IL VOLUTO CORTOCIRCUITO DEL PENSIERO CRITICO da IL MANIFESTO e IL FATTO
Il voluto cortocircuito del pensiero critico
Tempi presenti Un riflessione a partire da «Antisemita» di Valentina Pisanty, per Bompiani. Per le destre illiberali al governo, l’anti-intellettualismo si coniuga con l’abuso del potere di interdizione. L’antisemitismo, categoria analitica irrinunciabile, è oggetto di diverse manipolazioni
Claudio Vercelli 21/01/2025
Dobbiamo impegnarci nel costruire una genealogia del nostro presente. Quest’ultimo non si dà in quanto mera circostanza del momento bensì come risultato di un lungo transito, inauguratosi già con gli anni Settanta. Possiamo essere certi che la nuova presidenza di Donald Trump costituirà un secco passaggio di regime. Geopolitico ma anche culturale. Non solo negli Stati Uniti, beninteso. Riguardando semmai le relazioni internazionali e, con esse, i modi e i criteri con i quali si pensano, si vivono, si rapportano tra di loro gli Stati così come i popoli. All’esterno del proprio confine nazionale così come, anche e soprattutto, all’interno (e quindi nell’intimo) di sé stessi.
Infatti, non si comprende nulla di quanto stia capitando se si continua affannosamente a ricorrere a categorie di interpretazione di taglio meramente novecentesco. Che sono tali poiché si rifanno ad un’idea di società che non esiste più. Ovvero, ne sono evaporati i soggetti storici (nazioni, classi, ceti, interessi, legami, relazioni e quant’altro) che invece ne costituivano l’essenza.
L’INCONSISTENZA ANALITICA è dettata soprattutto dall’impotenza dettataci dalle circostanze del momento. Intuiamo di non essere più quel che siamo stati ma fatichiamo a capire cosa ci potrebbe sopravvenire. Magari facendo anche a meno di noi stessi. Non a caso, insieme ai Sentimenti dell’aldiqua. Opportunismo, paura, cinismo nell’età del disincanto (già uscito, nel lontano 1990, per Theoria e ora riproposto da DeriveApprodi, pp. 176, euro 17), per comprendere l’oggetto delle nostre riflessioni, occorre forse concentrarsi su di un altro testo, tanto apparentemente eccentrico quanto – invece – in sé strettamente pertinente. Stiamo parlando di un volume che è composto come una trama a maglie. Un saggio romanzato che è, al medesimo tempo, anche l’inverso. È l’opera a firma di Piero Trellini, L’affaire. Tutti gli uomini del caso Dreyfus (Bompiani, 2022). Assai poco considerato, fino ad oggi, da pubblico e critica. Meritevole, altrimenti, di un’attenta lettura per tutti gli impliciti che porta con sé. Trattandosi di una sorta di accurato reticolo dell’età contemporanea. Ad esso si può affiancare l’ultimo lavoro di Francesco Germinario, Il testo del crimine. L’antisemitismo e i Protocolli dei Savi anziani di Sion (ombre corte, pp. 125, euro 13).
Ci stiamo quindi esercitando sul nesso tra antisemitismo – come ideologia della modernità – e deliri politici del presente. Non solo a destra. Gli echi, i rimandi, gli effetti del disastroso conflitto israelo-palestinese – infatti – si riverberano, da subito su un tale ordine di riflessioni. Assai spesso innescando precostituiti meccanismi di contrapposizione. La sfida, da ora in avanti, è quella di impegnarsi ad offrire una qualche sponda politica all’analisi critica. Se infatti non manca la seconda, comunque ridotta perlopiù agli echi di un labile lamento personale, è invece del tutto inesistente la prima. Per molte ragioni. Tuttavia, in nessun modo imputabili agli «intellettuali». Illusoria categoria, spesso fraintesa se non manipolata, anche nella stessa sinistra.
Non a caso, l’anti-intellettualismo («non pensare se non attraverso gli schemi di senso comune, quelli governati dalla comunicazione») è uno dei paradigmi strategici del dominio delle destre odierne. Il richiamo a Gramsci, e alla sua complessa categoria di «egemonia», è stato completamente usurpato. Se non deturpato. A partire dagli anni Ottanta. Con il fenomeno, assai più complesso di quanto si fosse altrimenti pensato, della cosiddetta «nuova destra». All’epoca sembrava il recinto di un piccolo gruppo di pensatori sconfitti. Mentre invece era l’avvio di una nuova fase costituente. Dove il connubio tra autoritarismo istituzionale, nonché politico, destrutturazione dei corpi intermedi e liberismo di mercato, si stava presentando agli occhi degli astanti sotto le false spoglie di una rilettura «non conformista» del presente. Per poi risultare, negli ultimi tre decenni, esercizio vincente.
