REFERENDUM, SCONFITTA DI TUTTI: OCCHIO AL SILENZIO DEGLI ASSENTI da IL FATTO
Referendum, sconfitta di tutti: occhio al silenzio degli assenti
Stefano Fassina 12 Giugno 2025
Il passaggio referendario segna una sconfitta per tutti: per chi l’ha promosso; per chi l’ha sostenuto; per chi si appropria dell’astensione. I referendum non si promuovono per mettere un tema marginalizzato al centro dell’agenda politica, nonostante l’indiscussa rilevanza del tema: il lavoro. I referendum non sono neanche lo strumento per misurare il consenso dell’opposizione rispetto al governo in carica, nonostante consegnino dati politici inconfutabili. Infine, i referendum lontani dal quorum, data la stagione di patologica sfiducia nel voto, possono esaltare soltanto una destra che, comodamente assisa nel Palazzo, dismette il populismo aggressivo delle origini per cavalcare l’apatia politica, come sottolinea Carlo Galli. Insomma, alla luce dell’ennesimo giro di “crisi della democrazia”, sarebbe compito della classe dirigente politica avviare un percorso condiviso di riqualificazione dell’unico strumento di democrazia diretta agibile, ma al tempo stesso, rieducarsi al suo utilizzo costituzionalmente orientato.
Tuttavia, l’utilizzo improprio dell’istituto non fa perdere di significato al voto di 15 milioni di persone. Altrimenti, per coerenza logica, vacillerebbe la legittimità di presidenti di Regione e di Sindaci eletti da un’affluenza inferiore a quella di domenica e lunedì scorso. È dovere politico analizzare. Si trovano dati importanti.
Il primo: l’elettorato del Pd, grazie anche alla direzione di Elly Schlein, ha archiviato la stagione neo-liberale all’insegna della quale il Pd nacque al Lingotto ed ebbe con Matteo Renzi la massima espressione e, in fine, il minimo consenso. Non c’è stato soltanto il rigetto del Jobs Act. C’è stata la scelta di ritrovare nell’universo e negli interessi del lavoro l’identità di soggetto politico. Non è una vicenda soltanto di parte. È di interesse generale, poiché il Pd è stato decisivo a dare copertura politica e base elettorale all’agenda di svalutazione del lavoro attuata nell’insostenibile fase mercantilista, oramai chiusa dalle misure protettive di Trump-Biden-Trump. I sedicenti ‘riformisti’ nostrani e i loro sacerdoti della flexsecurity, oramai privi di referenti politici non residuali, dovrebbero prendere atto che la rivalutazione etica ed economica del lavoro, l’obiettivo dei quesiti dietro gli inevitabili tecnicismi, non è cedimento nostalgico o vendetta fuori tempo. È condizione per la svolta keynesiana dell’Europa verso il welfare e la pace, in alternativa all’economia di guerra lanciata a Bruxelles dai principali governi dell’Ue e dal comando Usa della Nato. Il voto dello scorso fine settimana, pertanto, conferma che, sul terreno economico-sociale, oltre che di politica internazionale dopo la straordinaria mobilitazione per la Palestina, si accorciano le distanze tra Pd, M5S e Avs e si consolidano le basi per una programma credibile e attrattivo. Ma senza il conflitto nei luoghi di lavoro, anche nei più impervi e ‘moderni’, è difficile fare passi avanti sul versante politico. Non è soltanto compito ineludibile dei sindacati. È una sfida anche per i partiti dell’area progressista.
Il secondo dato consegnato dal voto illumina le difficoltà, anche a chi le ha rimosse o le ha esorcizzate come posture razziste, prodotte dall’immigrazione senza adeguata integrazione. Nelle periferie delle grandi città, cala di oltre il 10% la presenza alle urne, ma raddoppiano le percentuali di no al quesito sui tempi per la cittadinanza: le condizioni materiali di vita segnano il comportamento elettorale. Forse, ora diventa chiaro che il radicalismo no border è elitario e anti-popolare. I 15 milioni di cittadini andati al seggio per 5 referendum sono patrimonio di speranza da coltivare con intelligenza politica. Con ancora più coraggio morale e intellettuale, va affrontato il silenzio degli assenti.
