UN MURO DI FERRO CONTRO JENIN da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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UN MURO DI FERRO CONTRO JENIN da IL MANIFESTO

Un muro di ferro contro Jenin

Far West Bank Netanyahu ha dato il via a una vasta offensiva militare che dalla città palestinese si estenderà a tutta la Cisgiordania: già 9 gli uccisi

Michele Giorgio  22/01/2025

RAMALLAH

Il colpo più devastante sul campo profughi di Jenin e varie parti della città è avvenuto nella prima ora dell’attacco israeliano. «All’improvviso sono apparsi in cielo elicotteri Apache e droni, sparavano su tutto. Sei (dei nove) uccisi sono stati colpiti nei primi quindici minuti, in gran parte civili», ci raccontava ieri al telefono Amer Nofal, 61 anni, residente nel centro di Jenin. «Quelli che erano in strada hanno cercato un riparo dalle mitragliate. Poi, dopo gli attacchi dal cielo, sono arrivati i blindati con i soldati. Quindi le ruspe militari, che come sempre, hanno distrutto strade e danneggiato edifici», ha aggiunto, sottolineando che «non è una operazione come le altre, è qualcosa di più grosso». Ha ragione Amer, quella che Israele ha lanciato ieri contro Jenin, città simbolo della resistenza palestinese all’occupazione, è una offensiva che si annuncia di vaste proporzioni. Di fatto è un il capitolo successivo della guerra a Gaza.

Benyamin Netanyahu l’ha chiamata «Muro di Ferro», in onore del manifesto ideologico del leader sionista, e suo modello di riferimento , Zeev Jabotinsky, che scrisse nel 1923 di una colonizzazione sionista in Palestina attraverso un «muro di ferro che la popolazione nativa non può violare…Non può esserci alcun accordo volontario tra noi e gli arabi palestinesi». È una esortazione all’uso sistematico della forza che ben si sposa con la guerra incessante che 102 anni dopo il premier da Gaza ora porta nella Cisgiordania occupata. «L’esercito, i servizi di sicurezza e la polizia di Israele hanno avviato oggi un’operazione militare – denominata «Muro di ferro» – vasta e significativa per combattere il terrorismo a Jenin…Agiamo in modo sistematico e deciso contro l’asse iraniano ovunque esso estenda le sue mani: a Gaza, in Libano, in Siria, in Yemen, in Giudea e Samaria (la Cisgiordana, ndr). E non finisce qui», ha comunicato l’ufficio di Netanyahu. Jenin, perciò, è solo l’inizio di una campagna militare che arriverà in altre città dove Israele vuole «sradicare il terrorismo» e continuare la «distruzione di Hamas».

A Jenin si vivono ore di tensione con l’esercito israeliano impegnato a «cercare ed eliminare» i combattenti palestinesi della Brigata Jenin (Jihad islami), di Hamas, Fronte popolare e altre formazioni. Ciò che hanno fatto per sei settimane fino a qualche giorno fa, le forze di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese in un vano quanto impopolare tentativo di affermare il potere di controllo del presidente Abu Mazen. Tra i 36 palestinesi feriti ieri a Jenin ci sono anche alcuni poliziotti dell’Anp (uno è grave) tornati nel campo profughi e nel centro della città sulla base di un accordo di riconciliazione con i gruppi combattenti. L’attacco israeliano ieri ha dimostrato l’irragionevolezza delle spaccature interne: l’occupazione era e resta la questione centrale nella vita di ogni palestinese. Oltre al campo profughi, le forze israeliane hanno preso d’assalto i quartieri di Al-Jabriyat, Al-Hadaf e l’area dell’ospedale Al-Amal. Rinforzi sono giunti poco dopo ai checkpoint di Dotan e Al-Jalama, mentre droni ed elicotteri hanno continuato a sorvolare tutta la zona, Esplosioni e raffiche di mitra sono andate avanti per diverse ore. «Manca l’elettricità in varie zone, l’oscurità è rotta dai razzi illuminanti che guidano le truppe (israeliane) nei rastrellamenti. Il ronzio dei droni non ha soste», riferiva ieri sera Musa Natur, un profugo.

