LA PACE POSSIBILE, ANZI NECESSARIA da OFFICINA DEI SAPERI e IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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LA PACE POSSIBILE, ANZI NECESSARIA da OFFICINA DEI SAPERI e IL MANIFESTO

La pace possibile, anzi necessaria

 Piero Bevilacqua  22/02/2023

Due patriarchi della scena intellettuale europea, Jürgen Habermas (94 anni) e Edgar Morin (102), rispettivamente su  La Repubblica e la Lettura del Corriere della Sera del 19 febbraio, intervengono con tutto il  loro ormai secolare prestigio per lanciare l’allarme sui pericoli  mortali in cui la guerra in Ucraina sta trascinando il mondo. E, sia detto per inciso – lo lamenta anche Morin –, paradossalmente la stessa presa di posizione di queste due figure eminenti ci fa accorgere del  grande silenzio del mondo intellettuale europeo su questa guerra, l’assenza di voci insistenti e diffuse nel rivendicare la pace.

Habermas nel suo Europei in guerra come sonnambuli sull’orlo dell’abisso, con il consueto argomentare  acuto e concettoso, ma spesso stilisticamente non nitido né coinvolgente, mostra come la Nato e tutto il fronte occidentale impegnato a sostenere l’Ucraina contro l’aggressione russa, con l’espressione-bandiera “L’Ucraina non deve perdere”, non veda il baratro cui questa linea può condurre. Quando si stabilirà che  l’Ucraina non ha perso? E quante armi occorre ancora inviare perché questo  avvenga? Quante morti e distruzioni gli ucraini dovranno sopportare per soddisfare le finalità strategiche della Nato? E infine a qual punto di non ritorno la continuazione del conflitto può condurre: perché La Russia può infliggere una sconfitta sul campo all’avversario e a quel punto come si risponderà? L’Europa e i Paesi NATO dovranno intervenire direttamente e dare il via alla terza guerra mondiale?

Morin, in un’intervista rilasciata a Nuccio Ordine, Grandi guerre, piccole paci, che prende spunto da una recente pubblicazione dell’infaticabile centenario, Di guerra in guerra. Dal 1940 all’Ucraina invasa (Raffaello Cortina), ricostruisce con accorata lucidità le tante guerre che ha attraversato da testimone, a partire dalla seconda guerra mondiale. Diversamente da Habermas, Morin ha uno sguardo storico anche sulla guerra in Ucraina. E, pur nella brevità delle risposte alle domande dell’intervistatore, mostra  una vasta conoscenza del contesto in cui è maturato il conflitto che oggi coinvolge l’Europa, un’entità sovrastatale nata per impedire che la guerra tornasse a insanguinare le sue terre. Il pensatore francese – a cui non saremo mai abbastanza grati per il contributo che ci ha dato con la sua  analisi sulla complessità del mondo vivente nei  volumi della Méthode  e in innumerevoli scritti – non risparmia critiche ai crimini dell’URSS staliniana e al rinato nazionalismo  della Russia di Putin. E, come ogni buon storico onesto dovrebbe fare, pur prendendo le difese dell’Ucraina aggredita, ribadendo le regole del diritto internazionale, non fa sconti  agli USA: alla potenza che ha lungamente perseguito questa guerra, con l’espansione della Nato fin sotto i confini della Russia, armando gli ucraini per spingerli  in un conflitto che doveva servire ai suoi disegni di dominio geopolitico. L’“imperialismo americano – dice Morin – s’è manifestato nella storia delle relazioni tra Russia e USA anche dopo la caduta dell’URSS, quando perfino Putin si recò a Berlino per dire ‘Noi siamo europei’ […] Il ruolo di Washington è completamente compromesso: non possiamo dimenticare le bugie di guerra (come in Iraq),la violazione delle leggi internazionali, il sostegno alle dittature sanguinarie in America Latina. Certo: in America c’è la democrazia, in Russia c’è il dispotismo. Ma questo non cancella  la sua vocazione imperialista, colonialista e perfino genocida”.

Come non concordare? Ed è necessario essere Edgar Morin per trovare il coraggio di dire queste parole che registrano una realtà universalmente nota non solo agli intellettuali ma ai semplici cittadini ben informati ?

