FECERO UN DESERTO E LO CHIAMARONO “GRANDE ISRAELE” da MICROMEGA
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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FECERO UN DESERTO E LO CHIAMARONO “GRANDE ISRAELE” da MICROMEGA

Fecero un deserto e lo chiamarono “Grande Israele”

Da un anno Netanyahu sta sistematicamente portando avanti il suo progetto, nel quale non c’è nessuno spazio per uno Stato palestinese.

Cinzia Sciuto  03 Ottobre 2024

Pochi giorni fa alle Nazioni Unite il ministro degli esteri giordano Ayman Safadi, in risposta all’incendiario intervento di Netanyahu che aveva definito l’Onu una “palude antisemita” e ribadito che Israele è circondata da paesi che vogliono la sua distruzione, ha dichiarato: “Lo dico in maniera inequivocabile: noi membri del Comitato arabo musulmano dell’Onu, che rappresenta 57 paesi arabi e musulmani, noi tutti siamo disposti a garantire fin da ora la sicurezza di Israele nel quadro della fine dell’occupazione e di un impegno da parte di Israele a far nascere uno Stato palestinese indipendente”. Ma, ha aggiunto, Netanyahu, “sta creando questa situazione di pericolo semplicemente perché non vuole la soluzione dei due Stati.”

Che Netanyahu non voglia questa soluzione – che è l’unica che toglierebbe il terreno da sotto i piedi ad Hamas, a Hezbollah e pure all’Iran – non è certo una novità. Era il 22 settembre del 2023 (esattamente due settimane prima del 7 ottobre) e il primo ministro israeliano si presentò alla 78ma sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite con una cartina che mostrava il “Nuovo Medio Oriente” come lui lo sognava: un Israele circondato da paesi arabi con cui – dopo decenni di ostilità – si erano fatti degli accordi di pace che avrebbero garantito prosperità economica a tutta l’area. Di uno Stato palestinese in questa cartina non c’era neanche l’ombra, mentre i confini di Israele si estendevano a includere la Striscia di Gaza e la Cisgiordania.

Nel discorso che accompagnava questa cartina i palestinesi erano citati solo come un ostacolo da rimuovere: “Per lungo tempo si è detto che finché Israele non concludeva una pace con i palestinesi, non avrebbe potuto stringere accordi di pace e cooperazione con gli altri Stati arabi. Da tempo cerco di fare la pace con i palestinesi, ma penso che i palestinesi non debbano avere un diritto di veto sui trattati di pace con i paesi arabi”. La strada indicata era chiara: togliere ai palestinesi il sostegno di tutti i paesi arabi confinanti per costringerli ad accettare l’unica pace per lui possibile, quella che prevede un unico Stato dal fiume al mare: la Grande Israele.

La catastrofica débâcle dei sistemi di sicurezza israeliani il 7 ottobre 2023 ha parzialmente modificato i piani: l’obiettivo rimane la Grande Israele, ma adesso lo si persegue non più con le buone ma con le cattive. Si coglie l’occasione che Hamas (quanto intenzionalmente non è dato sapere) ha offerto su un piatto d’argento con l’osceno massacro di civili israeliani compiuto il 7 ottobre di un anno fa per fare piazza pulita dell’ipotesi di uno Stato palestinese, rioccupare Gaza, la Cisgiordania e forse un pezzetto di Libano. Le più di quarantamila vittime palestinesi, le circa duemila libanesi (nel giro di pochi giorni), persino le decine di ostaggi morti in questi mesi sono un fastidioso ma tutto sommato piccolo prezzo da pagare per raggiungere l’obiettivo. Quindi no, non è tecnicamente un genocidio perché lo sterminio dei palestinesi non è il fine ma il mezzo per ottenere il fine, che rimane quello della Grande Israele. Ma questa disputa terminologica (con un risvolto giudiziario che avrà il suo corso alla Corte di giustizia) non cambia la sostanza: ogni ostacolo nel cammino verso questo obiettivo verrà travolto in un crescendo di guerra di cui l’invasione del Libano è il più recente sviluppo e di cui non si vede la fine.

Questo è il piano di Netanyahu, che andrebbe fermato prima che sia troppo tardi (o è già troppo tardi?) attraverso l’unica strada percorribile: imponendo un cessate il fuoco immediato a Gaza (e in Libano), la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas, l’avvio di un percorso che porti alla fine dell’occupazione, al ripristino del diritto internazionale e al riconoscimento di uno Stato palestinese. A un anno dal 7 ottobre, questo è quello che dovremmo a tutte le vittime: quelle israeliane barbaramente massacrate da Hamas e quelle palestinesi (e oggi anche libanesi) coinvolte in una atroce punizione collettiva.

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