SE IL MARE NOSTRUM SCOMPARE DALL’AGENDA DI BRUXELLES da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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SE IL MARE NOSTRUM SCOMPARE DALL’AGENDA DI BRUXELLES da IL MANIFESTO

Se il Mare Nostrum scompare dall’agenda di Bruxelles

MEDITERRANEO. C’era una volta il Mediterraneo, culla di grandi civiltà, delle tre religioni monoteiste, centro dell’attività economica e commerciale del mondo conosciuto, dal tempo dei fenici-greci-romani-arabi fino alla fine del XV […]

Tonino Perna  14/04/2023

C’era una volta il Mediterraneo, culla di grandi civiltà, delle tre religioni monoteiste, centro dell’attività economica e commerciale del mondo conosciuto, dal tempo dei fenici-greci-romani-arabi fino alla fine del XV secolo. Poi, con la conquista dell’America, si spostano progressivamente i flussi commerciali dal Mediterraneo all’Atlantico, e dal continente americano arrivano oro e argento che costituivano allora la base reale della ricchezza di un paese, e si riduce progressivamente il ruolo del Mediterraneo, ma non scompare.

Ancora negli anni ’60 del secolo scorso i paesi che si affacciano nel bacino del Mediterraneo facevano parte dei paesi a reddito medio-basso, nella sponda sud-est, e a reddito medio alto nella sponda nord. Dopo la caduta del muro di Berlino e l’apertura cinese al mercato globale, l’asse del commercio e della finanza europea si sposta nuovamente verso i paesi dell’ex Urss e verso la Cina, all’interno di una rivoluzione geopolitica ed economica che vede l’asse centrale dell’economia mondo localizzarsi in Asia. Un cambiamento epocale paragonabile solo a quello avvenuto con la conquista delle Americhe. Solo che allora ci vollero secoli per consolidare questo cambio di rotta del mercato mondiale, oggi sono bastati pochi decenni.

Il progressivo impoverimento delle popolazioni della sponda sud-est del Mediterraneo è avvenuto già negli anni ’70 del secolo scorso, con una divaricazione crescente tra la sponda Nord e Sud-es. L’Ue, nata nel cuore del Mediterraneo con il Trattato di Roma del 1957, e due anni prima con la Carta di Messina, ha lasciato da tempo il mare nostrum come area di interesse economico e politico, abbandonando nell’emarginazione e crescente povertà le popolazioni nordafricane ed arabe. Fino alla “primavera araba” media e governi occidentali avevano ignorato l’impoverimento di queste popolazioni. Improvvisamente nel 2010 si accendono i fari su masse giovanili in piazza per chiedere più libertà e giustizia sociale, contro le rapaci élite, militari e civili, che divorano le ricchezze unitamente ai rapporti di scambio ineguali con i paesi occidentali.

Sappiamo come è andata a finire anche grazie all’ingerenza di potenze straniere comprese quelle europee. Libia e Siria, paesi relativamente ricchi e dove milioni di migranti del Sahel lavoravano, sono implose e vivono tuttora in uno stato di guerra permanente. Il Libano, la famosa Svizzera del Mediterraneo, è stato ridotto alla fame e il milione e mezzo di siriani che aveva ospitato sono oggi invisi e perseguitati. La Palestina è stata fatta a brandelli, ridotta ad un bantustan, dalla crescente tracotanza del governo israeliano che a sua volta attraversa una crisi democratica inedita. E adesso è arrivato il turno della Tunisia, l’unico paese a mantenere aperta una piccola luce sulla “primavera araba”, ormai entrato in una spirale autodistruttiva. E’ l’ennesimo paese dell’area mediterranea che implode

L’Unione europea si preoccupa dei suoi vicini di casa caduti nell’inferno? Pensa a sostenere economicamente e finanziariamente questi paesi, o pensa piuttosto a investire, come ha fatto con la Turchia, solo per creare un grande lager? Il governo Meloni vede nell’implosione della Tunisia un pericolo per l’Italia, con i principali mass media che ormai hanno lanciato l’allarme: l’invasione di milioni di migranti è alla porte di casa nostra!

