PRESIDENZA IMPERIALE IN CODICE da IL MANIFESTO
Presidenza imperiale in codice
Stati Uniti Con Trump alla Casa bianca lo spettro evocato ai tempi di Nixon da Arthur Schlesinger Jr. si fa più concreto che mai. La lotta per una democrazia promessa e mai del tutto attuata può ripartire
Mario Ricciardi 23/01/2025
Cos’è una repubblica? Per James Madison, uno padri della costituzione degli Stati Uniti d’America la risposta a questa domanda richiede il bilanciamento tra due istanze in tensione, e potenzialmente in conflitto. Quella del principio di sovranità popolare, figlia della pretesa affermata nella dichiarazione di indipendenza, e quella dell’unità necessaria per assicurare la viabilità del «glorioso esperimento» di un nuovo inizio legittimato dai diritti naturali degli individui. Trovare il punto di equilibrio tra queste due esigenze richiedeva una struttura istituzionale che impedisse alle fazioni di prendere il sopravvento a livello locale, comprimendo la libertà individuali.
LA REPUBBLICA, nelle condizioni emerse dalla lotta per l’indipendenza, non può essere una democrazia nella sua forma pura, in cui il popolo controlla direttamente il governo. Per evitare la frammentazione, e consolidare la nazione in stato nascente, il governo, pur essendo legittimato dal consenso popolare, deve essere affidato a un’élite che lo esercita nelle forme previste dalla rappresentanza, entro i vincoli imposti dalla federazione e dalla separazione dei poteri. Per realizzare la repubblica Madison ritiene necessaria «l’esclusione totale del popolo nella sua capacità collettiva» dalla partecipazione al governo.
La formula utilizzata da Madison ha per noi un suono inquietante. Tuttavia, se la collochiamo nel contesto in cui viene formulata, essa acquisisce un senso più sfumato. Per i padri fondatori – formatisi in una cultura plasmata dai classici del pensiero greco – la parola «democrazia» ha un senso prevalentemente negativo. Quello di una forma di governo degenerata, in cui il predominio delle passioni e degli appetiti minaccia il perseguimento dell’interesse generale e la difesa della giustizia (che essi interpretano in primis come difesa della proprietà e dei contratti).
Per Platone e per Aristotele un governo popolare è destinato inesorabilmente a scivolare verso la tirannide, il fatto che essa venga legittimata attraverso la volontà della maggioranza non la rende meno odiosa. La rappresentanza e i vincoli imposti dal federalismo e dalla divisione dei poteri avrebbero invece per Madison la virtù di favorire l’emersione di una classe dirigente che, diversamente dalle aristocrazie continentali, tenga insieme il pluralismo delle opinioni e l’efficacia necessaria per l’unità.
CHE LA REPUBBLICA INTESA in questo senso possa diventare una democrazia di tipo nuovo, cui ben si adatta la qualifica di «liberale», è una consapevolezza che emerge lentamente nella cultura politica statunitense. In larga misura grazie all’influenza di un osservatore esterno, Tocqueville, e dopo le prove drammatiche della secessione e di una guerra civile sanguinosissima. A quel conflitto segue quella che lo storico Eric Foner chiama la «seconda fondazione» della repubblica, attraverso gli emendamenti costituzionali che ridefiniscono la libertà e l’eguaglianza (abolendo la schiavitù, ampliando i diritti di cittadinanza e garantendo la protezione dei diritti politici dei cittadini).
La «ricostruzione» postbellica che fa perno su questi emendamenti tuttavia non genera un nuovo equilibrio. Ben presto la reazione alla nuova interpretazione del contratto sociale si organizza nel sud e, sfruttando l’autonomia legislativa e amministrativa degli Stati, scatena una lotta senza quartiere contro gli emendamenti, che vengono reinterpretati in modo da introdurre una nuova forma di segregazione razziale sostenuta dal regime legale che diviene noto come Jim Crow, dall’uso brutale della forza e dal ricorso a una violenza che non troverà a lungo alcun ostacolo da parte del governo federale.
QUESTO È IL SISTEMA contro il quale si ribelleranno Martin Luther King e gli attivisti per i diritti civili, che sfidano le leggi degli Stati in nome di una costituzione che era stata per decenni quasi lettera morta. L’ascesa di questo movimento politico, interrazziale e interclassista, è uno dei momenti più alti del lento processo per trasformare la repubblica in democrazia.
