UNA ESCALATION DI PULIZIA ETNICA da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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UNA ESCALATION DI PULIZIA ETNICA da IL MANIFESTO

Una escalation di pulizia etnica

La spoliazione per legge (con Israele che ripete «abbiamo un nostro sistema legale e la Corte internazionale di giustizia non deve intervenire») andrà avanti e altri palestinesi saranno da annoverarsi fra le vittime dirette dell’occupazione

Zvi Schuldiner  09.05.2021

A Gerusalemme gli scontri tra polizia e palestinesi sono andati avanti fino a mezzanotte di venerdì, non solo nel quartiere di Sheikh Jarrah ma anche sulla spianata della moschea di al-Aqsa. E la protesta è continuata nella notte e ieri.

La polizia israeliana, entrata anche nella moschea, parla di 17 agenti feriti negli scontri; fonti palestinesi riferiscono di 205 feriti fra i manifestanti, 88 dei quali hanno dovuto essere ricoverati in ospedale.

L’irruzione della polizia israeliana nella moschea ha scatenato forti reazioni da parte dei paesi arabi – Giordania, Qatar e altri -, e ha sollevato preoccupazioni anche a Washington e nelle capitali europee, che hanno chiesto moderazione a entrambe le parti. Le manifestazioni a Sheikh Jarrah sono significative perché l’espulsione «legale» di decine di famiglie palestinesi dalle case nelle quali hanno vissuto per decenni è la concretizzazione brutale dell’apartheid a Gerusalemme. E anche l’ingresso della polizia nella moschea, la mobilitazione dei circoli islamici e l’eco della vicenda a Gaza evidenziano il carattere esplosivo della situazione.

Il presidente palestinese Abu Mazen, circondato da una leadership problematica e in parte corrotta, non pensava di essere così impopolare e ha «scoperto» che se andasse alle elezioni le perderebbe a favore di Hamas o di esponenti dell’opposizione. Abu Mazen attribuisce a Israele la colpa della necessità di rinviare l’appuntamento elettorale.

Nel sud di Israele la tensione è già enorme. Hamas e Jihad islamica minacciano di riprendere il lancio di missili se Israele continua con l’ebraicizzazione di Gerusalemme. Egitto, Qatar e altri paesi cercano di neutralizzare le minacce. Nel frattempo i palestinesi lanciano palloncini incendiari, a mo’ di avvertimento.
Lunedì Israele celebrerà la giornata di Gerusalemme. In una città divisa da un muro invisibile ma molto reale, gli ultranazionalisti festeggeranno e l’estrema destra riprenderà le sue classiche manifestazioni. Come negli anni passati, la polizia non si impegnerà troppo per fermare gli estremisti che ripeteranno «morte agli arabi» e altri slogan, attaccando i palestinesi, ritenuti invariabilmente «sospetti».

Ma che cosa succede a Sheikh Jarrah? Con il conflitto del 1948, guerra di liberazione per gli israeliani e Nakba (catastrofe) per i palestinesi, Gerusalemme venne divisa. Di lì a poco, venne varata una delle prime – problematiche – leggi, quella sulle proprietà degli assenti, che conferiva a un’amministrazione il compito di gestire le proprietà in questione per un determinato periodo, alla fine del quale sarebbe avvenuta la restituzione ai proprietari legali. Nel 1953, la legge sull’espropriazione delle terre ribadì la condizione; i principali interessati (danneggiati) erano i palestinesi, presenti o assenti.

Specialmente in tre quartieri di Gerusalemme, Talbia, Baka’a e Katamon, si concentrano le proprietà lasciate dai palestinesi, in particolare dall’élite cristiana, al momento della fuga o dell’espulsione. Vicino alla residenza del presidente israeliano si trova la sontuosa villa dei Salameh. Questa famiglia palestinese greco-ortodossa, fra le più ricche del paese, fuggì all’inizio del 1948 ma affittò la villa al consolato belga che vi risiede tuttora. Il resto dei beni palestinesi passava nelle mani dell’amministrazione delle proprietà degli assenti, che man mano trasferiva case e palazzi agli israeliani. Inizialmente alcuni edifici venivano assegnati a famiglie israeliane che vivevano in modo molto modesto, ricevendo una o due stanze. Ma alla fine i poveri venivano cacciati e sontuose residenze passavano in mani private. Nessun palestinese oggi può rivendicare una proprietà confiscata.

A Gerusalemme Est, sono i giordani a rilevare le proprietà degli ebrei fuggiti, e ad affittarle a palestinesi. Dopo il 1967 si consente la restituzione degli immobili ai proprietari israeliani, ebrei. Diverse organizzazioni di estrema destra iniziano un lento lavoro di recupero dei beni, per l’ebraicizzazione di Gerusalemme. Le famiglie palestinesi, ricche o povere, cominciano a perdere le case in cui hanno vissuto per decenni a Sheik Jarrah, Silwan e altri quartieri.

Appoggiati da progressisti israeliani, i palestinesi hanno lottato a lungo invano nei tribunali. Adesso l’estrema destra è l’alleata dei coloni che hanno occupato gli edifici. Gli scontri saranno inevitabili. La spoliazione per legge (con Israele che ripete «abbiamo un nostro sistema legale e la Corte internazionale di giustizia non deve intervenire») andrà avanti e altri palestinesi saranno da annoverarsi fra le vittime dirette dell’occupazione. Netanyahu o il suo possibile successore dovranno affrontare una situazione di caos, fomentata non solo dagli estremisti di destra. Ecco all’opera il sistema legale dell’occupazione. Eventuali cambiamenti di governo non saranno una risposta sufficiente per contrastare l’operato di elementi razzisti e parafascisti, che lentamente ma inesorabilmente continuano la loro guerra contro la presenza palestinese. Nella città – nella quale il governo israeliano domani celebra il «giorno di Gerusalemme». E in tutto il Paese.

