L’uso ambiguo della metafora in urbanistica
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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L’uso ambiguo della metafora in urbanistica

di Enzo Scandurra, da “eddyburg”, 19 aprile 2017

Da sempre, dalla sua data di nascita, l’urbanistica ha fatto ampio uso di concetti importati da altre discipline, in particolare dalla fisica e, più recentemente, dalla biologia. Negli anni Cinquanta e Sessanta, ad esempio, furono introdotti molti concetti dalla fisica per costruire modelli matematici che avrebbero dovuto simulare il comportamento delle persone in ambito urbano. Quei modelli presero a prestito, dalla fisica, la legge di gravitazione universale di Newton (opportunamente corretta, ovviamente) per spiegare e prevedere gli spostamenti casa-lavoro, ovvero per costruire modelli di traffico urbano. Poi, caduto un po’ di moda il paradigma della fisica, è sembrata la biologia la disciplina più adatta a fornire concetti e modelli da usare nelle scienze urbane.

È ben noto che la metafora (letteralmente: spostamento, trasferimento, traghettamento di un concetto da una disciplina all’altra) è stata da sempre origine di molte scoperte e invenzioni nel campo della scienza e della tecnologia per il suo carattere evocativo, non vincolato a un significato preciso. Essa però, per essere feconda (nella nuova disciplina), ovvero per produrre avanzamenti conoscitivi, è necessario che il termine trasferito – l’uso nomadico o viaggiante dei concetti, come diceva Isabelle Stengers – sia ridefinito nella nuova disciplina. L’esempio del concetto di “vis” è servito a Newton per coniare quello di “forza” che però, nella fisica, ha assunto un nuovo significato (è un vettore caratterizzato da un’intensità, una direzione e un verso e applicata a un solido, produce lavoro). Il semplice trasferimento del concetto non basta a produrre una innovazione nel campo della nuova disciplina. Anzi, potremmo dire, che il semplice trasferimento tout court si presta ad un’operazione ambigua, oscura, mistificante, senza aggiungere produzione di nuova conoscenza. Le metafore, dunque, vanno “usate” con estrema accortezza e delicatezza. Al contrario esse finiscono col fornire alla disciplina importatrice l’alibi di possedere un presunto, quanto inconsistente, statuto scientifico.

Dalle scienze biologiche l’urbanistica ha attinto a piene mani; basti pensare ai termini di: tessuto urbano, organismo urbano, metabolismo urbano. C’è tutta una corrente di pensiero che definisce la città come un organismo vivente dotato di un proprio metabolismo, evolutasi per selezione “naturale” (una metafora darwiniana). Da cui discendono una serie di concetti letteralmente trasferiti al campo dell’urbanistica, in particolare attribuiti alla città: omeostasi, resilienza, resistenza. Ma se questi concetti hanno un preciso significato nel campo scientifico dove sono stati coniati, trasferiti nell’urbanistica evidenziano una debolezza interpretativa, suppliscono una carenza argomentativa, e la espongono a rischi di falsificazione o mistificazione ideologica.

Oggi sono due i neo concetti “di successo” presi a prestito dalla biologia: quello di resilienza e quello di rigenerazione (quest’ultimo, in verità, presente in molte altre discipline). In biologia ed in ecologia la resilienza indica la capacità di un ecosistema di autoripararsi da eventuali danni prodotti (incendi, eventi atmosferici, inquinamento, ecc.), ovvero la misura (inversa) del tempo necessario all’ecosistema per ritornare nel suo stato di equilibrio originale dopo che l’eventuale perturbazione lo ha allontanato da quello stato. È un concetto per molti versi opposto a quello di resistenza. Ad esempio una grande foresta pluviale presenta una grande resistenza (ad essere distrutta da un incendio) ma una scarsa resilienza (moltissimo tempo per riprodursi). Al contrario un giovane boschetto ha una bassa resistenza (può essere distrutto facilmente), ma una grande resilienza (poco tempo necessario per tornare nella sua condizione originaria). Trasformare le città in resilienti starebbe a significare la capacità di una comunità e dei suoi abitanti di modificarsi (adattarsi) per rispondere agli effetti dei cambiamenti climatici. In questo modo essa si lega al concetto di sviluppo sostenibile e a quello di rigenerazione urbana, perché, sostengono i suoi teorici, una città sostenibile è necessariamente una città resiliente, come dimostrano gli esempi di altri Paesi europei che hanno investito sullo sviluppo di una strategia nazionale per l’adattamento ai cambiamenti climatici. La città resiliente è stata una bandiera dell’ex sindaco di New York, Bloomberg, che, all’indomani dell’uragano Sandy, ha lavorato per trasformare la città in uno spazio urbano preparato agli effetti dei cambiamenti climatici, primo fra tutti l’innalzamento del livello del mare, con interventi sul paesaggio e sugli edifici.