Anche in questo caso la reazione non tarda a manifestarsi. La «rivoluzione conservatrice» che pone le basi per la profonda trasformazione del Partito repubblicano, e che apre la strada al fenomeno Trump, viene alimentata proprio dal desiderio dei bianchi segregazionisti di difendere il proprio modo di vita dalle interferenze del governo centrale, che viene visto sempre più come un nemico, e non come la garanzia dell’unità della repubblica. Figure come Barry Goldwater o William F. Buckley, Jr. sono la faccia “presentabile” di questo movimento, ma dietro di loro si intravede il profilo della John Birch Society e delle tante manifestazioni di insorgenza bianca. La scoperta del libero mercato da parte di questi neoconservatori – che sono controrivoluzionari – è il risultato della convinzione che un regime neoliberale si presti benissimo a essere utilizzato per mantenere il dominio un tempo garantito dalla segregazione.
LA SOCIETÀ STATUNITENSE nel frattempo cambia, e oggi questo volto rispettabile del razzismo si rivolge verso altri gruppi (gli immigrati latini o di origine mediorientale), ma basta andare oltre le prime file del Trumpismo, e esso ritorna ben visibile. La società «color blind» promessa da Trump nel suo discorso di insediamento, e il suo attacco al XIV emendamento (nella parte che riguarda il processo di naturalizzazione) sono segnali in codice che, nel contesto della cultura politica statunitense, sono facilmente decifrabili da coloro cui sono destinati, i bianchi scontenti di dover condividere il proprio benessere, sempre più fragile, con «gli altri». Che qualche afroamericano si accodi a questa tendenza non stupisce, accadeva già nelle piantagioni.
Poco prima di essere ucciso, Martin Luther King aveva detto che la battaglia per l’integrazione è incompleta senza quella per i diritti sociali, e si era spinto a rivendicare per sé quella qualifica di «socialista» che durante la guerra fredda era impronunciabile. Nella vittoria Trump ha tentato di appropriarsi anche dell’eredità di King, mentre la smentiva annunciando provvedimenti destinati a erodere le conquiste del movimento per i diritti civili.
GLI EX PRESIDENTI democratici che assistevano al suo discorso facevano venire alla mente i nemici sconfitti esibiti durante i trionfi degli imperatori romani. Gli oligarchi della Silicon Valley erano in prima fila a testimoniare che Trump è il loro presidente, un investimento da cui si aspettano ritorni molto consistenti.
Lo spettro della «presidenza imperiale» evocato ai tempi di Nixon da Arthur Schlesinger, Jr. era ieri più concreto che mai. La lotta per l’anima della repubblica, è una battaglia per una democrazia promessa ma mai del tutto attuata. Una lotta che ci riguarda, e che potrebbe essere non meno brutale di quella cui Martin Luther King ha sacrificato la propria vita.
Il numero chiuso dell’ideologia occidentale
Con la crisi dell’ottimismo globalista si diffonde una “dottrina” escludente: dalle facoltà universitarie, ai migranti, a utopie elitarie di città galleggianti, alle colonie marziane di Musk
Marco Bascetta 22/01/2025
Con l’insediamento di Donald Trump alla Casa bianca, (quasi tutti temono che accadrà, ma nessuno lo denuncia con la dovuta chiarezza), i rapporti tra gli Stati uniti e l’Unione europea sono destinati a complicarsi seriamente. Per Washington, ma questa non è una novità, l’Unione europea e l’Europa non sono la stessa cosa, nel senso che la prima viene considerata, neanche troppo velatamente, come un ostacolo e un impedimento al libero dispiegarsi degli interessi statunitensi nel Vecchio continente. Si tratta di una ostilità mai sopita dopo la fine della guerra fredda, nonostante la tremebonda prudenza praticata da Bruxelles nei rapporti con gli Usa.
D’altro canto, i governi di molti singoli paesi, (a cominciare da Italia e Ungheria) e le forze politiche della destra estrema in piena espansione in tutta Europa trovano nella nuova amministrazione americana identità di vedute, condivisioni ideologiche e affinità politiche.
Sebbene i nazionalismi proprio in conseguenza della loro natura tendano inevitabilmente a entrare reciprocamente in conflitto, il linguaggio comune e i valori che condividono possono confluire, nella fase attuale, in una politica dominante e in un clima culturale in grado di condizionare pesantemente gli assetti europei.
