LE PENSIONI NON SONO IN ROSSO: DATI OPACHI PER TAGLIARLE ANCORA da IL FATTO
Le pensioni non sono in rosso: dati opachi per tagliarle ancora
I dati – Nel 2029 l’età pensionabile arriverà a 67,5 anni: sennò il sistema non regge, dicono. Peccato che le pensioni da lavoro (al netto di assistenza e tasse) siano già in attivo per miliardi
Marco Palombi 20 Gennaio 2025
Tre mesi in più nel 2027, altri due in più nel 2029: gli italiani, finita la parentesi Covid, si ostinano a morire troppo tardi e l’età della pensione si deve alzare. Tra cinque anni dovrebbe dunque sfiorare i 67 anni e mezzo e per quella anticipata servirebbero 43 anni e tre mesi di contributi. Ne va del bilancio dello Stato! Senza quei cinque mesi qui rischiamo il fallimento! Ci fidiamo il giusto degli alti lai dei custodi del rigore a senso unico, che peraltro spesso vanno in pensione bene e presto, perché il sistema previdenziale italiano non solo è in equilibrio di medio periodo, come dicono tutte le istituzioni internazionali, ma nella realtà è in avanzo e finanzia lo Stato.
È un segreto così ben custodito che lo conoscono tutti gli esperti della materia, eppure ogni anno l’Italia si fustiga inviando ad Eurostat e alla Commissione Ue un dato abnorme. Questo è il presidente dell’Inps Gabriele Fava (quota Giorgetti) a ottobre: “Nel 2023, secondo le rilevazioni della Ragioneria generale dello Stato, la spesa pensionistica cresce rispetto al 2022 del 7,4%, attestandosi al 15,3% del Pil, uno dei dati più elevati d’Europa (la media è 12,5% circa, ndr). Negli ultimi cinque anni è passata da 268 a 319 miliardi di euro (una crescita di quasi il 19%)”. In realtà classificare la spesa nel bilancio dell’Inps è una sorta di mistero teologico: il think tank Itinerari Previdenziali – peraltro guidato dall’ex sottosegretario al Welfare del secondo governo Berlusconi e consigliere Inps in quota Lega Alberto Brambilla – ritiene ad esempio che la spesa previdenziale in senso pieno nel 2023 sia stata 311 miliardi. Questo al netto del fatto che in realtà la percentuale sul Pil del 2023 (rivisto al rialzo a settembre) sarebbe del 14,9% secondo i numeri di Fava e del 14,6% secondo quelli di Brambilla.
Solo che quei trecento e dispari miliardi non sono tutta spesa pensionistica, perché dentro ci sono molte altre cose, quelle che vanno sotto l’acronimo Gias (Gestione interventi assistenziali): parliamo di agevolazioni contributive per redditi e salari, prepensionamenti, aumenti delle pensioni sociali, la quattordicesima, eccetera. Robetta che nel 2023 nel bilancio Inps – seguiamo ancora l’ultimo report di Itinerari Previdenziali – valeva 43,8 miliardi. Tradotto: la spesa per le pensioni previdenziali, cioè quella coperta in tutto o in parte dai contributi versati dai lavoratori e dalle aziende, è di 267,1 miliardi di euro, pari al 12,5% del Pil, in piena media Ue: lo sbilancio del sistema previdenziale, a questo livello di scomposizione, nel 2023 era pari a circa 30 miliardi.
Finito? Macché. In quella spesa previdenziale da 267 miliardi e spicci sono ancora comprese le integrazioni al minimo (6 miliardi), le maggiorazioni sociali (3 miliardi) e la Gias dei dipendenti pubblici (16,7 miliardi): tutte spese – automatiche e legate al reddito – che nelle classificazioni per funzioni di Eurostat dovrebbero stare nelle categorie sostegno ai redditi o nella lotta all’esclusione sociale e che la stessa Inps classifica come assistenziali. La spesa legata alla contribuzione dunque nel 2023 è stata 244,3 miliardi (circa l’11,5% del Pil) e la differenza con le entrate corrispondenti (224,6 miliardi) è di 19,6 miliardi. Problema: in Italia, a differenza che in altri Paesi (la Germania ad esempio), sulle pensioni si pagano le tasse, la bellezza di 62,2 miliardi nel 2023, che per lo Stato rappresentano una partita di giro. Tradotto: la spesa netta previdenziale in senso proprio è stata di 182 miliardi circa, ben 42,5 in meno delle entrate contributive. Risultato: sono le pensioni da lavoro a finanziare il sistema e non il contrario. In prospettiva – cioè nei decenni, l’unico modo in cui si valutano i sistemi pensionistici – la situazione è persino “migliore”: andrà ad esaurirsi la platea del più “generoso” sistema retributivo e quella di chi è andato in pensione presto. La stessa Rgs vede un sistema in equilibrio al 2070 (14% del Pil) nonostante il tracollo demografico e la solita confusione pensioni-assistenza.
Ovviamente questo non significa che non ci siano problemi. Ne citeremo tre. L’invecchiamento della popolazione aumenta il numero di pensionati e diminuisce quello dei lavoratori attivi, un bel problema in un sistema a ripartizione come il nostro. I bassi salari e la moda delle decontribuzioni (tipo lo stipendio pagato in welfare aziendale) impoveriscono le entrate. Il sistema “contributivo”, che sarà l’unico per i lavoratori che oggi hanno da 50 anni in giù, produrrà in futuro milioni di pensionati poveri e bisognosi di assistenza.
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