L’immigrazione è un punto di biforcazione storico
di Ignazio MASULLI –
L’inizio della presidenza Trump si può considerare come l’ultima ed estrema affermazione di una destra ultranazionalista e xenofoba che da alcuni anni sta montando anche nei maggiori paesi europei.
Pur tra le differenze, che non si possono trascurare, v’è un elemento comune e fortemente caratterizzante di queste espressioni politiche: la decisa avversione all’immigrazione. È stato questo il fattore decisivo per la vittoria di Donald Trump nelle elezioni americane, come per il successo di Farage nel referendum per la Brexit. È questo il lievito più forte del crescente consenso di Marine Le Pen in Francia, di Geert Wilders in Olanda e di altri nazionalisti e xenofobi in vari paesi europei.
Il fatto, poi, che governi sedicenti di centro-sinistra o addirittura “socialisti” inseguano le destre sul loro stesso terreno sperando di arginarne i guadagni elettorali non fa che rafforzare questi orientamenti in settori sempre più larghi dell’opinione pubblica.
Purtroppo stiamo assistendo al dilagare di una vera e propria patologia che affligge la società tardo capitalista e che si è aggravata notevolmente con le politiche neoliberiste.
Una malattia che colpisce due volte le sue vittime. La prima quando subiscono un peggioramento delle proprie condizioni di lavoro e di vita. La seconda quando vengono ingannate sulle cause della crisi ed il loro malcontento viene strumentalizzato da chi ne è diretto responsabile.
In altri termini, ciò cui stiamo assistendo è il riproporsi di una dinamica non nuova e perversa. Quando non s’intravvedono sbocchi possibili per un futuro migliore, i ceti più deboli ed esposti sul piano inclinato del peggioramento vedono nello status di chi è più vicino e più in basso la minaccia di una condizione in cui è possibile scivolare. È in queste situazioni che monta l’avversione verso tutto ciò che è esterno e che viene avvertito come pericoloso.
Su tale sentimento fanno facilmente leva sia le destre nazionaliste che i governanti incapaci di svolgere un’azione di orientamento e costruzione politica, ma solo di amministrare l’esistente al servizio degli interessi costituiti.
Gli uni e gli altri fanno credere all’opinione pubblica che sarebbero gli immigrati a sottrarre lavoro ai cittadini residenti da più lunga data e a rappresentare un peso insostenibile per i bilanci statali.
Sappiamo bene che il restringimento delle basi produttive, il peggioramento delle possibilità e condizioni di lavoro, i tagli allo stato sociale hanno ben altri responsabili e sono la diretta conseguenza delle politiche economiche perseguite dai gruppi dominanti.
Viceversa gli immigrati, anche a considerare solo quelli nati all’estero, quando, superati mille ostacoli, riescono ad entrare e regolarizzare la propria posizione, col loro lavoro contribuiscono non poco all’aumento del PIL dei paesi che li ospitano (8,8% in Italia nel 2014) e concorrono quindi alla creazione di maggiore lavoro. Le tasse e i contributi che versano allo stato sono quasi il doppio delle spese di cui usufruiscono (nel bilancio italiano del 2014 hanno corrisposto 8 miliardi contro i 4 impiegati per tutte le spese che li hanno riguardati). E cifre analoghe valgono anche per gli altri maggiori paesi europei.
Ancor più importante è il contributo degli immigrati al riequilibrio demografico. Secondo i calcoli della Commissione europea il rapporto tra popolazione in età lavorativa e gli over 65 nei 28 paesi membri, già oggi molto squilibrato, lo sarà sempre più nei prossimi anni. Il che significa che se vogliamo che quel che resta del plurimutilato sistema di welfare in Europa regga in qualche modo, occorre un rapido aumento della popolazione in età lavorativa. Per il raggiungimento di tale obiettivo, la popolazione europea dovrebbe aumentare di circa 42 milioni in 4 anni! Cosa concepibile solo attraverso massicci afflussi di immigrati.
Ma la mistificazione fa comodo sia a chi l’adopera nel modo più sfrontato e demagogico, sia a chi intende occultare le vere ragioni della crisi e del suo protrarsi.
In queste condizioni il disorientamento politico di popolazioni che non intravedono alternative ci ha condotti ad una soglia critica oltre la quale s’apre una biforcazione.
Da un lato è possibile ed anzi probabile che cresca il consenso verso chi alimenta false paure e fa leva su istinti di autodifesa. La prospettiva è quella di una chiusura crescente in false identità di nazione, razza, “civiltà”. L’esperienza storica c’insegna che una società chiusa non ha futuro ed è destinata alla fine per entropia.
L’alternativa è andare controcorrente e lottare vigorosamente per un’organizzazione sociale aperta alle trasformazioni.
Il banco di prova per le forze di sinistra e per tutti coloro che intendono battersi per un radicale mutamento del modo di funzionare del sistema è rappresentato proprio dalla nuova ondata migratoria.
La consapevolezza che questa, come le altre due grandi migrazioni precedenti, tra fine Ottocento e primo Novecento e dopo la seconda guerra mondiale, non è arrestabile ed è destinata ad incidere profondamente sugli equilibri demografici, sui rapporti sociali, gli assetti politici e i modelli di cultura dei paesi euro-atlantici deve costituire il punto di partenza di un approccio affatto diverso al fenomeno.
Pensare ai modi migliori per governarlo e svilupparne tutte le potenzialità significa apprestarsi ad un mutamento storico. Un mutamento che ha da svolgersi contemporaneamente su due fronti.
Sul primo occorre riguadagnare il terreno perduto da parte delle classi lavoratrici e dei ceti medi nei paesi di più antico sviluppo in tema di diritti del lavoro e sociali. Sul secondo gli stessi diritti devono essere rivendicati a pieno e spalla a spalla da quanti fuggono da situazioni di violenza, sopruso e miseria nei paesi meno sviluppati. Anch’essi hanno da riguadagnare un terreno perduto, che è quello dei diritti conculcati dalle varie forme di colonialismo imposte negli ultimi due secoli, per non andar più indietro.
Certo la sfida è ardua, ma è quella che si profila sempre ai passaggi storici, quando si giunge ad un punto di biforcazione tra diversi possibili futuri. È una sfida che non può essere raccolta se non cominciando a far valere una verità elementare: vale a dire che la rivendicazione di diritti fondamentali di uguaglianza e libertà, di aspirazione alla costruzione di una vita migliore non può riguardare solo alcune popolazioni. Quei diritti o valgono per tutto il popolo-mondo o mancano del fondamento della loro universalità.
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