Ict ad esso collegato rappresenta oggi oltre il 2% delle emissioni globali, in crescita esponenziale.
L’impronta del carbonio di queste strutture è quindi motivo di grande preoccupazione, soprattutto se il contesto economico non ritiene di considerare alcun aspetto di sostenibilità, considerata troppo costosa, e vuole favorire la concentrazione delle produzioni energetiche in luogo della sua distribuzione. Anche la totale assenza di trasparenza e accessibilità dei dati energetici ostacolano la concorrenza e aiutano la crescita di un potere centralizzato.
Solo una forte regolamentazione e robuste politiche pubbliche possono aiutare a promuovere la concorrenza e a ridurre la concentrazione del potere nel settore energetico, ma è una strada tutta in salita.
*Prorettore per la Sostenibilità, Sapienza Università di Roma
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