Ecco allora svelato il significato strumentale del neo concetto. Nei fatti, quello di resilienza si presta a nuove opportunità economiche per continuare a ricavare profitti anche in situazioni di disastro. Non a caso la città resiliente chiama in causa la green economy o le neo città smart cities come esempio di adattamento progressivo.

I cambiamenti climatici si affrontano riducendo la produzione di merci, ovvero la produzione di CO2 associata ad essa. Il che significa in primo luogo riconversione ecologica della produzione che sappiamo comporta una vera e propria (e difficile) rivoluzione economica, culturale e antropologica, un nuovo paradigma, questo sì, in grado di invertire il fenomeno del riscaldamento globale. Cercare di contrastare i cambiamenti climatici adattando le città a resistere a eventuali catastrofi è come imbottirsi di aspirine per contrastare la febbre dovuta a qualche patologia grave. La resilienza diventa così la coperta di Linus per scongiurare il disastro annunciato.

L’altro termine: rigenerazione in biologia sta ad indicare la sostituzione di parti danneggiate con copie identiche alle stesse. È il caso della coda della lucertola che se mozzata può rigenerarsi, oppure dell’albero mutilato del suo ramo che in breve tempo rigenera se stesso. Ma in urbanistica? Essa starebbe ad indicare la possibilità di riconvertire (in maniera innovativa, così dicono i sostenitori) tutti quegli spazi lasciati liberi e inutilizzati dal processo di deindustrializzazione e delocalizzazione produttiva e, più in generale, di riconvertire parte del patrimonio edilizio invecchiato o obsoleto. In sintesi, una grande opportunità innovativa, di modernizzazione (e di fare affari). Anche in questo caso è necessario fare qualche riflessione critica. Da sempre le città si sono rigenerate, hanno cambiato forma e aspetto. Vecchie funzioni sono state sostituite da altre più adatte ai tempi. Si tratta di un processo quasi naturale, fisiologico. Ma le parole sono cariche di significati (e talvolta di ideologie) e l’enfasi per la rigenerazione è un po’ sospetta. Cosa si cela dietro questa parola magica? Riconvertire questi manufatti, queste aree abbandonate in quale prospettiva di nuova città? con quali vantaggi? e di chi?

Se non si risponde a queste domande, la rigenerazione resta una parola grimaldello, come lo sviluppo sostenibile o la resilienza, con la quale scardinare qualsiasi equilibrio in nome della solita innovazione e modernizzazione. Oggi, ad esempio, questa parola viene invocata da molte amministrazioni per sfrattare centri sociali e culturali da vecchi edifici fatiscenti. Altra cosa sarebbe se per rigenerazione si intendesse proprio favorire queste esperienze in nome di un rinnovamento culturale e sociale.

In conclusione, questo uso di concetti e modelli importati da altre discipline più “dure” si spiega forse con il fatto che quello dell’urbanistica è un sapere più recente (possiamo datare la nascita dell’urbanistica moderna nell’epoca della rivoluzione industriale, verso la fine del Settecento), che non ha raggiunto il grado di maturità che permette alla fisica o alla chimica, per esempio, di svilupparsi in modo autonomo, al riparo delle influenze ideologiche e culturali. Presentarsi come disciplina scientifica ha delle ricadute in termini di prestigio, ma anche di finanziamenti di ricerca o contratti di consulenza.

Sarebbe bene che questa disciplina smettesse di importare concetti da altri campi per darsi una veste di apparente scientificità o per mostrarsi alla moda, e ne sviluppasse dei propri a partire dalla sua tradizione, con proprie parole e propri significati; il processo di partecipazione inizia da qui.

 

 

 

 

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