D’altra parte, se la conoscenza storica serve a qualcosa, quella conoscenza che disturba la malafede di tanti giornalisti italiani, la viltà di tanti intellettuali diventati guerrieri col sangue degli ucraini, che cosa ci racconta della vicenda degli ultimi 30 anni? Che la Nato a trazione americana è  stato l’agente principale di tutti i conflitti armati che dagli anni ’90 hanno insanguinato il mondo. A partire dalla guerra in Jugoslavia, per passare all’Iraq, alla Libia, all’Afghanistan e a vari altri angoli della Terra. E se non si  vuole credere nella  storia, perché appartiene al passato, si dia uno sguardo al presente. Gli Stati Uniti che guidano la NATO,  la quale è la North Atlantic Treaty Organization, dunque dovrebbe collocarsi nelle regioni dell’Atlantico del nord, possiede 800 basi militari sparse a Nord, a Sud, a Est  a Ovest  del nostro  pianeta. Che cosa rappresentano questi avamposti di guerra se non la prova vivente di un disegno di dominio sul globo, che vuole ripercorrere la storia del ‘900, che rifiuta di riconoscere il protagonismo dei nuovi Stati  presenti sulla scena mondiale, che tenta di contrastare, con la supremazia delle armi, un assetto multilaterale  dell’ordine internazionale? Perché dunque dovremmo desiderare che la Nato vinca la guerra contro la Russia? Non è affatto necessario dimenticare che Putin è l’aggressore, violatore del diritto internazionale, per schierarsi contro la Nato. Questa organizzazione militare, che è nata nella guerra fredda, contro il blocco sovietico, crollato nel ’91, e che  oggi continua la sua guerra anche con le armi, sta trascinando l’Europa e il mondo in una corsa agli armamenti che sottrae risorse ad ospedali, scuole, territori, infligge danni supplementari  al pianeta che sta collassando sotto i colpi del nostro dissennato sviluppo. Mentre l’avvenire luminoso che ci prospetta, dopo l’eventuale sconfitta della Russia, è la guerra contro la Cina.

Missili e calze di seta

IL COSTO DELLA GUERRA. George Orwell, negli anni Trenta, scriveva che un aereo da guerra costava «quanto un milione di pagnotte». Oggi il confronto sarebbe ancora più infausto

Fabrizio Tonello  23/02/2023

«Un aereo da bombardamento equivale in termini di prezzo a cinquanta piccole autovetture, o a ottomila paia di calze di seta, o a un milione di pagnotte. È chiaro che non si possono avere molti aerei da bombardamento senza abbassare il livello di vita del paese». Lo scriveva George Orwell in un saggio, Il leone e l’unicorno, meno noto della Fattoria degli animali o di 1984 ma ugualmente importante per il suo stile e la sua lucidità. Si tratta di un’opera unica perché non c’è pagina in cui Orwell non denunci l’avidità e la stupidità delle classi dirigenti inglesi senza risparmiare, d’altra parte, il Partito laburista né gli intellettuali filorussi dell’epoca, e questo nel 1940, a guerra già iniziata.
OTTANTATRE ANNI dopo anche noi siamo in guerra e riflettere sul costo dei conflitti prolungati è utile e necessario. Orwell sapeva sempre quello che diceva e quindi la sua citazione ci permette di capire meglio cosa significa mandare un carro armato Leopard o un aereo F-35 in Ucraina. Un bombardiere costa come 50 utilitarie anche oggi? L’aereo a cui probabilmente pensava Orwell nel fare i suoi esempi era un Blenheim IV, un bimotore a elica realizzato negli anni Trenta e usato poi fino alla fine della Seconda guerra mondiale. Potenza del motore 900 hp.UNA TIPICA AUTO per famiglie dell’epoca era la Austin 10 deluxe, che costava 172 sterline, l’equivalente circa 14.000 euro di oggi. In base ai calcoli di Orwell, l’aviazione inglese avrebbe quindi potuto acquisire un bombardiere leggero ma con un’autonomia di 2.350 chilometri per poco più di 700.000 euro attuali.
SE PRENDIAMO UN F-35 dei nostri giorni e guardiamo il cartellino del prezzo scopriamo che sono circa 95 milioni di euro, un po’ più o un po’ meno secondo gli accessori richiesti. Un’automobile economica equivalente a quella a cui pensava lo scrittore inglese, per esempio la Lancia Ypsilon costa un po’ meno di 10.000 euro, quindi un F-35 costa quanto 10.000 utilitarie. Avete letto bene, diecimila. Se scegliamo modelli migliori come la 500 FIAT o la i10 Hyunday, che costano attorno ai 15.000 euro, potremmo avere soltanto 6.667 automobili in cambio di un F-35.

