Autonomia differenziata e condizioni di lavoro
Approfondite analisi giuridiche ed economico-sociali hanno dimostrato come l’autonomia differenziata aggraverà il divario già esistente tra le regioni più ricche del Nord e quelle più svantaggiate del Sud. Infatti il criterio base dell’ennesima controriforma in arrivo è che ciascuna regione potrà trattenere un maggiore ammontare del gettito fiscale determinatosi sul proprio territorio e spenderlo per servizi pubblici destinati esclusivamente ai cittadini residenti in quella regione.
E’ facile comprendere gli effetti di maggiori diseguaglianze che si verificheranno in settori fondamentali dell’organizzazione sociale. Diseguaglianze che risulteranno tanto più amplificate in quanto accompagnate da un’ulteriore riduzione dei vincoli posti alle autonomie regionali.
Qui intendiamo sottolineare solo alcuni aspetti delle pesanti ripercussioni che si avrebbero sulle condizioni di lavoro e gli squilibri che già le caratterizzano in quegli stessi settori.
Da quanto previsto nelle bozze d’intesa, è evidente che verrà meno la parità di diritti dei cittadini italiani alla “tutela della salute” prevista dalla Costituzione. Le pur ampie autonomie delle regioni nella gestione della sanità saranno ulteriormente allargate nell’organizzazione della rete ospedaliera, selezione dei dirigenti, assistenza farmaceutica, nonché in materia di tariffe, rimborsi, e perfino retribuzioni. Sarà la fine anche del sistema nazionale dell’istruzione, giacché la regionalizzazione investirà scuole, dirigenti scolastici e insegnanti. Una recinzione simile si verificherà pure nella cura e valorizzazione dei beni culturali e ambientali. E’ prevista, inoltre, una specifica attribuzione di poteri sulla ricerca scientifica e tecnologica. Nuovi poteri saranno attribuiti alle regioni in materia urbanistica e di governo del territorio. Anche per quanto concerne il sistema dei trasporti, strade, autostrade, ferrovie, porti e aeroporti saranno gestiti, in varia misura, dalle regioni. Non bastasse, assisteremo alla regionalizzazione di buona parte del pubblico impiego, della tutela e sicurezza del lavoro, della previdenza integrativa, degli incentivi alle imprese.
E’ chiaro che tutto questo non potrà non ripercuotersi sulle prerogative e funzioni delle organizzazioni sindacali e sulla loro capacità contrattuale nella difesa dei diritti dei lavoratori.
Un colpo pesantissimo il sindacato lo riceverà, comunque, per il fatto che, a fronte di un’autonomia differenziata, in tutti i settori sopra indicati la definizione dei rapporti di lavoro, sia in termini normativi che retributivi, difficilmente potrà essere regolamentata dai contratti nazionali.
E si tratta di una conseguenza tutt’altro che casuale, Sappiamo bene che in tutto il quarantennio neoliberista i contratti nazionali sono stati il bersaglio principale di quanti, gruppi imprenditoriali e governi, hanno cercato di ridurre il potere contrattuale dei sindacati. Tutte le spinte verso la contrattazione aziendale hanno mirato costantemente a questo scopo. Si può partire dall’offensiva di Margareth Thatcher e degli altri governi conservatori in Europa, purtroppo passando anche per i vari Blair, Schröder e gli altri becchini della socialdemocrazia, fino ai loro emuli recenti, comprese le politiche del lavoro dei penultimi governi italiani.
Oggi una delle maggiori sfide del sindacato italiano e, in prima fila, della CGIL, è quella di opporsi con grande determinazione a questo ulteriore aggravamento degli squilibri e diseguaglianze del mondo del lavoro e della società italiana più in generale.
Tale fronte di lotta può risultare decisivo anche nel contrasto alla logica della società chiusa in cui ci stiamo ingabbiando. La sequenza è chiara: “prima gli italiani”, “prima i lombardo-veneti” o altri, “prima la mia città”, prima il mio quartiere” …e poi? Poi quali prospettive per un’organizzazione sociale ad imbuto?
(pubblicato su “il manifesto”, 6 marzo 2019)
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