MURMANSK DA GORBACIOV A PUTIN: È LA NUOVA YALTA da IL FATTO
Murmansk da Gorbaciov a Putin: è la nuova Yalta
Eugenio Mazzarella 30 Marzo 2025
Chi voglia capire come gira la nuova Yalta che Trump e Putin stanno allestendo, cui per ragioni oggettive è probabile si aggregherà la Cina di Xi, farebbe bene a tener conto di quanto Putin ha detto a Murmansk, la più grande città russa a Nord del Circolo polare artico, alla sesta edizione del Forum internazionale artico dal titolo “L’Artico – Territorio di dialogo”. Dialogo di cui da Putin viene molto ristretto il perimetro geopolitico, rispetto a quanto 38 anni fa nella cosiddetta “iniziativa di Murmansk” vi disse Mikhail Gorbaciov nel pieno disgelo della Guerra fredda.
Gli europei dovrebbero rammaricarsi di non aver secondato la sua visione, mettendo a terra trattati di sicurezza europea a essa coerenti – chiedeva che il Nord del globo diventasse una zona di pace, un “eccezionalismo artico” che isolasse l’Artico dalle tensioni geopolitiche, come si poteva allora sperare che si potesse fare anche con lo spazio. Due “eccezionalità” ancora necessarie nell’epoca della guerra ibrida per chi voglia un mondo di pace nell’equità, nelle condizioni, a vantaggio di tutti, di questa pace. Ma che evidentemente non ci sono più al tavolo di chi detta l’agenda internazionale oggi, a valle di come sono andate le cose in Ucraina.
Ma, per tornare in argomento, cosa ha detto Putin a Murmansk? Ha ovviamente ribadito che la Russia non concederà nulla quanto ai suoi interessi nazionali e alla sua sicurezza, ma insieme che “comprende” le ragioni anche storiche delle pretese degli Usa di Trump sulla Groenlandia, e che egli ritiene la questione un problema interno all’alleanza occidentale. Che se la risolvano loro, con la compiacenza russa per le necessità americane per come sapranno farsi valere, purché si riconoscano le simmetriche necessità in Ucraina e ai suoi confini della Russia. Anzi, trovata la quadra di tutta la questione, tutti i Paesi, occidentali in testa, potranno sedersi alla tavola dello sviluppo e sfruttamento economico della regione artica. In concreto, se la Cina sarà d’accordo, il menu artico è questo, anche per gli occidentali europei. Traiamo allora le somme della nuova Yalta.
Non ci sarebbe meraviglia se la compiacenza cinese a questa stabilizzazione geopolitica fosse remunerata con la riunificazione in prospettiva, senza scosse eccessive, di Taiwan alla Cina. Anche ammesso che gli Usa abbiano ipotesi di confronto militare con la Cina (cosa che nessuno dovrebbe augurarsi, se non qualche colonialista da salotto, della serie “armiamoci e partite”), con le nuove tecnologie militari e della guerra ibrida una piazzaforte insulare anti-Cina non è più fondamentale. Insomma, ci sono condizioni oggettive perché i veri spazi imperiali oggi possano mettersi d’accordo. Mezza Ucraina e dintorni alla Russia, la Groenlandia agli Stati Uniti, Taiwan alla Cina. Tempi e forme si troveranno.
Ultima reale inquietudine: la Palestina, dove gli Stati Uniti di Trump (ma è politica non solo sua) devono decidere se tenere in piedi l’ipocrisia di due popoli, due Stati, o puntare a elidere dal terreno la statualità palestinese, facendo annettere Gaza e Cisgiordania a Tel Aviv. Anche qui forme e modi si potrebbero trovare. Insomma: “Fecero un deserto e lo chiamarono pace” (parole che Tacito mette in bocca a Calgaco, capo dei Britani).
Il paradosso è che nella graduatoria della plausibilità secondo “giustizia”, cioè ragioni storiche e non di mera forza, le pretese imperiali cinesi e russe sono più plausibili (Taiwan è cinese e pezzi di Ucraina sono credibilmente abbastanza russi), quelle occidentali molto meno: Inhuit e danesi non sono molto americani e la Cisgiordania e Gaza non sono assegnate a Israele dalla storia (o dall’Onu, come il territorio su cui nacque lo Stato ebraico nel 1948 in base alla risoluzione 181 dell’anno precedente), ma da una parte degli israeliani stessi a se stessi tramite una versione primitiva della loro coscienza nazional-religiosa.
Questo per aiutarci a riflettere se possiamo ancora smerciare nel mondo globale la narrativa che l’imperialismo occidentale sia quello del bene e gli imperialismi non occidentali quelli del male. E se per caso non dobbiamo noi occidentali darci una regolata secondo coerenza: o di giustizia o di realpolitik.
Personalmente sarei per la prima, coniugandola per quanto possibile con la seconda. Se non si può, per favore almeno la seconda. Ma che siamo noi “i buoni” comunque è cosa che non si può più sentire.
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