Le avvisaglie di «Muro di Ferro» si sono sentite domenica, con la scarcerazione di 90 palestinesi in cambio di tre ostaggi israeliani. Mentre Gaza rifiatava dopo 471 giorni di guerra, il capo di stato maggiore israeliano Herzi Halevy ha avvertito che sarebbero partite operazioni militari «preventive» di «attacchi terroristici in preparazione». All’improvviso i controlli sono stati irrigiditi ai posti di blocco dell’esercito, non pochi dei quali sono stati chiusi sigillando in città e villaggi gran parte della popolazione palestinese. Con la chiusura, interrotta a tratti, dei posti di blocco di Qalandiya, Jaba e Bet El, uscire da Ramallah è stato quasi impossibile e migliaia di palestinesi sono stati travolti da un caos totale ai valichi per Gerusalemme. I militari hanno alzato sbarramenti e posizionato blocchi di cemento sulle strade per decine di centri abitati piccoli e grandi. Ai palestinesi che ufficialmente risiedono a Gerusalemme, e che per ragioni economiche e mancanza di alloggi vivono in Cisgiordania, sono giunti messaggi sul telefono con l’ordine di rientrare nella città santa. I palestinesi temono una incursione nell’area di Kufr Aqab e Qalandiya, tra Gerusalemme e Ramallah. L’esercito ha arrestato dozzine di palestinesi nella notte tra lunedì e martedì, in particolare ad Azzun (Qalqilya). Nei video si vedono giovani a terra a pancia in giù e a camminare in fila con le mani in testa sorvegliati da soldati. Un corrispondente militare israeliano, Hillel Biton, ha commentato: «Questa non è Jabaliya, è Azzun. Ciò che stiamo vedendo qui è l’attuazione della politica del pugno di ferro approvata dal governo di cui vedremo l’applicazione in tutta la Cisgiordania nelle prossime ore e nei prossimi giorni».

Il capo di stato maggiore Halevy ieri ha annunciato le sue dimissioni per il 6 marzo, assieme al comandante della regione meridionale Yoram Finkelman, per il «fallimento del 7 ottobre 2023». Quindi sarà lui a guidare fino a marzo «Muro di Ferro». Ma il capo militare dietro le quinte sarà il ministro ultranazionalista delle Finanze, Bezalel Smotrich. Oppositore della tregua a Gaza, Smotrich dice di aver avuto da Netanyahu l’assicurazione che la guerra continuerà. La tv Canale 14 aggiunge che grazie alle pressioni del ministro delle Finanze sono stati approvati «cambiamenti secondo i quali la libertà di movimento in Cisgiordania è un diritto fondamentale, in primo luogo, per i coloni ebrei». E i coloni, forti anche della decisione di Trump di revocare le sanzioni Usa contro alcuni di essi, la «libertà di movimento» in Cisgiordania la stanno usando lanciando attacchi e raid contro i villaggi palestinesi dove danno alle fiamme edifici e auto e distruggono coltivazioni e alberi. L’esercito resta a guardare.

«15 mesi di ecocidio, Gaza non sarà più come prima»

Palestina La testimonianza di Fadil Alkhaldy dell’organizzazione palestinese Uawc: «Lo sterminio della terra è passato per lo sradicamento degli alberi, la distruzione dei pozzi d’acqua, l’inquinamento delle falde acquifere, l’abbattimento deliberato degli animali». Ieri i cecchini hanno ucciso tre palestinesi. Il capo dell’esercito israeliano Halevi si dimette: «Il 7 ottobre ho fallito»

Chiara Cruciati  22/01/2025

«Da Gaza mi arriva gioia: la mia famiglia, i miei amici, la gente è felice che lo sterminio sia finito. Ma è una gioia temporanea: il futuro fa paura, sono senza casa e senza lavoro. La sofferenza patita in 15 mesi continuerà ad accompagnarci, anche nei sogni. Eppure Gaza ha resistito, per questo è sicura di risorgere come una fenice».

Fadil Alkhaldy è nato e cresciuto nel campo profughi di Jabaliya. Lavora con Uawc, l’Union of Agricultural Work Committees, tra le più note e radicate organizzazioni della società civile palestinese. Una delle sei che nel 2021 Israele mise al bando bollandole come associazioni terroristiche: «Una decisione politica volta a scoraggiare Uawc dal suo importante ruolo di sostegno al settore agricolo. Operiamo in conformità con la legge palestinese e internazionale», risponde Alkhaldy.

È in Italia per una serie di iniziative, da Torino a Napoli dove domani 23 gennaio alle 15.30 parlerà all’Università Federico II. Racconta dell’ecocidio commesso da Israele nella Striscia, prima e dopo il 7 ottobre. «Questi 15 mesi hanno visto lo sterminio di tutte le forme di vita – dice al manifesto – Lo sterminio della terra e degli esseri umani. L’ecocidio si è realizzato con lo sradicamento degli alberi, la distruzione di aree agricole e pozzi d’acqua, l’uccisione dei contadini. Con l’inquinamento delle falde acquifere per il pompaggio di acqua di mare nei tunnel e l’abbattimento deliberato degli animali da allevamento».

