LA DEBÂCLE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE da IL MANIFESTO
La débâcle del diritto internazionale
Tradita anche l’Onu Crimini di guerra e crimini contro l’umanità, tra i quali tortura, omicidi, stupri e violenze sessuali commessi in Libia a partire da febbraio 2015. Sono le accuse rivolte a Osama […]
Marina Castellaneta 23/01/2025
Crimini di guerra e crimini contro l’umanità, tra i quali tortura, omicidi, stupri e violenze sessuali commessi in Libia a partire da febbraio 2015. Sono le accuse rivolte a Osama Najeem Elmasri, destinatario di un mandato di arresto della Corte penale internazionale che, però, arrivato in Italia è stato arrestato, ma subito rilasciato.
La Corte di appello di Roma, sezione IV, infatti, ha bloccato l’esecuzione del mandato di arresto. Un rifiuto che pesa come un macigno sulla giustizia penale internazionale e sulle vittime: il no alla consegna arrivato dall’Italia e l’immediato accompagnamento in Libia dell’accusato impedirà l’esercizio dell’azione penale e lo svolgimento del processo perché i procedimenti dinanzi alla Corte non si possono svolgere in contumacia. E certo Elmasri, riaccompagnato a casa dall’Italia, non correrà più il rischio di uscire dal Paese.
Eppure, l’obbligo di cooperare con la Corte penale internazionale è cristallino: gli Stati sono tenuti a eseguire i mandati di arresto emessi dalla Corte e, nel caso di ostacoli o difficoltà nell’attuazione delle richieste, a interloquire con l’Aja. Ma alle regole e agli obblighi precisi di cooperazione sono seguiti fatti del tutto diversi.
Dal punto di vista giuridico il quadro è chiaro sul piano formale, ma è diventato nebuloso nell’attuazione concreta. L’Italia ha ratificato lo Statuto e ha adottato la legge 237/2012 per adeguarsi, almeno in parte, alle sue disposizioni. L’articolo 11, che si occupa dell’applicazione della misura cautelare ai fini della consegna, s’inserisce nel quadro generale dell’obbligo di cooperazione con la Corte e, quindi, con l’obbligo per l’Italia di eseguire i mandati di arresto. In pratica, una volta arrivata la richiesta di applicazione di una misura cautelare, il Pg effettua la richiesta sulla misura cautelare su istanza dell’Aja alla Corte di appello di Roma. Nel caso di difficoltà o dubbi è previsto un costante dialogo con la Corte penale internazionale.
L’iter è stato lineare fino a un certo punto: la Pre-Trial Chamber ha emesso il mandato di arresto, lo ha notificato a sei Stati, inclusa l’Italia e lo ha trasmesso all’Interpol. L’arresto in Italia sembrava poter aprire le porte alla prosecuzione del procedimento all’Aja e a garantire il funzionamento della giustizia. Ma, poi, è arrivato il no della Corte di appello che ha respinto la richiesta e la convalida dell’arresto perché, in sostanza, non è stata seguita la procedura fissata dall’articolo 11 della legge 237/2012 che, ad avviso della Corte di appello, impone «una prodromica e irrinunciabile interlocuzione tra il ministro della giustizia e la procura generale presso la Corte di appello di Roma» e non permette l’applicazione dell’articolo 716 del codice di procedura penale che prevede l’intervento della polizia giudiziaria.
Eppure, l’articolo 11 non richiede un intervento del ministro della giustizia (se non per l’inoltro del verbale nel caso di consenso alla consegna). Inoltre, l’immediato ritorno a casa del presunto autore dei crimini ha pure vanificato la possibilità del ricorso in Cassazione da parte del procuratore, come previsto sempre dall’articolo 11.
Nella generale débâcle del rispetto degli obblighi di cooperazione è stato anche trascurato che il mandato di arresto della Corte ha, in questo caso, una particolare forza in ragione del fatto che la sua competenza è fondata sul deferimento della situazione libica da parte del Consiglio di sicurezza, con la conseguenza che gli Stati che non rispettano gli obblighi di cooperazione agiscono anche in contrasto con le decisioni vincolanti del Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Ma per ora la giustizia può attendere.
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