IL MASSO ERRATICO da SINISTRAINRETE
Il masso erratico
di Piero Pagliani 26/01/2025
Avevo espresso il sospetto che sotto sotto il Cremlino preferisse vedere alla Casa Bianca Kamala Harris piuttosto che Donald Trump. Successivamente Putin sembrò confermarlo al Forum economico di Vladivostock: «Prima avevamo Biden come favorito, ma è stato escluso dalla corsa. Lui ha raccomandato a tutti i suoi sostenitori di appoggiare Harris, quindi lo faremo anche noi… lei ha una risata così contagiosa, il che vuol dire che le cose le vanno bene».
In realtà stava facendo dell’ironia sull’ennesima accusa di “interferenza” nelle elezioni statunitensi e sul perenne riso della Harris sul quale già ironizzavano gli americani stessi.
Ciononostante, trapelavano informazioni sulla “preferenza” russa per un’amministrazione Dem, più prevedibile e uniforme, rispetto a un’amministrazione Trump erratica e contraddittoria. Per il Cremlino l’Operazione Militare Speciale in Ucraina stava andando come doveva andare. Idem per le sanzioni contro la Russia [1]. La continuità dell’azione statunitense avrebbe inintenzionalmente ma inevitabilmente garantito l’indebolimento di Kiev, degli Usa, della Nato e della UE secondo modalità ormai sperimentate che finora erano rimaste al di qua dell’irreparabile e permettevano a Mosca di esercitare la propria “escalation dominance”. Per contro con Trump l’unica cosa garantita era il proseguimento dell’atteggiamento ostile verso la Russia, così scontato che Dmitri Medvedev, forse la persona più importante in Russia dopo Putin, ha dichiarato che per ripristinare normali relazioni con gli Stati Uniti ci vorranno decenni, addirittura chiedendosi se è davvero necessario farlo [2].
D’altra parte, se era stato Obama a iniziare il conflitto in Ucraina col golpe nazista della Maidan curato dalla sua plenipotenziaria Victoria Nuland, durante il suo primo mandato Trump aveva preparato l’esercito di Kiev all’invasione del Donbass e se possibile della Crimea, armandolo fino ai denti e riorganizzandolo, approfittando slealmente degli accordi di Minsk, e aveva sommerso la Russia di sanzioni come mai prima [3].
Infine nel gennaio del 2021 Biden andò alla Casa Bianca e nel dicembre del 2021 la Nato rifiutò di negoziare un’architettura di sicurezza europea indivisibile, come richiesto da Mosca. “Naturalmente rifiutammo” disse poi Jens Stoltenberg. A ragion veduta, perché la guerra era l’esito naturale di tutta la manovra statunitense, manovra iniziata coi Dem, portata avanti dai Rep e infine conclamata di nuovo coi Dem.
Ora, storicamente c’è una certa regolarità negli Usa: le guerre le iniziano i Dem e le concludono i Rep. Per un esempio recente, il ritiro dall’Afghanistan era stato deciso da Trump anche se poi fu eseguito da Biden. Che non si oppose nonostante le critiche e il caos in cui avvenne. Alcuni di noi si chiesero se quel ritiro fosse il preludio a un conflitto più importante in un altro quadrante, ad esempio in Siria o Ucraina. Eravamo ancora influenzati dagli accordi di Minsk II e i giravolta statunitensi erano difficili da interpretare. Dopo 20 anni di guerra il ritiro dall’Afghanistan aveva qualcosa di epocale, al di là della sua spettacolarità sottolineata dai media. Ma di sicuro non poteva essere solo un inchino alla tenace resistenza dei Talebani.
La fuga da Kabul fu comunque definita un “momento Saigon”. In Vietnam la storia però era stata diversa.
Il democratico Kennedy iniziò l’intervento in Vietnam, con qualche tentennamento. Dopo l’assassinio di JFK il democratico Johnson lo portò al suo apice nel 1969 schierando più di mezzo milione di soldati. Il suo successore, il repubblicano Nixon, ne uscì, non prima di aver tentato la classica linea “de-escalation through escalation”: dal 18 al 29 dicembre scatenò sulla regione di Hanoi i più massicci bombardamenti dalla II Guerra Mondiale per “costringere” il governo comunista a trattare (prendete nota dei termini che enfatizzo perché stanno riemergendo). In effetti il 2 gennaio del 1973 le trattative ripresero e il 9 fu firmata la pace tra Hanoi e Washington, in termini però favorevoli al governo del Nord. Il 30 aprile del 1975 le sue truppe infatti entrarono a Saigon e la guerra finì così come aveva sempre voluto il governo di Hanoi. L’escalation aveva portato alla de-escalation, o alla “pace con onore”, solo nominalmente e le foto della fuga da Saigon non salvarono di certo l’onore statunitense.
