TOMASO MONTANARI, CIECHI ALLA META DI UN DISCIPLINATO CAPITALE UMANO da IL MANIFESTO
Tomaso Montanari, ciechi alla meta di un disciplinato capitale umano
Fra potere e sapere Un’analisi della brutale regressione che ha trasformato un sistema concepito per istruire a un solido pensiero critico in un incrocio di aziendalismo e baronato: «Libera università», da Einaudi
Federico Bertoni 04/05/2025
«Non è il momento di tacere: è il momento di dare l’allarme». In realtà non è mai il momento di tacere, soprattutto all’università, che dovrebbe essere la fonte stessa dello spirito critico e che invece, ogni giorno di più, ristagna in una palude di consenso, conformismo, acquiescenza, rassegnazione, preda ormai imbelle di quelle che Spinoza chiamava «passioni tristi». Però Tomaso Montanari ha ragione fin dalla prima riga del suo pamphlet appena uscito per le «Vele» Einaudi, Libera università: «questo non è un momento qualunque», e bisogna avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome: l’Italia è governata «da un partito di matrice fascista», la reazione alle mobilitazioni studentesche contro il genocidio a Gaza è stata «una violenta repressione», e l’università, come altri settori vitali per la tenuta democratica e l’equilibrio dei poteri, rischia «di essere messa alla catena del potere esecutivo».
Il libro è scritto dall’interno, anzi dal cuore del mondo accademico (Montanari è rettore dell’Università per Stranieri di Siena), ma la sua vera posta in gioco è parlare «a chi sta fuori», perché l’università è da sempre un microcosmo esemplare, un modello in scala, un laboratorio in cui certi processi politico-sociali si mostrano in anticipo o in forma amplificata. Di qui, un appello sottotraccia rivolto al mitico uomo della strada: caro concittadino, qui si parla anche di te; l’università non è la torre d’avorio del cliché, ma un termometro della libertà del paese; e se andrà definitivamente in malora, se tradirà il suo spirito critico e sovversivo, se diventerà un ufficio di collocamento per piazzare manovalanza a basso costo, non solo sfumeranno le ultime possibilità che lo studio sia un diritto e un mezzo di emancipazione sociale, ma anche la qualità democratica della vita pubblica verrà gravemente degradata. Del resto, quanto siano fragili le conquiste democratiche lo sta mostrando drammaticamente il quadro politico globale, Stati Uniti in testa, dove infatti censure, intimidazioni e licenziamenti stanno colpendo l’università ad alzo zero.
Dunque un libro polemico, appassionato, dichiaratamente «militante», che però cerca di traguardare il presente alla luce del passato, ricostruendo con puntualità storica alcune fasi salienti nella dialettica tra università e potere: la riforma Gentile, il giuramento fascista, la fase costituente, la legge sull’autonomia del 1989, la legge Gelmini del 2010, l’ignavia (o la complicità) del centrosinistra, fino ai pessimi provvedimenti del governo attuale. A guidare l’argomentazione sono due parole-chiave, «libertà» e «autonomia», di cui Montanari addita il nesso organico nell’articolo 33 della Costituzione, tra primo e sesto comma: «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento»; «Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato». Un baluardo antifascista con cui rispedire al mittente qualunque attacco dei potenti o dei loro tirapiedi.
Per chi conosce le cose dall’interno, ci sono due aspetti che il libro tocca ma che rischiano di finire un po’ in secondo piano, perché fanno meno notizia rispetto allo scontro frontale con il potere politico. Il primo è la responsabilità dell’università stessa, che negli ultimi decenni ha fatto davvero del suo peggio per ridursi in questo stato. In realtà Montanari lo sa bene, perché «siamo noi professori a doverci battere il petto, per aver supinamente accettato un modello universitario assai più dedito a formare un disciplinato “capitale umano” che non ad alimentare un solido e attrezzato pensiero critico». C’è infatti un nesso stringente, assolutamente decisivo, tra la vulnerabilità agli attacchi politici e l’involuzione neoliberale di cui tutto il corpo docente è stato complice o corresponsabile. Perché la libertà accademica non è minacciata solo dal nemico esterno, ma anche e soprattutto dal nemico interno, che è l’universitario stesso nel momento in cui introietta un modello di sapere acritico, disciplinato, asservito alla competizione, alla misurazione quantitativa, agli indicatori prestazionali, a una qualità intesa solo in senso procedurale, cioè come quality assurance di marca aziendale. Se trasformiamo l’università in una macchina tecnocratica governata da oligarchie sempre più opache, azionata da un grottesco connubio di aziendalismo e servitù volontaria, in cui gli spazi del dissenso vengono sterilizzati, non possiamo stupirci che l’autonomia si riduca a un fatto puramente contabile (far quadrare il bilancio) e la libertà della scienza a una delle tante lettere morte della Costituzione, ben prima delle rozze incursioni di qualche neofascista al potere.
Il secondo aspetto è il ruolo decisivo dei fattori materiali, che lo scontro ideologico rischia talvolta di offuscare. Per cambiare davvero l’università, serve forse meno idealismo e più materialismo storico. Non ci può essere libertà di pensiero senza affrancamento dai bisogni e da un sistema ferocemente gerarchico. I fattori materiali sono innanzitutto i finanziamenti, non solo scarsi e ulteriormente tagliati da questo governo, come denuncia Montanari, ma sempre più vincolati a un perverso sistema premiale: un «progettificio» in cui l’accesso alle risorse è eterodiretto, spesso controllato da stakeholders e interessi privati, con tanti saluti alla libertà di ricerca e al bene comune. Anche la tragedia umana e civile del precariato si coglie materialmente nella parcellizzazione delle figure precarie che di legge in legge, di riforma in riforma, si sono accumulate nel corso degli anni, una giungla di contratti e profili giuridici differenziati che stroncano alla base, non dico una coscienza di classe, ma qualunque mobilitazione solidale e organizzata.
Il tutto si innesta poi su un apparato gerarchico tardo-feudale come quello dell’università, che le riforme degli ultimi decenni non hanno fatto che peggiorare. L’uomo della strada probabilmente non lo sa, ma la legge Gelmini del 2010, reclamizzata con il brand «riforma antibaronale», ha ristretto ancor più il potere al vertice, in un mostruoso incrocio di aziendalismo e baronato: rettori autocrati, consigli d’amministrazione potentissimi, organi di rappresentanza aboliti o svuotati, precariato messo a sistema, tutto il potere accentrato nelle mani dei professori ordinari. Chissà se dall’abisso di questa «brutale regressione», come la chiama giustamente Montanari, ci sarà mai modo di risalire, per costruire davvero l’università libera e antifascista disegnata dalla Costituzione, l’università come bene comune, spazio extraterritoriale in cui progettare ancora l’utopia.
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