POLITICA SORDA? REFERENDUM! da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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POLITICA SORDA? REFERENDUM! da IL MANIFESTO

Eutanasia legale e non solo. Quesiti per la vita del Paese

In nome del popolo sovrano. La Carta costituzionale ricorda che l’inammissibilità dei referendum è l’eccezione che conferma la regola

Filomena Gallo  11.02.2022

Il «popolo sovrano» può farsi legislatore, uno dei lasciti più politicamente significativi della nostra Costituzione che fu pensato per creare un contrappeso all’iperazione – o inazione – di Parlamento o Governo su determinate questioni.

L’aver previsto questo istituto di democrazia diretta ha posto l’Italia all’avanguardia tre le democrazie nella partecipazione popolare del governo del Paese, la storia della Repubblica ci ricorda che importanti conquiste sociali e di libertà come divorzio e aborto sono state confermate per via referendaria, mentre altre riforme strutturali, quasi sempre grazie alla leadership di Marco Pannella, sono state conseguite grazie al ricorso referendario. Una, nel 1993, anche sugli stupefacenti.

Il referendum è fondamentale per esercitare la nostra sovranità, la sua natura di attivatore della democrazia è annunciata già dall’articolo 1 della Costituzione che stabilisce che «la sovranità appartiene al popolo che la esercita nei modi e nei limiti della Costituzione». L’esordio della nostra Carta è la lente attraverso cui va letta la portata dello strumento referendario codificato poi all’articolo 75.

Tra gli otto quesiti su cui la Corte costituzionale si pronuncerà a seguito di udienza del 15 febbraio ce n’è uno che riguarda una parziale modifica dell’articolo 579 del codice penale, il cosiddetto «omicidio del consenziente», promosso dall’Associazione Luca Coscioni. In quello stesso giorno, dopo anni di tentennamenti, false partenze, rinvii, polemiche o ingerenze di ogni tipo, l’Aula della Camera discuterà una norma sul fine vita. Una legge che però non affronta quanto previsto dal referendum e che, allo stato attuale, non rispecchia neanche quanto previsto dalla sentenza Cappato-Antoniani emanata dalla Consulta nel 2019.

La forza modificativa del referendum si esplica tramite l’abrogazione di una o più disposizioni vigenti escludendo “creazione” normativa. Il quesito che abbiamo chiamato «Eutanasia legale» su cui sono state raccolte oltre 1.240.000 firme è stato predisposto tenendo conto dei rilievi della Corte costituzionale sul tema del fine vita e mantenendo tutte le tutele verso le persone vulnerabili, lasciando intatta quella che alcuni hanno chiamato «tutela minima» della vita che deve essere tutela massima se non è scelta consapevole della persona. Si abroga solo parzialmente l’articolo 579 del codice penale.

Da quando ormai quattro anni fa Marco Cappato accompagnò Fabiano Antoniani in Svizzera per ottenere il suicidio assistito, l’Italia ha finalmente affrontato il tema del fine vita che per anni era restato un tabù, anche grazie a lui abbiamo una legge sul cosiddetto «testamento biologico». Il clamore della richiesta di eutanasia di Piergiorgio Welby, che tanto mosse anche il Presidente Napolitano nel 2006, fu velocemente silenziato anche a causa della scarsa propensione dei media, in particolare della TV, ad affrontare laicamente i temi che attengono all’autodeterminazione personale in momenti drammatici delle nostre esistenze.

Si spettacolarizza il dolore fine a se stesso per commuovere l’audience senza approfondire cause o rimedi che potrebbero suscitare reazioni civiche riformatrici.

Il referendum ha la funzione di garantire la costante rispondenza della legislazione nazionale agli interessi e alle necessità della collettività – fungendo da strumento di controllo sulle disfunzioni legislative del Parlamento e da contrappeso all’arbitrio delle maggioranze – e di tutelare il pluralismo di forze politiche e sociali che si adoperano per non convivere con decisioni spesso liberticide. Nel 2021, caso pressoché unico nel mondo democratico, l’Italia ha consentito anche la raccolta di firme per via digitale; la prima raccolta è avvenuta per il referendum sull’eutanasia e, anche se lanciata il 12 agosto e senza particolare visibilità, sono arrivate oltre 400.000 firme in un paio di settimane!

Parte della dottrina costituzionalistica sostiene che l’esito del referendum dovrebbe avere garanzie che tutelino la volontà popolare, quantomeno in merito all’oggetto del quesito, tenendo al riparo il risultato da interventi volti ad annullarlo. La Costituzione ricorda che l’inammissibilità dei referendum è l’eccezione che conferma la regola.

