RADICALE DEVASTAZIONE E ANNIENTAMENTO da IL MANIFESTO
La routine malata della barbarie scelta dal governo di Israele
Israele/Palestina. Sinwar, leader di Hamas, ha bisogno degli ostaggi per non essere ucciso. E Netanyahu, grande leader di Israele, ha bisogno che la guerra prosegua per evitare la fine del suo regno. I negoziati continuano, ma il dilemma permane. È doloroso immaginare che poche decine di persone siano ancora vive e che poche potranno forse essere liberate
Zvi Schuldiner 31/08/2024
In un’intervista al quotidiano israeliano Haaretz, Borrell ha dichiarato «L’assedio a Gaza e la repressione in Cisgiordania non vi garantiranno maggiore sicurezza».
Tutto sembra in fiamme. Gli israeliani si stanno abituando a una routine malata, ritengono necessario prendere precauzioni, perché non si sa se stanotte la nostra potente forza aerea dovrà difenderci da un possibile attacco di Hezbollah nel nord o se il disastro negoziale porterà a un allargamento della guerra, a un possibile attacco iraniano e alla nostra difesa, condotta non solo dai nostri eccellenti piloti ma anche dagli statunitensi, forse dai francesi, con un po’ di fortuna dagli inglesi e – in segreto – dai giordani, oltre ad altri candidati a proteggerci per impedire un nuovo Olocausto.
QUALCHE SETTIMANA FA, uno dei lavoratori palestinesi del supermercato mi ha detto che non capiva perché l’attacco non fosse ancora arrivato, e che molti prodotti erano finiti proprio in previsione di questa escalation. Quando a un’amica collocata moderatamente a sinistra ho spiegato che secondo non pochi patrioti noi avremmo anche il diritto di sodomizzare i nostri prigionieri, e che si sta diffondendo il sostegno a questo nazismo ebraico, ho ottenuto una risposta piena di indignazione: «È inaccettabile che tu parli così; mia madre veniva dall’Ungheria e aveva perso tutta la sua famiglia». Un’estranea che aveva ascoltato le ha dato ragione urlando. Del resto, un caro amico del manifesto mi suggerisce sempre di evitare quel termine che provoca critiche giustificate.
A dire il vero, anche la mia defunta compagna parlava spesso della famiglia ungherese di sua madre; ma si concentrava sul nonno, un ebreo religioso che i suoi otto figli non riuscirono a convincere alla fuga. Prima di morire ad Auschwitz fece promettere a un giovane prigioniero che se si fosse salvato avrebbe predicato a tutto il mondo la necessità di combattere il nazismo. L’impegno pacifista della nipote, lungo tutta una vita, fu il frutto dell’eredità spirituale di quell’uomo liquidato nel campo di concentramento.
ALL’INIZIO DELLA GUERRA, con l’avvio del «grande castigo» e l’invasione della striscia di Gaza da parte dell’esercito israeliano, il dialogo politico si concentrava sull’attacco di Hamas il 7 ottobre, sugli orrori e la barbarie. Per molti anni ho lavorato nel sud del paese, in un college che distava solo tre o quattro chilometri dal confine. Quel giorno sono stati uccisi non pochi dei miei amici più stretti, dei miei colleghi, dei miei studenti. Mi sono spesso ritrovato a sperare che le mie amiche siano morte per un colpo di pistola, senza essere stuprate, o torturate o fatte a pezzi.
La barbarie di quell’attacco ha generato un dilemma: rispondere allo stesso modo o cercare altre vie? La maggioranza ha scelto la barbarie, avviando un terribile capitolo di sangue e distruzione. Siamo tuttora immersi in questo pantano fetido. I negoziati per il rilascio dei 108 ostaggi israeliani in mano ad Hamas continuano, ma il dilemma permane. È molto doloroso immaginare che poche decine di persone siano ancora vive e che poche potranno eventualmente essere liberate, a prezzo della vita di altri soldati.
Così come è abbastanza sicuro che Yahya Sinwar, leader di Hamas, ha bisogno di alcune decine di prigionieri israeliani per evitare di essere ucciso, è certo che Benyamin Netanyahu, grande leader di Israele, ha bisogno che la guerra vada avanti per evitare la fine del proprio regno. Quando in questi giorni il ministro della giustizia, Yariv Gideon Levin, l’architetto delle riforme che il governo aveva voluto introdurre prima della guerra, rinnova i propri attacchi ai giudici della Corte Suprema, non si tratta solo di difendere le riforme stesse: il politico vorrebbe neutralizzare in anticipo il lavoro di una Commissione di inchiesta nella quale molti sperano e che potrebbe portare alla fine della carriera di Netanyahu.
SULLA SITUAZIONE in Cisgiordania stiamo assistendo anche a un conflitto interno al sistema: i potenti e riveriti servizi segreti israeliani avvertono che le azioni dell’estrema destra, e soprattutto i pericolosi atti e le focose dichiarazioni del ministro della polizia Itamar Ben Gvir, potrebbero sfociare in una guerra cruenta. E il generale a capo della regione centrale continua a denunciare gli abusi perpetrati dall’estrema destra nei territori occupati. Naturalmente l’esercito si esprime anche in altro modo, ad esempio mandando gli aerei da guerra a liquidare i palestinesi presunti leader di possibili attacchi terroristici contro Israele.
L’ininterrotta tragedia di questa guerra che tra poco compirà un anno va analizzata non solo nel quadro del conflitto israelo-palestinese ma anche nel contesto della regione, molto mutevole.
La rivoluzione iraniana del 1979 cambiò la situazione. Il lungo e sanguinoso conflitto con l’Iraq fu un chiaro segnale dei cambiamenti futuri. L’Unione sovietica stava perdendo il proprio vantaggio nella regione e gli statunitensi sembravano averla abbandonata. Ma sono ricomparsi con enorme forza, anche per contrastare il ruolo della Cina nell’arena globale.