Vincere e vinceremo! Dai quesiti al mitico mandato “senza fine”
Silvia Truzzi 12 Giugno 2025
II livello delle analisi post voto spiega benissimo il baratro in cui siamo precipitati, un po’ come la circostanza che Pina Picierno possa fregiarsi del titolo di vicepresidente del Parlamento europeo. Prima reazione dell’esponente dem: “Una sconfitta profonda, seria, evitabile. Purtroppo un regalo enorme a Giorgia Meloni e alle destre. Fuori dalla nostra bolla c’è un Paese che vuole futuro e non rese di conti sul passato. Ora maturità, serietà e ascolto, evitando acrobazie assolutorie sui numeri”. Non una parola sull’oggetto del referendum, le uniche preoccupazioni sono la resa dei conti interna e il regalo alla Meloni. Il dibattito di questi giorni gira tutto attorno alle parole vittoria e sconfitta. Per i giornali della destra è la sconfitta di Landini, che avrebbe trasformato la consultazione in un referendum su di sé: sarebbe stato più appropriato che il segretario del maggiore sindacato italiano, promotore dei referendum, si astenesse dal fare campagna elettorale! La logica però difetta in molte altre analisi. Dalle parti del Pd pretendono di appropriarsi dei voti favorevoli e in generale dell’affluenza, agitandoli come bandiera dell’antimelonismo. Che poi si scopre, con un sondaggio di Swg per La7, che una buona fetta degli elettori del cosiddetto “campo largo” è rimasta a casa: nel rapporto affluenza/elettorato Avs è al primo posto, staccando di 4 punti percentuali (62% dei loro votanti) il Partito democratico, che si attesta al 58%, con il Movimento 5 Stelle al 48%. Comunque nel redde rationem che i riformisti del teatro Parenti si apprestano a chiedere dentro il partito, la segretaria farà bene a tenere presente che – nonostante i pensierini di commentatori dei giornali (si vince al centro!) e di qualche leader sfigato che arriva sì e no al 3% – 15 milioni di italiani sono andati alle urne per affermare che bisogna cambiare le politiche sul lavoro.
L’altro grande sconfitto, leggendo i giornali, sarebbe il campo largo, anzi non sconfitto proprio “morto”: eppure abbiamo appena avuto un turno di amministrative in cui sembra che l’unità sia una scelta premiante. “Il campo largo, se mai fosse nato, oggi è definitivamente morto, la campagna di odio ha schifato gli elettori”. Il presidente del Senato Ignazio Benito Maria La Russa, ospite in tv, se la prende con il Pd che “ha pensato di far spendere milioni allo Stato per vedere se aveva ragione la Schlein o i suoi oppositori”. Dunque, la seconda carica dello Stato, dopo aver promosso l’astensione, spiega che una consultazione popolare è una spesa inutile: alto senso delle istituzioni e grande considerazione per le pratiche democratiche. I giornali intanto danno conto del resuscitato dibattito sul terzo mandato per i presidenti di Regione, partita che sembrava definitivamente chiusa ma è stata riaperta dal Fratello d’Italia Giovanni Donzelli, che ha reso pubblica una disponibilità a discuterne in vista delle Regionali d’autunno (si vota in cinque Regioni: Campania, Puglia, Marche, Veneto e Toscana). Al di là del fatto che per Zaia sarebbe il quarto mandato, la questione non incontra il favore di Forza Italia. Ieri Tajani ha rilasciato dichiarazioni spropositate: “Ritengo che due mandati siano sufficienti perché non servono incrostazioni di potere. Non è una questione di volontà popolare, anche Mussolini e Hitler hanno vinto le elezioni”. Noi sul merito siamo d’accordissimo, ma il problema è il movente (di tutti). Si torna a parlare di terzo mandato perché un quarto d’ora dopo l’esito dei referendum, l’attenzione si è spostata sulla prossima scadenza elettorale. Il che ci spiega che ai partiti importa solo ed esclusivamente delle loro piccole convenienze, a prescindere da quel che c’è sul tavolo. Poi si stupiscono che la gente non va più a votare. Si potrebbe, per rendere più seria questa squalificata classe politica, mettere un quorum alle elezioni (disclaimer: è una provocazione).
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