LAVORO E SICUREZZA, QUANDO LA PROPAGANDA SUI DATI MIRA AL PROFITTO ELETTORALE da IL MANIFESTO e IL FATTO
Lavoro e sicurezza, quando la propaganda sui dati mira al profitto elettorale
Le prospettive Negli annunci dell’esecutivo non c’è solo ideologia, ma politica e disuguaglianze. Le prospettive del governo Meloni analizzate con la Fondazione Di Vittorio, Oxfam e il libro «lavoro e salari in Italia» (Carocci)
Roberto Ciccarelli 03/05/2025
L’interpretazione dei dati e degli annunci sull’occupazione, o sulla sicurezza psico-fisica dei lavoratori, è una dimensione della lotta di classe oggi in Italia. In occasione del primo maggio, Meloni ha rimesso il disco sul «boom» dell’occupazione («un milione di posti di lavoro in due anni»), e sul correlato ma poco credibile aumento dei salari («è migliore e non peggiore rispetto a quella del resto d’Europa»).
Questa non è solo «propaganda», dunque ideologia, come si tende a dire da più parti, ma anche politica. C’è senz’altro il problema della contrattazione sui salari, il recupero del potere d’acquisto mangiato dall’inflazione o l’esito di iniziative come la «patente a crediti» fino a poco tempo fa presentata come un modo per contenere le stragi sul lavoro. Da quando è stata adottata, ottobre 2024, sono invece aumentate.
E infatti il governo ha annunciato un nuovo provvedimento-bandiera. E poi c’è la reputazione, il profitto che gli imprenditori politici fanno valere sul mercato elettorale o su quello delle agenzie di rating, molto considerate anche da Meloni e soci. Che siano verosimili, o meno, i dati servono a consolidare una narrazione che resiste ad ogni «fact-checking» ed è utile per la rielezione. Ciò non toglie che sia necessario farlo. Ma, come accadde per il governo Renzi (non fu da meno di Meloni quanto «propaganda»), anche per quello attuale sarà necessario un evento dirompente per rompere la realtà parallela. Per Renzi fu il referendum costituzionale. Quello sul lavoro e la cittadinanza dell’8 e 9 giugno potrebbe dare un segnale, qualora raggiungesse il quorum.
Si può anche riconoscere a Meloni di «avere cambiato rotta» sull’occupazione. La crescita, meramente quantitativa dell’occupazione a tempo indeterminato c’è stata. Il problema è la composizione e la tendenza. La Fondazione Di Vittorio ha avanzato due ipotesi nel rapporto su Precarietà e salari bassi a dieci anni dal Jobs Act. Il «record» è stato prodotto dalla trasformazioni dei contratti a termine attivati nel dopo-pandemia e non a un aumento dei nuovi contratti di assunzione. E poi c’è l’«effetto Fornero»: prima si andava in pensione a 62 anni, adesso tra 65 e 67 anni. Si entra nel mercato, ma sono di più quelli che sono costretti ad andare in pensione più tardi. Meloni sta dunque beneficiando di due misure: il Jobs Act e la «legge Fornero».
C’è il problema molto sentito dei bassi salari. L’Istat ha confermato che i lavoratori italiani a marzo 2025 hanno guadagnato l’8 per cento in meno rispetto allo stesso periodo del 2021. Meloni lo ignora e ragiona su altro. Nel 2024 i salari reali sono cresciuti del 2,3% su base annua. Ma ciò non è stato dovuto al suo governo, ma al fatto che è diminuita l’inflazione vista tra il 2022 e il 2023. I fondi della legge di bilancio per i contratti pubblici sono insufficienti per recuperare un’inflazione cumulata di circa il 15% nei tre anni precedenti.
Lo ha confermato un’analisi di Oxfam diffusa il primo maggio. «Se, anziché ricorrere agli indici generali dell’inflazione, si facesse riferimento alla variazione dei prezzi del carrello della spesa, allora si capirebbe che la dinamica positiva del 2024 è solo un placebo per i lavoratori con le retribuzioni più basse» ha spiegato Mikhail Maslennikov, policy advisor su giustizia economica di Oxfam Italia. Le disuguaglianze sono cresciute a dismisura. La retribuzione mediana degli amministratori delegati è passata da 2,9 milioni di dollari nel 2019 a 4,3 milioni nel 2024. Un aumento che supera di 56 volte la crescita del salario medio reale (+0,9%). L’analisi di Oxfam è un esempio della lotta di classe in corso.
Una soluzione è indicata nel libro: Lavoro e salari in Italia (Carocci, pp. 192, euro 22) curato da Rinaldo Evangelista e Lia Pacelli. Nel breve periodo l’emergenza salari può essere affrontata garantendo «minimi salariali dignitosi» che però il governo Meloni ha escluso.
C’è da rispettare «le scadenze dei rinnovi contrattuali, il rafforzamento dei meccanismi di indicizzazione dei salari alla dinamica dei prezzi e della produttività, l’introduzione di disincentivi all’utilizzo eccessivo da parte dei datori di lavoro di forme contrattuali atipiche». Ciò potrebbe imprimere «una inversione alla dinamica declinante delle retribuzioni reali del lavoro dipendente», osservano Rinaldo Evangelista e Matteo Lucchese. In tempi più lunghi si dovrebbe «innalzare la qualità delle produzioni e dei lavori». Doveva farlo il Pnrr. «Opportunità – osservano gli economisti – che sembra essere stata colta solo in parte a causa della mancanza di una visione strategica e da una eccessiva frammentazione di interventi e strumenti».
La lezione del lavoro sociale non è mettere “cerotti”, ma offrire un progetto politico
Salvatore Cannavò 3 Maggio 2025
Se “Non facciamo del bene”, dicono gli autori – uno di loro Andrea Morniroli, da oltre 40 anni impegnato nella cooperazione sociale, l’altra, Gea Scancarello, giornalista de La7 –, è perché non vogliamo più pensare al lavoro di operatori sociali come coloro che mettono “cerotti”. Che alleviano le mancanze di uno Stato sempre più restio a occuparsi del sociale e che nel corso di un trentennio ha gestito, con governi di destra o di centrosinistra, una ritirata di grande portata dalla cura dei servizi primari.
Gli operatori sociali si sono trovati così in frontiera, a farsi carico di problemi giganteschi, con risorse limitate. Secondo i dati del 2022, riportati nel libro, sono 14 mila le cooperative sociali che solo nel 2017 hanno visto interrompere la loro crescita. Ma non il fatturato complessivo che ha sfiorato i 18 miliardi occupando 491 mila addetti. E nonostante la metà delle cooperative sia situata nel Sud d’Italia, il 63% del fatturato è prodotto al Nord. Segno che di ferite sociali ce ne sono molte e diffuse. Ma, anche a giudicare dalle inchieste giudiziarie, questo settore spesso ha abbracciato troppo velocemente i meccanismi del mercato rincorrendo il profitto, anche a tutti i costi. Oppure, è impigliato in una “missione” caritatevole. Morniroli e Scancarello raccontano storie sconosciute, accendono fari su realtà inedite per affermare un’altra idea: che si tratta di un lavoro “politico”. Non per cimentarsi biecamente con la politica quotidiana – illuminante il racconto del voto offerto da una giovane donna dopo aver ricevuto un lavoro imprevisto per il marito – ma per offrire una visione di società, dare indicazioni, esprimere un progetto. Ispirandosi all’insegnamento di Franco Basaglia, secondo cui il punto non è aver chiuso i manicomi, ma aver dimostrato “che si può fare”. Convincere, quindi, piuttosto che vincere. A dispetto del titolo, però, anche questo è fare del bene.
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