OLTRE LA STORIA OCCIDENTALE da IL MANIFESTO
Oltre la storia occidentale
Scuola Le “Nuove linee guida” del ministro dell’istruzione Valditara mostrano un dichiarato impianto eurocentrico con gerarchie culturali e rimandi che elogiano il passato coloniale
Renata Pepicelli* 15/03/2025
Dopo essere state annunciate dal ministro Valditara all’inizio di febbraio, le “Nuove indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione” (che comprende quelle che un tempo si chiamavano scuole elementari e medie) sono state pubblicate nella forma di bozza.
Dalla lettura di queste linee guida si evince che l’insegnamento della storia dovrà rivestire un ruolo centrale nei curricula scolastici. Alla base della proposta del Ministero dell’istruzione e del merito c’è l’idea di un’indiscutibile superiorità della storia dell’Occidente sulla storia degli altri popoli. Un Occidente, definito in termini vaghi, i cui confini non sono chiaramente delimitati e che è associato a concetti quali “cristianità”, “laicità” e supremazia culturale. A pagina 69 si legge: «Solo l’Occidente conosce la Storia . Altre culture, altre civiltà hanno conosciuto qualcosa che alla storia vagamente assomiglia. È attraverso questa disposizione d’animo e gli strumenti d’indagine da essa prodotti che la cultura occidentale è stata in grado di farsi innanzi tutto intellettualmente padrona del mondo, di conoscerlo, di conquistarlo per secoli e di modellarlo».
Si tratta di affermazioni di impianto dichiaratamente eurocentrico, che propongono gerarchie culturali e rimandi elogiativi al passato coloniale.
Già all’indomani delle anticipazioni giornalistiche di febbraio, si era sviluppato un grande dibattito in relazione all’indicazione ministeriale di dare (ulteriore) centralità alla storia dell’Occidente e d’Italia. Dodici società scientifiche di storia avevano sottoscritto un documento molto critico verso l’idea di un insegnamento della storia che non prende in considerazione «le contaminazioni culturali e religiose, i conflitti politici ed economici, gli scambi commerciali che di questo mondo costituiscono le radici», mentre invece viene enfatizzata la storia dell’Occidente come motore della storia stessa.
Una prospettiva di egemonia intellettuale che fa piazza pulita di un dibattito storiografico che ormai da decenni mostra l’importanza dei percorsi storici e storiografici dei popoli non-occidentali e la necessità di leggere le singole storie nazionali all’interno di una più ampia storia globale, che tenga conto di scambi e influenze reciproche tra le diverse aree del mondo.
Di fronte a un passato e un presente costituiti da interconnessioni continue e plasmati da pluralità di centri di produzione culturale disseminati nel mondo, con di figure di storici di grande rilievo, come i cinesi Sima Qian (145–86 a.C) e Ban Gu (32–92) o gli arabi Al-Tabari (839-923) e Ibn Khaldun (1332-1406), anziché dare ulteriore centralità alla storia dell’Occidente ci sarebbe invece bisogno di «provincializzarla», per dirla con le parole dello storico indiano Dipesh Chakrabarty, nel senso di ridimensionare la centralità che ha sempre dato di se stesso il mondo occidentale rispetto alla narrazione di altre storie. D’altronde già all’inizio del secolo scorso Antonio Gramsci, nei Quaderni dal carcere, sosteneva l’esigenza – per essere al passo con le trasformazioni in corso – di sprovincializzare l’Italia, nel senso di metterla in contatto con la storia e le culture internazionali.
Piuttosto che di più Occidente nei programmi scolastici, c’è bisogno di meno Occidente, a favore di un allargamento degli studi alla storia degli altri popoli e di una comprensione della storia d’Italia all’interno di una prospettiva globale. Oggi le categorie monolitiche e contrapposte di Occidente e di Oriente – che non sono realtà oggettive, ma costrutti culturali, storici e politici – risultano inefficaci a descrivere la realtà in cui viviamo.
