LO STATO D’ECCEZIONE DELL’OCCIDENTE da IL MANIFESTO e IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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LO STATO D’ECCEZIONE DELL’OCCIDENTE da IL MANIFESTO e IL FATTO

Lo stato d’eccezione dell’Occidente

Fuorilegge Stiamo assistendo a un genocidio, a un tentativo coordinato di pulizia etnica dei palestinesi. Siamo tutti coinvolti. Governi, partiti politici, mondo accademico e della ricerca – attraverso accordi e scambi (sebbene gli studenti stanno ora permettendo un cambiamento) e soprattutto la fornitura di armi e credito finanziario

Iain Chambers  25/10/2024

In mezzo a questa ondata di violenza continua – ora il Libano è stato invaso, poi attende l’Iran e la Siria, per continuare a incendiare il Medio Oriente nella continuazione della cosiddetta autodifesa d’Israele – è forse il caso di fare un bilancio della portata di una situazione che è sfuggita di mano. Gli assi si stanno spostando, le mappe sono a pezzi. Non si tratta più di continuare come prima.

Stiamo assistendo a un genocidio, a un tentativo coordinato di pulizia etnica dei palestinesi. Siamo tutti coinvolti. Governi, partiti politici, mondo accademico e della ricerca – attraverso accordi e scambi (sebbene gli studenti stanno ora permettendo un cambiamento) e soprattutto la fornitura di armi e credito finanziario – continuano a sostenere un sterminio quotidiano per cancellare la presenza di un popolo dalle mappe e dalla memoria. Nel perseguire questo obiettivo, l’Occidente si trova ora al di fuori delle leggi che ha creato. I verdetti dei tribunali internazionali non vengono rispettati.

Come lo stato di eccezione decretato dal Führer, teorizzato dal giurista nazista Carl Schmitt e ampliato dall’insistenza di Giorgio Agamben sulla centralità del campo di sterminio nella costruzione della modernità, l’Occidente risponde ora solo a se stesso. Rifiuta le sue stesse leggi, sia quelle per i migranti stabilite nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 sia per il massacro di Gaza che rientra nella Convenzione sul genocidio dello stesso anno. Da qualche tempo l’Occidente sta scivolando dagli altipiani morali alla palude della geopolitica brutale. L’olocausto nell’antichità significava il rogo di un corpo come sacrificio a una divinità. Oggi è la difesa della supremazia bianca che fornisce l’altare a tale atto. Il capitalismo razziale sta mettendo in atto la sua ultima scena nel Mediterraneo orientale.

Dopo aver scaricato in Palestina secoli di antisemitismo e di sensi di colpa per la Shoah (che c’entrano gli arabi?), ora sacrifica pubblicamente tutte le sue pretese etiche. Il bla bla della stampa e dei commenti televisivi si è trasformato in propaganda, mentre nelle strade distrutte di Gaza i giornalisti vengono eliminati e una cortina di silenzio cala sulle rovine fumanti e sui cadaveri bruciati.

L’Occidente rimane apparentemente inconsapevole della configurazione storica che ha creato e rifiuta qualsiasi responsabilità. È destinato a ritrovarsi sotto le macerie della sua superbia narcisistica.

Insistere sulla nostra responsabilità per lo sterminio che ci viene trasmesso in tempo reale in streaming e sui social media non solo fa crollare tutte le illusioni liberali che pretendono di proporre e promuovere un mondo migliore, ma ci porta a fissare l’abisso che il nostro progresso ha provocato. Se non si tiene conto dell’invito fanoniano di abbandonare l’Europa, non ci resta che registrare – come dice il cantante di musica country Tom Russell nell’azzeccata canzone On the Road to Nowhere – che «il fosso è in fiamme e non c’è un terreno più alto».

Daniel Levy: “Gli accordi di Oslo? Una finzione per poter occupare con l’ok Usa”

Il Negoziatore – “Non esiste trattativa che escluda una parte: la pace si fa anche con l’Iran”

Sabrina Provenzani  25 Ottobre 2024

Londra. “Penso agli ultimi momenti di Sinwar. L’immagine è la stessa, ma la reazione dei leader e dei media mainstream occidentali è opposta a quella del pubblico non solo palestinese o arabo, ma globale. Il governo israeliano dovrebbe saper prevedere l’effetto delle proprie azioni, e invece è così dissociato dalla realtà da non capirne l’impatto”. Daniel Levy è stato uno dei negoziatori israeliani degli accordi di Oslo e di Taba. Oggi, da presidente dell’US-Middle East Project, è un critico radicale di governo e società israeliani. Fermo nella condanna totale del massacro di Hamas del 7 ottobre, è implacabile nel riportare ogni evento al suo contesto storico e politico, e indica nell’impunità, cresciuta grazie al ruolo mai super partes degli Usa, la chiave per comprendere l’attualità.