CIÒ DICENDO, andiamo al dunque: in un tale ordine di riflessioni il testo di Valentina Pisanty, Antisemita. Una parola in ostaggio (Bompiani, pp. 176, euro 12) è soprattutto il racconto di un congedo. Non da una categoria analitica tanto impegnativa quanto imprescindibile, rispetto alla quale si ritiene comunque di continuare ad essere convocati, sollecitati e quindi impegnati. Bensì nei riguardi delle sue molteplici manipolazioni. Politiche e culturali. Le quali demandano non al concreto immaginario antisemitico dell’oggi, altrimenti più che mai diffuso. Il vero fuoco, infatti, è semmai l’abuso del potere di interdizione. Un tale agire sta paradossalmente divenendo una sorta di piattaforma dalla quale disintegrare ogni spirito critico.
Al dunque: lo schiacciamento ideologico su un’idea etnocratica di Israele è la cornice di questa regressione collettiva. Pisanty lavora su una specifica questione indice: a fronte delle molteplici manifestazioni di avversione verso gli «ebrei» (ossia, del loro rinnovarsi e ripetersi), perché si è ingenerata una condotta, al medesimo tempo tanto censoria quanto anti-intellettualistica, che usa l’antisemitismo al pari di un bavaglio nei confronti della libertà di giudizio e di espressione? Soprattutto, in quali circostanze una tale disposizione censoria è divenuta meccanismo di interdizione in mano alle destre illiberali?
Non di meno, per parte nostra, a ciò possiamo aggiungere altri interrogativi cardine. Primo tra tutti: come, perché e in quali modi la «difesa» di un’idea del tutto immaginifica degli ebrei e di Israele si è incardinata, in questi ultimi anni, nell’agire politico delle destre post e anticostituzionali, concorrendo a legittimarle? Per quali ragioni l’antisemitismo novecentesco, di cui parla ampliamente Germinario, può incontrarsi con i suoi stessi portatori, quand’anche essi appartengano a generazioni diverse? In quanto è in corso un duplice travaso. Da una parte, quello underground, di temi razzisti. Che si rigenerano e si rinforzano vicendevolmente. Dall’altra, la scissione tra antifascismo e rigetto dell’antisemitismo. Non è roba da poco, a conti fatti.
IL PROBLEMA CHE PISANTY segnala è che la preziosa categoria interpretativa dell’«antisemitismo» si sta piegando, nel suo più recente utilizzo, con il transitare da strumento di comprensione a mezzo di confusione e indistinzione. La pedagogia della vittima sta ripiegando su di sé, producendo un’eterogenesi dei fini molto aggrovigliata. Nonché controproducente. Tale poiché destinata a influenzare, sul lungo periodo, la relazione irrisolta tra immagini collettive, opinione pubblica, pensieri condivisi e risentimenti dilaganti. Se dalla vittima si passa al vittimismo (una postura del tutto intercambiabile tra i diversi gruppi contrapposti) allora l’anestetizzazione politica del passato, e dei suoi lasciti, è cosa pressoché certa. Agevolando, in questa lunga stagione politica e culturale, le destre post-costituzionali. Pisanty, ripercorrendo il dibattito pubblico, in Europa ed oltre, fa un ulteriore passo in avanti rispetto a Donatella Della Porta, Guerra all’antisemitismo? (Altraeconomia, pp. 120, euro 12). Il cui testo soffre infatti di una mera natura reattiva, vincolandosi al tema, pur stringente, della libertà accademica.
LA QUESTIONE, INFATTI, non demanda solo alle élite culturali. Rinvia semmai agli spazi di pubblica discussione. Quindi, di libertà collettiva. Con la sua grammatica e le sue sintassi. Poiché, ad oggi, la discussione in corso non è il prodotto di un dibattito collettivo bensì delle sole sofferenze di un corpo intellettuale che, il più delle volte, è anche soggetto accademico. Quello sul quale le destre post-costituzionali intendono invece mettere mano a breve, non solo tacitandone le voci dissidenti (compito in sé agevole) ma anche, e soprattutto, anestetizzandone la funzionalità partecipativa sul piano della mobilità sociale. Le destre illiberali da sempre hanno un compito, nelle società di massa: quello di narcotizzare le aspettative di trasformazione, trasformandole in codici di conformazione. Anche da ciò, forse, bisogna ripartire per comprendere la Babele del nostro presente.