Inoltre, esse sono messe in discussione dalla storia stessa, che ha dato prova nel passato come nel presente di continui mescolamenti e ibridazioni tra i popoli, in seguito alla mobilità di persone, merci, culture, religioni, capitali.
Allargare lo sguardo ad altre storie appare poi necessario anche in virtù del fatto che la platea scolastica a cui si rivolgono le “Nuove linee guida” è sempre più composta da studenti con un’esperienza diasporica alle spalle.
Secondo i dati riportati sul sito dello stesso Ministero dell’istruzione e del merito relativamente all’anno scolastico 2022/23, gli alunni con cittadinanza non italiana rappresentano l’11,2% della popolazione studentesca e di anno in anno la loro percentuale cresce. Non si può continuare a ignorare la storia dei paesi da cui loro e i loro genitori provengono e le ragioni (colonialismo, guerre, crisi economiche, ambientali, discriminazioni…) che fanno sì che oggi vivano in Italia.
A ben vedere, hanno ragione gli estensori delle nuove linee guida quando sostengono che sul terreno dell’insegnamento della storia si gioca una partita fondamentale, vale a dire quella relativa alla nostra idea non solo di passato e di presente ma anche di futuro. Esse indicano non solo chi siamo stati e chi siamo ma anche chi saremo.
Pertanto, anche facendo riferimento a quanto indicato nelle stesse indicazioni ministeriali, definite come «materiali per il dibattito pubblico», è necessario rendere la discussione sull’insegnamento della storia un elemento centrale del confronto intellettuale e politico dei prossimi mesi.
* Docente di Storia del mondo arabo contemporaneo e autrice di “Né Oriente né Occidente. Vivere in un mondo nuovo” (Il Mulino 2025)
Educazione americana: dio, patria, famiglia
Ministero dimezzato I procuratori generali di 21 stati fanno causa al governo: il licenziamento del 50% del personale rende impossibile svolgere le funzioni del dipartimento. L’intento è liquidarlo
Luca Celada 15/03/2025
Nel panorama delle nomine del governo Trump, quella di Linda McMahon, dirigente della federazione di wrestling Wwe, a ministra della pubblica istruzione, si distingue per aver messo assieme la materiale incompetenza della designata con il conflitto di interesse del presidente, socio nel business degli incontri di finta lotta sin dai tempi in cui era titolare del Trump Casino di Atlantic City. Non che la titolare dello stesso dicastero nel primo mandato, la miliardaria integralista religiosa Betsy DeVoss, fosse più idonea (all’epoca si dichiarò contraria al concetto di scuole pubbliche).
McMahon, però ha la distinzione di aver assunto il mandato con la missione esplicita di eliminare del tutto il proprio ministero. Questa settimana ha iniziato l’opera, col licenziamento in tronco di 1.315 impiegati, quasi metà del totale, ai quali nel pomeriggio di martedì è stato comunicato, con consueto tatto, che non sarebbe stato necessario tornare in ufficio l’indomani, o mai più.
NELL’ATTUALE bombardamento a tappeto dell’impianto statale, non si è trattato di una sorpresa. L’istruzione è da tempo fronte incandescente della “guerre culturali” della destra radicale che la considera focolaio di indottrinamento woke e vi concentra il risentimento per quello che considera il decennale monopolio esercitatovi dalla sinistra. Stati rossi come il Texas, e soprattutto la Florida, sono da tempo laboratori di decostruzione delle istituzioni scolastiche per purgarle del disfattismo anti americano (in primis la critical race theory, ovvero l’insegnamento dei trascorsi razzisti del paese) e rifondarle come motori di un nuovo egemonismo conservatore. In quest’ottica, ad esempio, il governatore della Florida Ron DeSantis ha commissariato scuole ed università statali, licenziato docenti e consigli di amministrazione, epurato biblioteche scolastiche di libri “sovversivi” come testi di educazione sessuale, ed istituito nuovi programmi scolastici compresi cartoni animati per le elementari, come quelli prodotti dalla PragerU, fra cui almeno uno in cui un simpatico Cristoforo Colombo difende la schiavitù.