Dopo il meeting di Barcellona del 1995, che pure aveva i suoi limiti neoliberisti, il Mediterraneo è scomparso dall’agenda europea, lasciando campo libero agli Usa, alla Russia, alla Cina e all’emergente politica espansionistica della Turchia del sultano Erdogan. In Italia, dopo decenni di convegni sul Mediterraneo, di evocazioni retoriche sull’Italia e la Sicilia centro e cuore pulsante di questo mare, abbiamo ricoperto l’importanza di alcuni di questi paesi solo adesso come fornitori di gas e petrolio. E questo, naturalmente, in linea con la transizione ecologica in salsa napoletana.

Nel 2022 cento milioni di sfollati Ma in Italia nessuna «invasione»

IL RAPPORTO DEL CENTRO ASTALLI. Lo scorso anno una persona ogni 77 è fuggita dal proprio Paese: 100 milioni di sfollati in tutto secondo dati dell’Unhcr, una cifra che in dieci anni è più che […]

Giulia D’Aleo  14/04/2023

Lo scorso anno una persona ogni 77 è fuggita dal proprio Paese: 100 milioni di sfollati in tutto secondo dati dell’Unhcr, una cifra che in dieci anni è più che raddoppiata. Di questi, però, solo 107.677 hanno attraversato il sistema di accoglienza nazionale italiano, in linea con la media degli ultimi anni. A tre giorni dalla dichiarazione dello stato di emergenza deliberato dal governo, i dati contenuti nel rapporto annuale 2023 del Centro Astalli per i Rifugiati mettono in evidenza come il persistere di una narrazione che tratti i flussi migratori come un fenomeno straordinario sia improprio oltre che controproducente. «Sono 40 anni che dobbiamo uscire dalla logica emergenziale – commenta il presidente della Cei Matteo Zuppi, intervenuto alla presentazione del rapporto a Roma -. Chiediamoci perché ci piace stare nell’emergenza».

I migranti arrivati via mare in Italia sono stati 105.129 in tutto, di cui 13.386 minori non accompagnati. Ma il 2022 è stato anche l’anno di 2.365 morti in mare e 1.568 dispersi nel Mediterraneo secondo l’Oim. Cifre che rischiano di aumentare per il «braccio di ferro del governo contro le Ong che si dedicano al salvataggio in mare» sottolinea il rapporto. «Oltre al fatto che quella che viene salvata dalle Ong è una percentuale minima di chi arriva – continua Zuppi -, credo che dopo Cutro dovremmo cercare di fare tutto il possibile per salvare vite. La preoccupazione del governo è che vi sia una connivenza con gli scafisti, ma sospettare dell’umanitario è inquinante e velenoso».

I respingimenti alle frontiere terrestri europee hanno interessato quasi seimila persone, il 12% delle quali sarebbero minori. «Non solo non abbiamo creato alternative, ma sempre di più ostacoliamo chi fugge – osserva padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli -. Molti migranti sono bloccati alle frontiere dell’Europa: in Libia, in Turchia, e ora ci prodighiamo perché questo avvenga anche in Tunisia. Siamo molto preoccupati per l’intenzione di restringere le maglie di alcuni permessi e di abrogarne altri».

Accanto alla privazione dei diritti e alla crisi climatica, i conflitti armati sono la causa principale delle migrazioni forzate: in cima alla classifica di chi scappa ci sono siriani, ucraini e afghani. «Non abbiamo di fronte persone irresponsabili, ma senza alternative» commenta padre Ripamonti. Nell’esperienza del Centro Astalli, però, «è come se ci fossero due percorsi paralleli: uno per gli ucraini e uno per tutti gli altri». I 170mila profughi ucraini arrivati in Italia hanno usufruito della protezione temporanea, di contributi economici e di un accesso facilitato al lavoro, nonostante equivalessero a quasi il doppio di tutti gli altri rifugiati messi assieme, a cui non sono state concesse le stesse possibilità. Misure che avrebbero potuto essere inserite in un percorso uniforme di accoglienza «sono state rese una tantum per rifugiati di serie A».

Gli altri si ritrovano inseriti in un sistema inadeguato che privilegia la permanenza nei Cas, strutture prive di servizi essenziali all’integrazione. In tanti poi rimangono intrappolati in un limbo giuridico: a Roma i tempi di attesa per il primo rilascio o il rinnovo dei permessi di soggiorno possono arrivare fino un anno, con pesanti ricadute sui percorsi di inclusione lavorativa e sociale. A ciò si aggiunge che per i rifugiati quello alla casa è un diritto ancora non esigibile.

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