Dopo la tregua. Hamas ha resistito e ora è legittimata a governare Gaza
alessandro orsini 21 Gennaio 2025
Hamas è vivo e vegeto: Israele non è riuscito a liberare gli ostaggi con le proprie forze. Questo pone tre problemi per gli sviluppi futuri: un problema etico-politico; un problema democratico e un problema militare.
Il problema etico-politico è questo: molti, prima della strage del 7 ottobre, incluso il sottoscritto, pensavano che Israele, nonostante i suoi crimini contro i palestinesi, fosse su un piano morale superiore rispetto ad Hamas, un’organizzazione terroristica che si è macchiata di crimini orrendi contro i bambini ebrei-israeliani, inclusa la strage contro il ristorante Sbarro a Gerusalemme, il 9 agosto 2001, dove un kamikaze di 22 anni, Izz al-Din Shuheil al-Masri, uccise anche una madre incinta. Il ristorante era pieno di madri con i bambini: 16 morti e 160 feriti. Siccome Israele ha usato il terrorismo a Gaza come pochi Stati hanno fatto nella “storia universale” – un termine con cui Max Weber si riferiva alla storia dell’umanità – la superiorità morale d’Israele rispetto ad Hamas è svanita. Netanyahu ha distrutto la reputazione d’Israele. L’eccidio condotto contro i civili palestinesi pone lo Stato israeliano allo stesso livello morale di Hamas e colloca Netanyahu e Katz sul piano di Sinwar e Haniyeh. Soltanto un uomo cinico e impudente come Antonio Tajani, davanti a 70.000 morti, avrebbe potuto dichiarare a Report: “Israele non ha compiuto crimini di guerra”, probabilmente, la frase più indegna mai pronunciata da un ministro della Repubblica Italiana. Risultato: delegittimandosi moralmente, Israele ha legittimato moralmente Hamas a governare Gaza. Se Netanyahu può governare uno Stato, Hamas può governare una città.
Mi occupo, adesso, del problema democratico. Israele ha rovesciato l’ira di Dio su Hamas, che ha resistito, aumentando a dismisura i propri consensi tra i palestinesi. Conseguenza: non esiste niente di più democratico del governo di Hamas a Gaza perché questo è ciò che tutti i palestinesi vogliono, in parte, perché amano Hamas e odiano Israele, in parte perché non gradiscono l’alternativa ad Hamas: Fatah. Il terzo problema è militare. Hamas ha resistito a tutte le bombe americane che Israele gli ha rovesciato addosso. Questa resistenza, che forse non ha pari nella storia delle resistenze, legittima Hamas al governo di Gaza anche sul piano militare. Questa resistenza non basta ad affermare che Hamas ha sconfitto Israele. Però è sufficiente per dire che Israele non ha vinto su Hamas. Antony Blinken ha dichiarato: “Hamas ha reclutato quasi tanti nuovi combattenti quanti ne ha persi”. In ultimo, non posso tacere la condotta di Crosetto e Tajani che – il lettore perdoni l’asprezza – stanno lucrando elettoralmente sui morti di Gaza. Crosetto ha usato il sito del ministero della Difesa per annunciare: “Oltre 50 tonnellate di aiuti umanitari partiti per Gaza”. Peccato che Crosetto non pubblichi su quel sito – usato spesso come se fosse la sua pagina Facebook – le armi che Meloni ha dato a Netanyahu a sterminio in corso.
Tajani, invece, ha annunciato che si recherà in Palestina per sostenere la pace. Chissà se avrà il coraggio di dire ai palestinesi che si è sempre rifiutato di votare in favore del cessate il fuoco umanitario all’Onu mentre Netanyahu li massacrava. Chissà se avrà il coraggio di dire che attacca tutti i giudici che cercano di indagare sui crimini di Netanyahu a Gaza e in Cisgiordania. Chissà se Tajani dirà ai palestinesi ciò che ha detto a Report: “Israele non ha compiuto crimini di guerra”. Ricordare che Tajani ha sostenuto Netanyahu è importante perché tornerà a sostenerlo al prossimo bombardamento.
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