PRATICHE militari che si sommano all’immenso livello di inquinamento provocato dall’esplosivo cadute sulla Striscia, 75mila tonnellate a ottobre 2024. «L’ecocidio – continua Fadil – passa per la migrazione forzata degli uccelli causata dal rumore dei bombardamenti…Dopo tutto questo di che ambiente parliamo? Parliamo di una realtà che ha bisogno degli sforzi di tutte le componenti della società civile per ripristinare ciò che è stato distrutto. La situazione è catastrofica, ci vorranno anni per tornare alla normalità. E sarà diversa da quella che abbiamo vissuto».

Gaza è stata per secoli una delle zone più ricche della Palestina: porto, granaio, nodo di scambio. La Nakba del 1948 è stato il primo passo di un declino artificioso, che ha raggiunto l’apice nel 2007, l’assedio totale da parte israeliana.

«Da allora agli agricoltori sono state imposte grandi restrizioni all’importazione di macchinari e attrezzature e al flusso di esportazioni. Sono stati uccisi e arrestati con il pretesto della sicurezza in quella che Israele ha imposto come zona cuscinetto. Nel 2008 era profonda 300 metri, lungo il confine orientale. Poi si è espansa. Agli agricoltori è vietato l’accesso alle fattorie e i pesticidi spruzzati lungo la recinzione hanno bruciato la terra. I terreni agricoli a Gaza costituiscono il 41% della superficie totale. Solo il 16% è davvero utilizzato».

Fadi Alkhaldy si gode la gioia della sua gente, a distanza. Il dolore patito, dice, «non è riassumibile in un minuto o due, in un quarto d’ora o in un giorno. Quello che è successo è una cosa grande, che nessun essere umano può tollerare».

Ora c’è finalmente una tregua, ma «un cessate il fuoco da solo non costituisce giustizia. Giustizia è avere una terra liberata». Non lo è ancora: ieri i droni israeliani hanno ferito due palestinesi, un pescatore in mare e un civile nel quartiere di Sabra a Gaza City, mentre i cecchini hanno aperto il fuoco a Rafah uccidendo tre persone, tra cui un bambino. La città più meridionale della Striscia è un cimitero a cielo aperto. La rimozione delle macerie fa tornare alla luce decine di corpi, alcuni irriconoscibili. 137 il secondo giorno di tregua, 72 ieri.

SI CONTINUA a morire in tanti modi e gli ordini emessi ieri dall’esercito israeliano sono una minaccia concreta: le truppe resteranno dispiegate in alcune zone, precluse ai civili pena il fuoco; il corridoio Netzarim, che va attraversato per tornare verso nord, è categorizzato come «pericoloso», chi si avvicina lo fa a proprio rischio. E poi il valico di Rafah, la fascia orientale, il mare: tutto pericoloso, di fatto off limits.

Gli aiuti entrano, raccontano i giornalisti palestinesi: cibo del World Food Programme e di Unrwa, kit sanitari e igienici, uova, riso e farina dal settore privato. Gli ostacoli alla consegna rimangono: «Le persone sono in movimento – riporta la reporter Hind Khoudary – E poi molti dei magazzini sono stati distrutti dalle forze israeliane. Le persone sono felici, ma la felicità è incompleta. Non ci sono case, è tutto grigio».

Ieri Hamas ha fatto sapere che il prossimo sabato saranno rilasciate quattro donne israeliane ostaggio. La comunicazione è giunta in parallelo alle dimissioni del capo di stato maggiore israeliano Herzi Halevi, il giorno dopo l’attacco sferrato dal ministro dell’ultradestra Bezalel Smotrich che lo ritiene inadatto a proseguire la guerra. Lascerà l’incarico il 6 marzo, ha detto, perché l’esercito «sotto il mio comando ha fallito nella missione di protezione dei cittadini israeliani». Il riferimento è al 7 ottobre 2023, per cui Halevi ha chiesto una commissione d’inchiesta slegata dalle forze armate.

CHE LA TREGUA reggerà ci crede poco anche chi se n’è intestato il merito, il neo presidente degli Stati uniti, Donald Trump. Dopo aver dato il temuto ma prevedibile via libera all’allargamento delle operazioni militari israeliane in Cisgiordania, ieri si è detto «non sicuro» che l’accordo possa avere un futuro: «Non è la nostra guerra, è la loro. Ma non sono fiducioso».

Ha proseguito: «Ho visto una foto di Gaza. È un immenso cantiere di demolizione…una posizione sul mare fenomenale». C’è tanto in quella frase: l’invisibilità ai suoi occhi del genocidio e un’idea di ricostruzione come quella del genero Jared Kushner che sui residence per israeliani a Gaza ha già investito parecchio.

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