L’OLOCAUSTO, che era un fattore importante nella posizione di Israele, assume un altro significato in questo tempo. Gli europei si erano un po’ dimenticati di essere un’entità indipendente, non un’appendice del potere statunitense, ma cominciano a rispolverare la formula dei due Stati; e quando Borrell parla, gli israeliani possono sì continuare a criticarlo, ma non pochi cominciano ad abituarsi a un’altra possibile musica nelle relazioni israelo-palestinesi.
Una lettrice ha scritto giustamente che mi sono riferito all’imperialismo in modo sbagliato. È probabile che il mio riferimento agli Stati uniti in termini di potenza imperiale sia eccessivamente semplicistico, ma bisogna capire che in questo capitolo del sanguinoso processo che stiamo vivendo, il ruolo che assumeranno sarà un fattore di capitale importanza nel determinare l’uno o l’altro dei due scenari possibili nei prossimi anni. Più guerre. Oppure meno sangue.
Radicale devastazione e annientamento
DIVANO. La rubrica settimanale di arte e società. A cura di Alberto Olivetti
Alberto Olivetti 15/03/2024
Passano come acqua sul vetro le riprese girate tra le macerie di città distrutte. Informazioni dell’ultim’ora e aggiornamenti delle distruzioni che sono in corso, mentre le immagini scorrono sui nostri schermi televisivi, e che i responsabili non intendono, anzi dichiarano solennemente di voler portare fino all’esito estremo del completo radere al suolo.
Questo il programma degli stati maggiori: radere al suolo le città e sterminare i loro abitanti. Ecco i fotogrammi di bambini, donne e uomini che si aggirano tra le demolizioni. Intorno i fornelli contorti di cucine esplose, i letti bruciati, le sedie e i tavoli in pezzi ridotti a legna da ardere, per dare caldo ed esigua luce stanotte, all’addiaccio, ai pochi superstiti scampati al crollo del loro palazzo, ora ridotto in macerie fumanti sopra i tanti morti sepolti e i pochi, forse, vivi ancora e senza scampo, chiusi nel pietrame: spose, fanciulli. I padri, e i vecchi.
I corpi dilaniati dalle stragi feroci, un giorno via l’altro, proiettati nel tinello di casa nostra scorrono come acqua sul vetro, non lasciano traccia. Le devastazioni e i morti si confondono con la pubblicità che segue e promuove acquisti che ci assicurano un perfetto benessere casalingo: le poltrone e i sofà; il forno a microonde; il materasso anatomico; il profumo che, per una modica spesa, diffonde un sentore di aria di montagna, e per molte ore, tra la doccia e il bidè.
Radere al suolo le città e sterminare gli abitanti inermi: niente di nuovo. Una strategia di guerra costantemente applicata e con l’arma aerea poi, da cent’anni in qua, perseguita con inflessibile determinazione ed eccellenti risultati. Mi limito ad alcuni nomi Guernica, Varsavia, Belgrado, Rotterdam, Stalingrado e Norimberga, Colonia, Amburgo, Dresda. E Hiroshima, e Nagasaki. Non continuo l’elenco. I nomi delle città bombardate in queste ore sono da mesi nei titoli dei quotidiani e dei notiziari.
La risoluzione di sganciare bombe a tappeto sulle città tedesche fu prospettata fin dal 1941 da Winston Churchill a Lord Beaverbrook in questi termini: «un attacco mirante a radicale devastazione e annientamento, da attuarsi con bombardieri pesanti diretti dal nostro paese verso la patria del nazismo».
Radicale devastazione e annientamento. Wilfred Georg Sebald (1944-2001) in Luftkrieg und Literatur (traduzione italiana Storia naturale della distruzione, Adelphi, 2004) scrive che la Royal Air Force «sganciò sul territorio nemico un milione di tonnellate di bombe in quattrocentomila incursioni, delle centotrentuno città attaccate parecchie vennero quasi interamente rase al suolo, fra i civili seicentomila vittime, tre milioni e mezzo di alloggi distrutti, sette milioni e mezzo i senzatetto, ogni abitante di Colonia ebbe 31,4 metri cubi di macerie, e 42,8 ogni abitante di Dresda».
Del resto, Sebald riporta anche quanto racconta l’architetto Albert Speer nelle sue Erinnerungen (traduzione italiana Memorie del Terzo Reich, Mondadori, 1995) quando, ministro degli Armamenti nel 1940, Hitler gli dice: «Ha mai dato uno sguardo a una carta di Londra? Le case sono così fitte che basterebbe il focolaio di un solo incendio per distruggere l’intera città. Göring, gettando un gran numero di bombe incendiarie di nuovissima fabbricazione, creerà focolai di incendi nei più diversi quartieri di Londra; ovunque focolai di incendi. A migliaia. Che poi si fonderanno in un immenso mare di fuoco.
Questa di Göring è l’unica idea giusta, le bombe dirompenti non servono, ma con le bombe incendiarie lo si può invece fare: distruggere totalmente Londra! Cosa potranno mai concludere quelli, con i loro servizi antincendio, una volta scatenata una simile offensiva?». Distruggere totalmente.
Nato da una serie di conferenze che Sebald tenne a Zurigo nel 1997, Storia naturale della distruzione è una lettura che contribuisce come poche altre a far capire, a intendere e decifrare – non, semplicemente, a ricevere in sequenze che corrono via – le immagini delle attuali devastazioni. Sebald si è interrogato qui sulle conseguenze profonde e nascoste (permanenze e rimozioni, oblio e memoria) da tanto orrore depositate nelle generazioni lungo i decenni successivi.
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