Oggi le stesse politiche, formulate da think tank e specificamente proposte nel Project 2025, sono diventate linea ufficiale del governo federale. Nel documento che corrisponde in gran pare al programma del governo Trump si legge ad esempio che il ministero va soppresso in quanto i «burocrati che lo gestiscono iniettano propaganda razzista antistorica e anti americana nelle aule d’America». Invece delle direttive centrali, il controllo dei programmi va insomma restituito ai singoli stati che presumibilmente istituirebbero in autonomia programmi simili a quello di DeSantis.
VA SOTTOLINEATO che negli Stati uniti l’educazione pubblica è già in gran parte di competenza dei singoli stati sia per l’organizzazione dell’istruzione che per il finanziamento. Dal governo federale proviene circa il 10% dei finanziamenti (comunque circa 200 miliardi di dollari l’anno). Il restante 90% proviene da amministrazioni locali e singoli stati che solitamente attingono soprattutto alle tasse locali pagate sugli immobili. Significativamente, il ministero federale è stato istituito (solo nel 1979 da Carter) per ufficializzare il ruolo del governo centrale nell’ovviare alla discriminazione razzista nelle scuole del sud. Dopo che nel 1957 Eisenhower era stato costretto ad inviare la guardia nazionale per consentire l’accesso a studenti neri alle scuole di Little Rock, Arkansas, Lyndon Johnson aveva poi codificato la desegregazione nel Civil Rights Act del 64. Il ministero fu poi l’estensione istituzionale delle politiche anti razziste cosi pervicacemente perseguite dagli stati “sovrani”.
OGGI IL DEPARTMENT of Education ha un ruolo soprattutto di controllo della qualità dell’istruzione, raccolta di dati statistici, consulenza e come garante delle regole anti discriminazione e per le pari opportunità. Ma proprio queste funzioni lo hanno storicamente reso inviso alla destra, specialmente quella liberista, integralista e “anti woke” di cui Trump si è servito per prendere il potere. Quale migliore capro espiatorio dunque, nell’attuale epurazione, per colpire i programmi di equità di minoranze svantaggiate, e perfino studenti portatori di handicap, e farne un esempio della «decostruzione» dello stato in paradiso «meritocratico».
«Nella nostra società pluralista – si legge a pagina 319 del Project 2025 – studenti e genitori devono poter scegliere da una gamma variata di opzioni scolastiche a seconda dei loro desideri e bisogni». Traduzione: i fondi pubblici devono essere massicciamente trasferiti alla sfera privata con particolare attenzione per l’istruzione religiosa e «conservatrice». Si tratta dopotutto di uno dei cardini della dottrina sviluppata negli ultimi anni da incubatori di pensiero reazionario come la Heritage Society, il Claremont Insititute o il Manhattan Institute dove lavora Christopher Rufo, uno degli architetti della crociata contro la critical race theory, nominato plenipotenziario della nuova istruzione pubblica in Florida. Italoamericano e cattolico integralista, Rufo è stato principale fautore delle audizioni parlamentari di amministratori universitari liberal lo scorso anno (alcuni dei quali come Claudine Gay di Harvard hanno perso il posto).
AL NEW YORK TIMES Rufo ha dichiarato la scorsa settimana che «l’obiettivo dovrà essere quello di usare i finanziamenti pubblici per indurre negli amministratori universitari un terrore tale da comprendere che se non cambieranno atteggiamento non quadreranno il bilancio». Caso di prova la Columbia University cui sono stati tolti $400 milioni di grant federali per «mancata repressione dell’antisemitismo».
CONTRO lo smantellamento del dipartimento dell’Istruzione hanno fatto causa al governo i procuratori generali di 21 stati, secondo i quali la liquidazione di oltre il 50% del personale nei fatti rende impossibile lo svolgimento delle funzioni del ministero. Che è, osservano, proprio il punto dell’operazione. «Non supportata – scrivono – da nessun reale ragionamento su come eliminare gli sprechi nel dipartimento». Piuttosto, «è parte dell’opposizione del presidente Trump e della segretaria McMahon all’esistenza stessa del dipartimento dell’Educazione».
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