LA VITA DI FATIMA E DI GAZA PRIMA DELLE BOMBE DELL’IDF da IL FATTO
La vita di Fatima e di Gaza prima delle bombe dell’Idf
Francesca Fornario 19 Aprile 2025
Dicembre 2022. I tifosi di Gaza festeggiano davanti a un maxischermo la vittoria del Marocco sul Portogallo, prima volta che una squadra africana raggiunge la semifinale in Coppa del Mondo.
Un ragazzo volteggia sullo skate: indossa la maglietta dei Green Day con la copertina di American Idiot, l’album del 2004 dal quale è tratto il brano Jesus of Suburbia, che pochi giorni fa la band statunitense ha suonato al Coachella festival cambiando le parole per denunciare lo sterminio dei bambini di Gaza.
Una rotonda sul mare. Una mostra d’arte contemporanea. Biciclette legate a una ringhiera. La cerimonia di laurea, con le ragazze che sorridono, stringono i fiori rossi e lanciano in aria “i tocchi” con il pennacchio come nei film. Un artigiano al tornio, una donna che stende la pasta del pane, un picnic al tramonto in spiaggia. Due innamorati che passeggiano in riva al mare, sorridenti e abbracciati.
Il dettaglio di una collanina con le farfalle, di una pila di libri sul comodino, dei versi di una poesia, del tavolino di un bar: la mano di una ragazza ventenne che trattiene un caffè spolverato di cacao, accanto a un vassoio di pasticcini. Le maniche del maglione che sfiorano le nocchie, un anellino, le unghie curate, la didascalia con un cuore e la scritta “Ulfah”, che nelle identiche foto postate su Instagram dalle sue coetanee nel resto del mondo sarebbe “Cozy” e in Svezia, dove c’è una parola per dirlo, “Fika”: la pausa caffé che è una coccola.
La mano è quella della fotografa Fatima Hassouna, che sognava di fotografare il mondo ma è riuscita a fotografare solo Gaza, l’unica città che ha visto, quella dove è stata uccisa, giustiziata da Israele con un missile che cercava lei e con lei ha sterminato quel che restava della sua famiglia: dieci persone.
Uccisa perché, fotografando quel che era rimasto da fotografare, era diventata una reporter di guerra, una delle più attive in quella Striscia sotto assedio dove i giornalisti internazionali non possono entrare e quelli palestinesi vengono ammazzati uno dopo l’altro, oltre 200, a un ritmo che non ha pari in nessun altro conflitto al mondo.
Da un anno e mezzo Fatima fotografava famiglie in fuga con i materassi in testa, quartieri rasi al suolo, cadaveri, disperazione, bimbi storditi tra le macerie. Non più abiti da sposa bianchi con lo scollo a cuore e la gonna vaporosa, come quello che aveva postato prima dello sterminio, simile forse a quello che sognava di indossare tra qualche mese, quando si sarebbe dovuta sposare.
Fatima Hassouna non aveva ancora compiuto 25 anni. Nel suo testamento, pubblicato dopo l’attacco dell’Idf che ha bruciato vivi, nelle loro tende, il giornalista Ahmed Mansour di Palestine Today e un suo collega, ha scritto: “Se muoio voglio una morte che scuota il mondo. Non voglio essere solo un titolo di giornale o un numero tra le statistiche. Voglio una morte che il mondo senta, un’eredità che duri per sempre, immagini immortali che il tempo non possa seppellire”.
Vorrei che questa eredità fossero le foto che Fatima ha scattato prima del 7 Ottobre. Le foto di una ventenne che si stava laureando in Multimedia all’University College of Applied Sciences di Gaza, che frequentava un club del libro, indossava collanine, leggeva poesie, andava alle mostre d’arte, sorseggiava caffè. Per ricordare a chi l’ha ammazzata, ai loro complici, agli intellettuali che si occupano d’altro, che Israele non sta dando la caccia ai terroristi. Dava la caccia a una ragazza colpevole di testimoniare il genocidio in diretta. Colpevole di mostrare al mondo, attraverso le foto postate su Instagram, che i gazawi sepolti sotto le macerie dei bombardamenti, costretti a scappare e morire di fame e di sete, sono ragazzi sullo skateboard, donne che dipingono, uomini che cuciono reti da pesca, laureati che lanciano in aria i cappelli, artigiani al tornio, madri che preparano la cena.
Facciamo circolare le foto di Fatima. Guardiamole come se fossimo a una sua mostra, in un presente parallelo, come se lei fosse viva e avesse potuto continuare a testimoniare la vita e non la morte. Vedere le foto dei cadaveri di Gaza è doloroso e necessario. Ancor più necessario è guardarli in faccia da vivi, quando i bambini ancora sorridevano e le ragazze studiavano e i pescatori pescavano.
Sulle tombe mettiamo le foto dei vivi, perché è giusto ricordarli così. Le donne, gli uomini, i bambini di Gaza non godono dello stesso trattamento: sono carne maciullata sotto lenzuola insanguinate, corpi mangiati dai cani, donne e bambini immortalati in una condizione più prossima alla morte che alla vita: con i corpi smagriti, le ciotole vuote, gli occhi sgranati sotto le tende che fanno da casa. Li vedi così e pensi che ormai tutto è perduto. Lo dice Trump: non c’è che morte a Gaza, tanto vale rimuovere le macerie e deportare quei mezzi morti altrove, come malati terminali spostati in qualche reparto a lunga degenza. Guardate invece le foto di Fatima. Guardate i giovani innamorarsi, laurearsi, volteggiare in skate. Ricordiamoli così se vogliamo rivederli così. Chiunque ha una voce pubblica, la usi per denunciare questo genocidio.
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