Delocalizzazione, precarietà e false sicurezze
di Ignazio MASULLI, da “il manifesto“, 28 febbraio 2018
Il gran daffare del ministro Calenda per la vicenda Whirlpool-Embraco è la regola o l’eccezione? Cosa si è fatto contro la delocalizzazione dall’Italia verso paesi a basso costo di manodopera?
La risposta, purtroppo, è semplice: poco o nulla.
Infatti dai primi anni ’90 ad oggi la delocalizzazione delle attività produttive dall’Italia è più che quintuplicata. Alla fine del 2016 la quantità degli investimenti diretti all’estero ha raggiunto il 25,5% del Pil. Il che equivale 2 milioni e 321mila posti di lavoro potenziali.
Questo è il risultato di una politica sostanzialmente neoliberista adottata, con poche varianti, dai governi che si sono succeduti negli ultimi 25 anni e che, anche nei casi migliori, si sono limitati a mere compensazioni a valle del fenomeno. E’ prevalsa la convinzione che non spetta al governo indicare ai detentori di capitale dove è preferibile investire, sia pure nell’interesse generale del paese e per un’auspicabile tenuta o aumento dell’occupazione. Il che equivale alla deliberata rinuncia ad una politica industriale.
Si è preferito, invece, battere la strada della cosiddetta flessibilità del lavoro, ovvero della sua crescente precarizzazione, per “favorire gli investimenti”. Così facendo si è, deliberatamente capovolto un principio elementare di politica economica, per cui, in fasi recessive o di stagnazione, occorre agire sul lato della domanda di lavoro da parte degli imprenditori e non su quello dell’offerta, ovvero delle condizioni poste alla forza lavoro disponibile.
Le leggi sul lavoro che si sono susseguite nell’ultimo ventennio sono lì a testimoniare la continuità di tale indirizzo (dal pacchetto Treu del 1997, al primo e secondo decreto Sacconi 2001-2011, passando per la legge Biagi del 2003 e culminando col Jobs Act).
Il risultato di questa “lunga marcia” della precarizzazione è rappresentata da record negativi come la cifra abnorme dei 133 milioni di voucher del 2016, nonché dal fatto che, contraddicendo in pieno le premesse, il Jobs Act ha portato al minimo storico dei lavori stabili, che oggi sono meno di un quarto del totale.
Un’analisi più dettagliata mostra che nei primi 11 mesi dell’anno scorso si è registrata un’ulteriore crescita dei lavori di breve durata, vale a dire rapporti a tempo determinato ed in somministrazione inferiori a 3 mesi, più quelli di lavoro intermittente e accessorio. Lavori che già nel 2016 avevano raggiunto la pesante incidenza di 4 milioni.
La precarietà del lavoro è l’aspetto certamente più grave, ma non isolabile, di un più generale deterioramento delle condizioni sociali che colpisce gran parte della popolazione. In questa situazione proprio le fasce più deboli ed esposte diventano facile preda della propaganda nazionalista e xenofoba. Una propaganda che dispensa false sicurezze ed indirizza malessere e rancore verso presunte minacce esterne.
È l’intreccio perverso, ma non casuale, tra questi due fattori a campeggiare nella scena politica italiana alla vigilia delle elezioni.
Ma è lo stesso intreccio dimostratosi determinante nella Brexit, nell’elezione di Trump, come nei consistenti avanzamenti delle destre nazionaliste e xenofobe in vari paesi europei, fino a renderle maggioritarie in Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Austria, Finlandia. Anche nei paesi in cui l’ascesa dei partiti di estrema destra è stata arginata, come in Danimarca, Olanda, Francia e Germania, essi hanno registrato crescite significative che proiettano minacciose ombre sullo scenario politico.
Tutto ciò ha già determinato un deciso spostamento a destra di tutto il baricentro politico nell’area euro-atlantica. È del tutto evidente che si tratta di un prezzo enorme e che ipoteca il futuro dei paesi occidentali. Spezzare l’intreccio tra arretramento sociale e propaganda xenofoba diventa, quindi, l’obiettivo principale delle lotte che ci attendono dopo il 4 marzo.
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