ORWELL CITAVA LE CALZE di seta, un tema su cui negli stessi anni rifletteva anche l’economista Joseph Schumpeter nel suo libro Capitalismo, socialismo, democrazia. Scriveva Schumpeter: «La regina Elisabetta I possedeva calze di seta. Il tipico successo del capitalismo non consiste nel fornire più calze di seta alle regine, ma nel metterle alla portata delle operaie in fabbrica». Oggi dei buoni collant si vendono per 15 euro, ma per le operaie che guadagnano 900 sterline (mille euro) al mese dovendo pagarsi affitto, bollette, riscaldamento e pasti non si tratta di una spesa da fare senza pensarci. Ancora meno se, per mantenere l’approccio di Orwell, andiamo a cercare una versione più esclusiva e costosa delle calze per mantenere l’approccio di Orwell. Il sito della Wolford offre i Mat opaque 80 («una calda carezza sulla pelle… un pizzico di glamour anche nei giorni più freddi») per 45 euro.

TORNIAMO AI CONFRONTI tra il 1940 e oggi: comprando ottomila paia di collant Wolford spenderemmo 360.000 euro: stando ai dati interni Lockheed Martin questo è il costo di dieci ore di volo del F-35, non dell’aereo e neppure di un suo specchietto retrovisore. La macchina infernale costa come due milioni e duecentomila paia di calze di seta. Il capitalismo ha (quasi) fatto il suo dovere verso le giovani lavoratrici ma la voracità del complesso militare-industriale non è stata arginata, al contrario.INFINE, IL PANE. ORWELL comparava il Blenheim IV a un milione di pagnotte. Oggi un chilo di pane di media qualità costa sui 5 euro, quindi un F-35 ci porta via 20 milioni di pagnotte. Dobbiamo scrivere «ci porta via» perché qualche anno dopo il generale Dwight Eisenhower, il vincitore della seconda guerra mondiale assieme al maresciallo Georgi Zhukov, era abbastanza saggio da ricordare ai suoi concittadini che ogni cannone, ogni carro armato, ogni aereo erano «furti» ai danni di chi non aveva da mangiare, da vestire, da riscaldarsi. Eisenhower parlava nel 1953, in piena guerra di Corea: oggi nessun generale americano, nessun politico americano fa ragionamenti altrettanto sensati. Al contrario, Congresso e presidente varano pacchetti di aiuti bellici all’Ucraina per miliardi, senza troppo pensarci. Come del resto fanno i paesi europei, tra cui l’Italia.

NELLE SCORSE SETTIMANE si è molto parlato dei carri armati Leopard da mandare a Kiev. Per quel che se ne sa costano 5 milioni di euro l’uno. Quindi un Leopard di oggi costa otto volte più di un bombardiere del 1940. Costa come cinquecento (e non 50) auto familiari. Costa come 110.000 (e non 8.000) paia di collant di lusso. Costa come un milione di chili di pane, di che nutrire diecimila famiglie di profughi in Turchia o in Siria, ma non vola e non può essere mandato a bombardare il Donbass né la Crimea.

QUESTI CONFRONTI CI FANNO sospettare che il prezzo delle armi del 2023 sia cresciuto ben più dell’inflazione, anche perché l’ansia da prestazione dei militari americani è una malattia incurabile: già nel 2000 il Pentagono chiese ai fornitori un aereo che potesse atterrare in verticale, come un elicottero, e decollare in meno di 150 metri, grosso modo da piazza S. Marco a Venezia. Nello stesso tempo doveva anche essere in grado di volare a 1.600 chilometri orari, avere un’autonomia di 2.200 chilometri e portare una bomba all’idrogeno B61 (le abbiamo anche noi: stanno ad Aviano, provincia di Pordenone). Tutti gadget che costano. Tutte armi che pagano i popoli.

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