Nel febbraio del 1971 l’offensiva del Laos dell’esercito sudvietnamita, col supporto aereo degli Usa, era fallita con gravi perdite. Nel 1972 la “pace a portata di mano” aveva contribuito in modo determinante alla schiacciante vittoria elettorale di Nixon contro il democratico George McGovern.
Fermiamoci un attimo.
Nella Storia è sempre insidioso fare paragoni troppo stretti, però alcuni pattern ricorrenti si riscontrano, anche al di là dei più ampi corsi e ricorsi vichiani. Anzi, uno degli esercizi più necessari e proficui è separare ciò che si ripete da ciò che cambia, ciò che è invariante da ciò che varia (e dato che è scontato che ci siano le variazioni, ciò che è più difficile da capire è perché alcuni schemi si ripetono – una di quelle cose in cui la cosiddetta AI potrebbe dare una mano, visto che le sue tecnologie di base nascono proprio per questo – a patto di impostare le domande giuste e di leggere appropriatamente le risposte).
Quindi suggeriamo di rivedere in questa dinamica, invariante vs variante, la disastrosa “controffensiva” di Kiev del 2023, che ha segnato l’inizio della fine dell’esercito ucraino, e più recentemente la disastrosa invasione dell’oblast di Kursk, dove le ultime brigate ucraine di buon livello sono state immolate. Per nulla visto che ormai devono combattere per la pura sopravvivenza.
E come non paragonare l’importanza della “pace in 24 ore” per la vittoria di Trump con la “pace a portata di mano” per quella di Nixon? O l’idea di de-escalation through escalation (per ora economica) di Trump con quella (militare ma anche diplomatica verso Russia e Cina) di Nixon?
Cosa cambia in modo decisivo?
Nel 1971 il Nixon shock, cioè la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro in oro, e quindi il crollo di uno dei pilastri di Bretton Woods, fu la spia dell’inizio della crisi sistemica di cui oggi vediamo le fasi finali (che ripetono il pattern dei conflitti mondiali che sempre hanno contrassegnato queste crisi nella Storia). Allora gli Usa avevano però ancora una forte economia, una capacità di ricerca, sviluppo e applicazione senza paragoni, nessun Paese poteva considerarsi un vero “competitor”, anche perché le economie del “mondo libero” e del “mondo comunista” erano separate e i loro collegamenti erano controllati dalla politica. In realtà la fase di Ricostruzione aveva lasciato in eredità alla politica un ampio spazio d’intervento nell’economia anche nel “mondo libero” (economia mista, programmazione economica, controllo degli investimenti all’estero, eccetera). Uno scenario che si iniziò a smantellare con la reaganomics e la thatchernomics (in Europa la famosa crociera del panfilo Britannia del 1992 decretò la svolta definitiva e, politicamente, la fine della “Prima Repubblica” in Italia). Deindustrializzazione, privatizzazioni, deregolamentazione, finanziarizzazione e globalizzazione fornirono il succedaneo all’accumulazione “reale” tramite commercio e industria. Si investiva in ciò che già c’era (mergers and acquisitions) e i prodotti materiali venivano sostituiti dai “prodotti finanziari”, i “tangibles” dagli “intangibles” (con seguito di confusione nella “sinistra di classe”). Ma all’ombra della globalizzazione crescevano quei Paesi a cui l’Occidente aveva delegato la maggior parte di produzione materiale. Quelli grandi, geograficamente vasti, perché la dimensione conta, e – soprattutto – indipendenti politicamente da Washington (la Russia solo dopo l’avvento di Putin), divennero per gli Stati Uniti i suoi competitor strategici, da sconfiggere o contenere.
Ora gli Stati Uniti stanno capendo in Ucraina che una grande guerra ad armi combinate richiede i “tangibles” e non gli “intangibles”. Inoltre, le esperienze dei loro generali in Afghanistan e in Iraq, cioè contro formazioni di insorgenti e, rispettivamente, contro un esercito senza aviazione, di fatto senza contraerea e con carrarmati e artiglieria ferrivecchi, in un conflitto come quello ucraino non servono a nulla e i loro insegnamenti sono intangibles anch’essi, vanno bene per i videogames o i film hollywoodiani.
E senza questa capacità tangibile è impossibile imporre il proprio dominio sul resto del mondo.
In particolare non si può “imporre” alla Russia la pace.
Anche nel Vietnam Washington contava su un “congelamento” del conflitto e quindi il disimpegno Usa (“vietnamizzazione”). Non andò così, nonostante avessero di fronte un Paese tenacissimo ed eroico ma pur sempre immensamente più debole dell’attuale Federazione Russa.