Torniamo al 6 ottobre.

Israele è seduto sulla convinzione che la questione palestinese sia risolta, che non freghi più niente né all’Occidente né ai paesi arabi. Li abbiamo sotto controllo. Possiamo fargli quello che ci pare. Certo, dobbiamo continuare a fingere che, prima o poi, ci sarà un processo politico di riconoscimento, ma non ci crede nessuno, e comunque sarebbe un bantustan in un sistema di apartheid.

Lei ha parlato di un senso di impunità sviluppato anche grazie al supporto occidentale. Una impunità così assimilata che Israele non riesce nemmeno a riconoscerla.

Normalizzando l’assetto creato da Trump, gli accordi di Abramo che ignorano i palestinesi, l’Occidente ha premiato la linea dura di Netanyahu, Smotrich, Ben- Gvir. Nessuno ha sfidato quel modello: Biden pensava di ricreare una pax americana in Medio Oriente basata su Israele come potenza regionale egemone e sulla marginalizzazione dei palestinesi.

E le radici di questo sono già a Oslo?

La versione occidentale, ampiamente accettata, è che siano stati i palestinesi a far fallire l’unica reale possibilità di soluzione del conflitto.

Ma lei nel 2023 ha scritto: “Gli accordi di Oslo erano fondati su premesse favorevoli e ampiamente decise da Israele”, con gli Usa nel ruolo di avvocati di Tel Aviv.

Col supporto internazionale, Israele ottiene il 78% della terra. La Nakba e i diritti dei rifugiati sono rimossi. E vince la guerra della retorica, perché il mondo occidentale gli crede. Si rassegna anche l’Olp che, nella sua debolezza, fa l’errore di pensare che, in cambio, otterrà lo Stato palestinese. Israele accetta di negoziare perché nel 1992, dopo la prima intifada, è isolata, l’occupazione costa, ci sono pressioni anche occidentali. È difficile oggi non pensare che Oslo sia stato uno stratagemma per mutare le condizioni dell’occupazione a proprio favore, trasferire un po’ dei costi alla comunità internazionale, concedere formalmente solo quello che non si ha intenzione di concedere realmente. Poi scoppia la seconda intifada, e può dire al mondo: ecco perché non possiamo fare quelle concessioni. Lo Stato palestinese resta sulla carta, gli insediamenti continuano a espandersi. Ogni tanto Haaretz scrive che l’Occidente ha perso la pazienza, ma non succede mai niente, e gli israeliani imparano l’impunità.

E questo meccanismo è stato adottato anche a Gaza?

Non esattamente: ormai la complicità dei governi occidentali nella retorica e nei crimini di guerra israeliani è così profonda che Israele non ha nemmeno più il problema di apparire serio. E poi non è un negoziato se il mediatore, l’Occidente, vuole la distruzione di una delle parti, Hamas, e l’unico altro interlocutore politico, l’Autorità palestinese, è uno strumento di gestione dell’occupazione. Washington è completamente prigioniera di questa finzione, che ignora tutto quello che sappiamo dei movimenti anticoloniali, dal Vietnam all’Algeria all’India… Eppure Hamas e le altre entità dell’Asse della Resistenza sono state coerenti fino alla noia. La posizione negoziale Usa è più vicina a quella di Hamas, perfino a quella iraniana, che a quella israeliana attuale. Però Gaza esiste in un mondo parallelo, dove non può succedere quello che succede sempre nei movimenti di liberazione, e si propaga la fantasia che la resistenza armata si possa comprare 100 mila dollari a ostaggio, o affidando la sicurezza a una milizia paramilitare. Siccome la narrazione israeliana ha vinto, abbiamo decretato che è inammissibile chiedersi perché Sanwar è visto come un martire, com’è vivere per decenni sotto occupazione, o com’è percepito l’Occidente.

Come si torna a una soluzione politica?

Gli Usa non stanno realmente facendo diplomazia, e in questo vuoto è emerso uno sforzo regionale guidato dall’Iran e da alcuni Stati del Golfo, che promuovono una de-escalation ed evidenziano i pericoli di un conflitto più ampio. Gaza ha catalizzato due elementi. Primo: in Occidente valutiamo tutto per cicli elettorali, ora le elezioni Usa: ma Gaza avrà un impatto generazionale. Secondo: prima del 7 ottobre, l’Occidente stava prendendo le misure di un nuovo mondo multipolare. Poi arriva Gaza, e la corsa a coprire le violazioni israeliane del diritto internazionale fa saltare tutto. Ora l’Occidente è molto occupato a congratularsi con se stesso per aver riaffermato il proprio ruolo di regolatore globale. Ma la verità è che sta diventando sempre più piccolo e isolato. Alla fine l’alternativa alla guerra è un più ampio accordo regionale che dovrà includere l’Iran. Israele rifiuta questa prospettiva e trascina tutti a fondo.

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