Su Gerusalemme la Ue si defila, gli Usa stavolta no: «Fermare gli sgomberi»

Palestina/Israele. Bruxelles chiede a entrambe le parti di «evitare un’escalation» in un confronto tra forze impari. La Casa bianca si rivolge a Tel Aviv: stop alla cacciata di famiglie palestinesi che vivono lì da generazioni. Pelosa la reazione delle cancellerie arabe

Chiara Cruciati  09.05.2021

C’è voluto un po’ di tempo prima che le cancellerie internazionali si accorgessero che a Gerusalemme stava accadendo qualcosa di più di quello che il mondo ormai associa ai Territori palestinesi occupati: tensioni, confische, scontri.

Una realtà che agli occhi esterni pare cristallizzata ma che è in graduale involuzione. Peggiora, sempre, con un unico punto fermo: il divario di diritti tra un popolo e un altro.

COSÌ, QUELLA CHE sembrava una confisca come un’altra, le case palestinesi di Sheikh Jarrah a favore del movimento dei coloni, ora preoccupa. L’allargamento repentino della protesta palestinese al cuore della città santa, la Spianata delle Moschee, ha svegliato dal torpore i governi arabi, seppure quel luogo sia da settimane – da quanto è iniziato il Ramadan – epicentro delle rivendicazioni palestinesi e della conseguente repressione israeliana. A stupire di più quindi non è la reazione giordana, iraniana o tunisina, ma quella che arriva da oltre oceano.

l presidente Biden si è finora mostrato apparentemente ondivago: non ha messo in discussione nessuna delle decisioni incendiarie del predecessore Trump (da Gerusalemme capitale israeliana alla sovranità sul Golan siriano occupato) ma ha anche fatto uno sgarbo al premier israeliano Netanyahu andando a cercare il dialogo con l’Iran, forse memore dei rapporti gelidi che Bibi ebbe con Obama.

Il suo Dipartimento di Stato, però, ieri ha usato parole che di solito l’amministrazione americana non utilizza. Nessun comunicato ufficiale, ma la portavoce del segretario di Stato Blinken ha espresso «grande preoccupazione» per le azioni israeliane e per «l’eventuale sgombero di famiglie palestinesi dai quartieri di Silwan e Sheikh Jarrah, molte delle quali vivono in quelle case da generazioni».

PAROLE CHE SEGUONO alla denuncia di diversi parlamentari progressisti americani, tra cui lo Squad team, le deputate Rashida Tlaib (palestinese), Ilhan Omar, Alexandra Ocasio-Cortez e Cori Bush. Giovedì hanno fatto appello all’amministrazione perché «riaffermi il diritto internazionale e chieda la fine degli sgomberi illegali israeliani di palestinesi, della demolizione di case palestinesi e del furto di terre palestinesi».

Ieri l’appello aveva già raccolto 12mila firme, mentre una lettera di deputati indirizzata a Blinken chiedeva di «esercitare pressione diplomatica» per impedire gli sgomberi e ribadire quel che il diritto internazionale già prevede: «Gerusalemme est è parte della Cisgiordania ed è sotto occupazione militare israeliana», realtà che rende «illegale la sua annessione» da parte di Tel Aviv.

NEGLI STATI UNITI il dibattito si allarga anche alla base, ai movimenti. E se la reazione del gruppo femminista e pacifista Code Pink era atteso vista la sua lunga storia a fianco dei palestinesi, indicativa è quella dell’associazione liberale ebrea (che si autodefinisce pro-Israele e pro-pace) che ha bollato come propaganda la definizione che il governo israeliano dà dello scontro a Sheikh Jarrah: «Una “disputa immobiliare” è un modo fondamentalmente inaccurato per dire espulsione forzata di famiglie palestinesi dalle loro case».

Un linguaggio diretto che qualcuno non riesce proprio a usare. L’Unione europea, ad esempio, congelata su una posizione super partes che, trattandosi di un conflitto ad armi affatto pari, finisce per tradursi nella tutela del più forte: «La violenza e l’incitamento sono inaccettabili e i perpetratori di ogni parte devono essere considerati responsabili – si legge in una nota dell’Alto rappresentante agli Affari esteri, giunta nel silenzio delle altre istituzioni – L’Ue chiede alle autorità di agire subito per calmare le tensioni a Gerusalemme».

Le due parti, il mantra che accompagna da decenni l’opaca posizione di Bruxelles, spogliandola di un ruolo prima equo, poi efficace in Medio Oriente.

E se l’Onu, custode di innumerevoli risoluzioni mai rispettate da Tel Aviv, chiede a Israele di fermare lo sgombero e gli ricorda che trasferire la propria popolazione (i coloni) nel territorio occupato è un crimine, molto più pelosa è la posizione dei governi regionali.

TUTTI UNITI NEL CORO di solidarietà ai palestinesi, quasi tutti impegnati in rapporti dietro le quinte o alla luce del sole (vedi Accordo di Abramo) con Israele. Perché la pace, per molte capitali arabe che sembrano riscoprire ora l’occupazione, non passa per le aspirazioni palestinesi, ma per i lucrosi affari con gli israeliani.

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