Trump è avvolto in una situazione contraddittoria. Deve reindustrializzare gli Usa come ai tempi della sua gloria, ma per farlo gli occorrerebbe un Paese già reindustrializzato in grado di riportare la sua forza militare ai momenti della sua gloria e ben oltre. Perché ha di fronte competitor straordinari attorno ai quali si sta formando un “asse della resistenza economica” di grande rilevanza. Certamente gli Usa possono ancora dir la loro sulle relazioni finanziarie. Il Dollaro, checché se ne dica, è ben lontano dall’essere fuori gioco. E la loro economia ha ancora dei notevoli punti di forza materiali. Che più che nelle Big Tech, secondo l’analista militare statunitense Andrei Martyanov sono da vedere, ad esempio, nella capacità di produrre concentrati di altissima tecnologia come i sottomarini atomici classe Virginia. Gli Usa sono ancora importanti partner commerciali per il mondo, non solo per “costrizione” ma anche per “natura”. Ma sono in crisi e non hanno più un coniglio da tirar fuori dal cilindro come è stata la finanziarizzazione-globalizzazione a guida statunitense. Ha fatto il suo tempo economico e geopolitico.
Anzi, gli interessi finanziari – mastodontici – possono essere e saranno un ostacolo ai piani di Trump. A meno che mostrasse una reale possibilità di massicci investimenti (con significativo profitto) nell’economia reale, un’economia reale in cui però gli Usa non sono più leader.
All’indomani del primo mandato di Donald Trump, parlai di “presidenza modernariato” [4]. In realtà fu meno di così.
Inesperto, circondato da personaggi infidi, attaccato per 4 anni da un’inchiesta per l’inesistente “Russiagate” e con lo scacco ucraino che doveva ancora consumarsi, la prima presidenza Trump fu un patchwork senza disegno con ancora la prevalenza dei colori neo-liberal-con. Oggi potremmo essere di fronte a un secondo tentativo di presidenza modernariato. Piena di contraddizioni sarà una presidenza erratica.
A meno che riesca (Trump come Usa, non Trump come Donald) ad estrarre dal cilindro un coniglio inedito. Io non riesco a immaginarmelo, ma gli Stati Uniti sono indubitabilmente un grande Paese e possono sorprendere. Spero che non sia un coniglio distruttivo.
Per ora, con non celata costernazione, registro che il Senato ha confermato il guerrafondaio Marco Rubio come Segretario di Stato, con 99 voti a favore e 0 contro. Confermato quindi anche dal “socialista” Bernie Sanders.
Il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, ha dichiarato che «è necessario non indulgere in troppe aspettative su Trump».
Non solo su Trump.
Note
[1] Io tendo a chiamare il conflitto in Ucraina una “guerra”. Ma gli esperti fanno notare che se fosse una vera e propria guerra, le grandi città dell’Ucraina avrebbero già cessato di esistere. Quindi tecnicamente è un’operazione militare limitata, ad armi combinate. Mi rendo conto che il termine “operazione militare”, evitando il termine “guerra” viene incontro a necessità di rassicurazione del Cremlino. Tuttavia i resoconti di chi è stato in Russia parlano di una nazione che effettivamente non si sente in guerra. A ogni modo anche una guerra non totale, pur sempre guerra è. E in questo caso, molto sanguinosa. Quindi utilizzo la dicitura “operazione militare speciale” in senso tecnico e senza alcuna condiscendenza.
[2] https://t.me/pozivnoy_kazman/18153
[3] Nonostante le loro (criminali) dichiarazioni ex post, Merkel e Hollande a mio avviso nel 2015 speravano sinceramente che gli accordi di Minsk II avrebbero permesso di ricucire con la Russia. All’epoca il fatto che il “formato Normandia” – Russia, Ucraina, Francia e Germania – escludesse gli Usa e gli UK indusse molte supposizioni, tra cui la ridotta influenza degli Stati Uniti sulla politica europea. Un particolare indizio era l’esclusione degli UK che interrompeva la secolare voce in capitolo di Londra negli accordi di pace europei. Anch’io mi illusi, lo confesso. Ci sbagliavamo di grosso. Usa e UK nell’ombra avrebbero condizionato e poi stravolto gli accordi, spingendo verso la guerra con vari mezzi e ricatti. In Ucraina utilizzarono direttamente la formazione neonazista Pravy Sektor (settore destro) per minacciare di morte il neo-eletto presidente Zelensky se solo avesse avuto intenzione di implementare gli accordi.
Un campanello d’allarme suonò quando il governo britannico notificò l’attivazione della procedura di Brexit nel 2017. Molti allora esultarono vedendoci la prima incrinatura “popolare” della insopportabile UE. In pochi dicemmo “gatta geopolitica ci cova”. Ormai avevamo mangiato la foglia. Gli UK si stavano sganciando da un’Europa che stava per diventare l’agnello da sacrificare nello scontro con la Russia. Il non troppo sotterraneo endorsement della casa regnante avrebbe dovuto suggerire qualcosa. Ma la sinistra “di classe” preferì appiattire tutto sulla classica contraddizione “masse-capitale”.
[4] https://www.sinistrainrete.info/geopolitica/9054-piotr-america-anno-zero.html
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