Le dinamiche parlamentari relative alla legge Zan, al suicidio assistito e da ultimo le schermaglie sull’elezione del Presidente della Repubblica segnalano una crisi istituzionale che ha messo in dubbio la credibilità delle Camere. La stagione referendaria diventa quindi centrale per riaccendere il dibattito pubblico e la partecipazione popolare alla vita del Paese. Partire dalla possibilità di scegliere di porre fine alla propria vita non è necessariamente incoerente con questo stato di cose.

Le ragioni che il Parlamento non vuole ascoltare

In nome del popolo sovrano. Il referendum sulla cannabis si avvale della forte spinta sociale per un nuovo approccio di politica delle droghe

Grazia Zuffa  11.02.2022

Il referendum sulla cannabis si avvale della forte spinta sociale per un nuovo approccio di politica delle droghe: con buona pace di chi ha criticato la «democrazia del click», il raggiungimento del quorum delle 500 mila firme in pochi giorni testimonia da sé la sensibilità politica sul tema. L’urgenza di una modifica legislativa scaturisce dal contrasto fra la crescente accettazione sociale dell’uso di cannabis (legata alla percezione diffusa di poter adottare modelli “controllati” d’uso) da un lato, e dall’altro la penalità forte e indiscriminata della normativa antidroga che il referendum del 1993 ha mitigato solo in parte.

Quanto all’intervento della Corte Costituzionale del 2014 che ha abrogato buona parte della Fini-Giovanardi, esso ha fortunatamente ristabilito la distinzione nel trattamento penale fra droghe pesanti e leggere: un buon auspicio per il referendum oggi in campo, che si colloca sulla scia di quel pronunciamento, per distinguere ulteriormente i rischi delle diverse sostanze psicoattive.

Alla base delle modifiche referendarie è il bilanciamento fra il (basso) rischio per la salute della cannabis e i danni acclarati di una penalità forte e indiscriminata, che nasce dall’impianto stesso della legge. Questa accomuna una pluralità di condotte illecite di diverso rilievo che si “appoggiano” sul semplice possesso di sostanza. Con ciò la repressione punta “al basso”: consumatori e piccoli spacciatori (perlopiù della sostanza meno pericolosa, la cannabis) sono i soggetti privilegiati nel mirino dei tutori della legge: per loro la giustizia è veloce, con condanne sicure e il carcere come destinazione preferita.

Tale giudizio si basa sul monitoraggio della legislazione antidroga, condotto da un pull di Ong che ogni anno redigono i Libri Bianchi. Il XII Libro Bianco 2021 bene documenta la centralità della droga nell’attività della giustizia e delle forze dell’ordine: 235.174 procedimenti penali pendenti nel 2020, il dato più alto da 15 anni a questa parte; il 30, 8% degli ingressi in carcere avviene per violazione dell’art.73 del Testo Unico sulle droghe. Non possiamo sapere quanti di questi ingressi riguardino la cannabis poiché i dati ufficiali non registrano le differenze fra le sostanze: questa assenza è di per sé sintomo di un preciso approccio ideologico e culturale, di indistinta «lotta alla droga», al singolare.

Un indizio della sproporzionata pressione sulla cannabis proviene dai dati circa le segnalazioni e le sanzioni amministrative: delle 31.000 segnalazioni nel 2020 – cifra ragguardevole specie se si considera che il 2020 è stato l’anno del lockdown – il 74,4% ha riguardato la cannabis. Dal 1990, un milione e trecentomila persone sono state segnalate per possesso di sostanze a uso personale, di cui quasi un milione (il 73,2%) per cannabis. Un bell’esempio di repressione verso i “pesci piccoli” è rappresentato dall’incriminazione di molti cannabisti «del balcone di casa».

La maturazione sociale sulla questione cannabis è stata accompagnata da un vasto movimento, di portata internazionale. Il conflitto fra i tough on drugs e i sostenitori delle mild policies si è consumato principalmente sul trattamento penale e sulla visione culturale della cannabis, negando da parte dei primi che si potesse parlare di «droghe leggere». Non a caso l’allora vice premier Giancarlo Fini, nel 2003, scelse Vienna, sede del governo Onu delle droghe, per annunciare la svolta repressiva al grido di «la droga è droga». In seguito, i referendum in 19 stati Usa hanno invertita la rotta, la cannabis è depenalizzata in molti stati europei e legalizzata in Canada e Uruguay.

In Italia, la battaglia per decriminalizzare la cannabis (e depenalizzare il consumo di tutte le droghe) è stata condotta avendo come primo interlocutore il parlamento: una larga coalizione di Ong, fra cui quelle promotrici del referendum, si è cimentata nella stesura di proposte di legge in accordo con parlamentari disponibili a presentarle. Sono state raccolte le firme anche per una legge di iniziativa popolare. Solo che il parlamento non ha dato risposte. Se è vero che il referendum nasce in sinergia con l’iniziativa verso il parlamento, la vittoria potrebbe essere decisiva anche per vincere l’inerzia parlamentare.

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