Sulle due sponde dell’Atlantico ha preso piede sulla base di queste affinità elettive e in seguito alla crisi dell’ottimismo globalista, quella che potremmo provvisoriamente definire un’“ideologia occidentale”. Questa dottrina, aldilà delle falsificazioni, delle scempiaggini e dell’irrazionalità che la caratterizzano poggia su alcuni riconoscibili principi fondamentali che attraversano gli ambiti più diversi. Tra questi una posizione di assoluto rilievo spetta a quello che potremmo chiamare il principio del “numero chiuso”. Un precetto politico che si estende dal filtro arbitrariamente posto all’ingresso delle facoltà universitarie, al respingimento dei migranti, fino alle utopie elitarie delle città galleggianti di Peter Thiel o alla colonizzazione marziana di Elon Musk.
Queste fantasie del grande capitale tecnocratico-finanziario proiettano in un futuro, che viene già considerato presente o quasi, società selettive e separate il cui accesso (pianificato e contingentato) è garantito dal merito (e cioè da chi lo certifica), dalla proprietà, dal censo e dalle competenze necessarie allo sviluppo tecnologico. A parte l’ambientazione fantascientifica e l’incetta di capitale cognitivo, quanto ai meccanismi di esclusione questi mondi privilegiati ricordano le gated community fortificate contro la miseria minacciosa che le circonda, o la “segregazione residenziale” governata dalle costituzioni condominiali e dal potere insindacabile dei proprietari, teorizzata dall’ultradestra di fanatici liberisti come Rothbard e Hoppe.
Sullo stesso principio del “numero chiuso” poggia, con tutta evidenza, la cifra dominante di una politica fondata sul respingimento dei migranti e la deportazione di stranieri residenti, che si applica inoltre a smantellare una importante conquista di civiltà come l’asilo politico, trasformandolo da diritto umano in concessione sovrana.
Queste politiche sono accompagnate da una demagogia che quando non agita direttamente lo spauracchio complottista della “sostituzione etnica”, inveisce comunque contro l’inquinamento di origine straniera delle tradizioni (perlopiù inventate) degli usi, dei costumi e delle abitudini dell’Occidente. Su questa idea di purezza, che combina inevitabilmente nazione, etnia e precetti patriarcali, si innesta un legame non occasionale con l’integralismo religioso, soprattutto nella sua versione evangelica. Ma ancor di più con il “popolo eletto”, laddove il “numero chiuso” e la proprietà esclusiva di una terra promessa, sarebbero stati stabiliti direttamente da Dio. Un principio che fonda la sinistra alleanza degli ex antisemiti, rimasti suprematisti bianchi, con la destra fondamentalista ebraica e fa comunque dell’attuale politica di Israele un pregiato modello di esclusione. Non rientra invece nell’ideologia occidentalista, bensì assai prepotentemente nella ruvida realtà dei rapporti internazionali, il fatto che un “numero chiuso” sarà imposto, via dazi, anche alle merci dirette negli Stati uniti.
Tutto questo ciarpame ideologico, è comunque ben lungi dall’essere interamente campato in aria. Ed è proprio a partire dalla selettività sulla base della quale il capitale tecnocratico discrimina la forza lavoro, la strategia escludente dell’ideologia occidentalista trae forza. Questa selettività è resa possibile da uno sviluppo delle forze produttive che ha sostituito con il sapere contenuto nelle macchine, agito nelle procedure innovative e sottratto alla cooperazione sociale, una grande quantità di lavoro salariato industriale. Il quale è stato in buona parte dislocato fuori dall’Occidente, appunto, e dalla sua ideologia. La fantascienza neocoloniale dei Musk e dei Thiel discende da una problematica combinazione: la possibilità di escludere dal sistema produttivo una popolazione divenuta superflua nel processo di accumulazione, l’impossibilità di eliminarla del tutto come soggetto sociale ed economico e, infine, il risoluto rifiuto di spendere per mantenerla.
La pretesa dell’oligarchia tecnocratica di drenare il massimo delle risorse disponibili a favore di quella concentrazione di capitale che ormai si propone anche come fondativa di una società futura da offrire sul mercato dei privilegiati, espropria però brutalmente tutto il resto della popolazione. Un siffatto progetto che fra l’altro, mirando all’incetta globale di talenti, rifiuta di lasciarsi rinchiudere entro angusti confini etnici, non può che entrare presto o tardi in rotta di collisione con la demagogia nazionalista. Gli attriti tra i tecnomiliardari e i vecchi caporioni Maga ne rappresentano una eloquente avvisaglia, che se non promette molto di buono, può tuttavia smentire le promesse e spazzare via le illusioni dell’ideologia occidentalista. Riaprendo così uno spazio di azione agli esclusi dal numero chiuso, che sono molti e non sono più un sottoproletariato deprivato e apatico, senza voce e senza strumenti politici e culturali.
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