L’ANNUNCIO: È TREGUA A GAZA da IL MANIFESTO
L’annuncio: è tregua a Gaza
Alla fine L’accordo tra Hamas e Israele è stato raggiunto a Doha. Intesa in tre fasi, scambio tra ostaggi e prigionieri a partire da domenica
Michele Giorgio 16/01/2025
Domenica 19 gennaio avrà inizio la tregua a Gaza tra Israele e Hamas. La notizia attesa per 15 mesi è stata data ieri sera dal primo ministro del Qatar, Mohammed Al Thani. Il massacro quotidiano di decine di civili, continuato anche ieri, sta per terminare. È ciò che hanno pensato subito i palestinesi di Gaza che avevano dato sfogo alla loro gioia già nel pomeriggio quando i media di tutto il mondo hanno cominciato a diffondere i particolari dell’accordo raggiunto a Doha. Se l’offensiva israeliana che ha ucciso decine di migliaia di palestinesi sia davvero terminata è presto per affermarlo con certezza. La cautela è d’obbligo. Non vanno sottovalutati i giorni delicati che mancano al 19 gennaio. Abu Odeida, portavoce dell’ala militare di Hamas, ha proclamato l’interruzione degli attacchi, ma cosa farà l’esercito israeliano nelle prossime 72 ore è un grosso interrogativo. Benyamin Netanyahu peraltro ha ripetuto, anche negli ultimi giorni, che gli attacchi riprenderanno alla scadenza del cessate il fuoco allo scopo di distruggere totalmente Hamas.
POTREBBE PESARE l’idea dei dirigenti israeliani secondo la quale la guerra non avrebbe provocato danni così gravi nella Striscia e ucciso tanti palestinesi (almeno 48mila). Parlando a Rai 1, il ministro degli esteri Gideon Saar ha negato che la reazione israeliana contro Gaza dopo all’attacco di Hamas il 7 ottobre 2023 sia stata «eccessiva» e che ci siano stati troppi morti. «In guerra ci sono sempre le tragedie, la morte di persone che non sono coinvolte» ha detto Saar, aggiungendo che Israele «ha fatto tutto secondo il diritto internazionale».
Proprio l’improvvisa partenza di Saar per Israele durante la sua visita in Italia, ha confermato che l’accordo era ormai fatto. Il ministro degli esteri oggi si riunirà con gli altri membri del governo e del gabinetto di sicurezza, per approvarlo. I ministri dell’estrema destra Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich ieri erano ancora incerti su come votare dopo aver bocciato l’accordo. Potrebbero astenersi e non opporsi a un patto che prevede il ritorno a casa degli ostaggi ancora vivi e che è sostenuto dalla maggioranza degli israeliani. Il mal di pancia della destra estrema è aggravato dalla scarcerazione di 1.000 prigionieri palestinesi, tra cui almeno 250 condannati all’ergastolo. Ma tornare alle urne è una prospettiva che piace poco ai partiti della maggioranza. Ben Gvir e Smotrich se da un lato minacciano di far cadere il governo, dall’altro non vogliono lasciare la loro poltrona ora che potrebbero ottenere l’annessione della Cisgiordania a Israele grazie al ritorno alla Casa Bianca dell’alleato Trump.
Mentre ieri si attendeva la conferenza stampa del primo ministro del Qatar, incaricato di annunciare la tregua, pesavano ancora sull’intesa raggiunta la verifica da parte di Israele dei detenuti palestinesi che saranno rilasciati. In gran parte sarebbero abitanti di Gaza imprigionati dopo il 7 ottobre 2023. Hamas avrebbe accettato che i condannati all’ergastolo da liberare siano deportati in un paese terzo concordato. Secondo l’ufficio di Netanyahu, il premier avrebbe «respinto con successo» il «tentativo estremo di Hamas di ottenere il ritiro di Israele dal Corridoio Filadelfia», i 12 km di terra che dividono Gaza dall’Egitto occupati da Tel Aviv.
INNUMEREVOLI le reazioni internazionali. Da segnalare quella di Donald Trump che si è attribuito il merito dell’accordo: sarebbe avvenuto, ha detto, grazie alla sua elezione a presidente. L’intesa è in tre fasi, le prime due da 42 giorni ciascuna, con il cessate il fuoco e il rilascio già il primo giorno di tre dei 98 ostaggi (81 uomini e 13 donne, due hanno meno di 5 anni tra cui i fratelli Bibas, la cui sorte è sconosciuta. 84 sono israeliani, otto thailandesi, uno è nepalese e uno tanzaniano). Altri 33 ostaggi (bambini, donne, anziani e malati) saranno liberati da Hamas gradualmente: 4 torneranno a casa una settimana dopo, altri tre in quella successiva e altrettanti al 21esimo giorno. Nell’ultima settimana della prima fase è prevista la liberazione di 14 sequestrati. Cinque soldate israeliane saranno rilasciate in cambio di 250 prigionieri palestinesi, in rapporto di una a 50. Israele potrebbe arrivare a liberare fino a 1.650 detenuti secondo alcune fonti (dipenderà dagli ostaggi liberati durante la prima fase). Chi è accusato di aver ucciso israeliani non sarà rilasciato in Cisgiordania ma a Gaza o all’estero (si parla di Qatar e Turchia).
NON SARÀ liberato Marwan Barghouti, il Mandela palestinese, il più popolare dei prigionieri politici. Il governo Netanyahu avrebbe anche respinto la richiesta di Hamas di riavere il corpo di Yahya Sinwar, il suo leader ucciso ad ottobre scorso. Sarebbe esclusa anche la liberazione di coloro che hanno partecipato all’attacco al Nova Festival e ai kibbutz il 7 ottobre 2023.
Devono essere affrontati inoltre il nodo della restituzione delle salme, il piano di ricostruzione di Gaza e del futuro governo di Gaza sotto la supervisione di Egitto, Qatar e Nazioni unite. Centrale sarà anche il tema del ritorno della popolazione nel nord Gaza, potrebbe avvenire, ma solo in piccola misura e sotto un rigido monitoraggio. Non è chiaro se e quando l’esercito israeliano si ritirerà dal Corridoio Netzarim che divide in due la Striscia da est a ovest, il principale ostacolo al rientro della popolazione nel nord. Israele inoltre rimarrà per un lungo periodo sul confine tra Gaza e l’Egitto. Il Cairo ha comunicato che sono in corso trattative per riaprire il valico di Rafah e aumentare gli aiuti umanitari ai palestinesi di Gaza, che Netanyahu si sarebbe impegnato a non limitare o ostacolare.
Ecco la tregua. Non si allontani il cielo sopra Gaza
Alla fine Si affaccia una fragile speranza negli occhi dei bambini gazawi che le testimonianze dei medici che hanno operato sul campo descrivono come la «generazione perduta»
Tommaso Di Francesco 16/01/2025
Ci sono due modi per affrontare quella che viene dichiarata come «tregua provvisoria di 42 giorni a Gaza», a quanto pare alla fine accettata da Hamas, dal premier israeliano Netanyahu e dall’Idf, l’esercito d’Israele che in un tiro al piccione quotidiano chiamato vergognosamente «guerra» dai media mainstream ha bombardato i “disumani” della Striscia di Gaza con il risultato di più di 46mila civili uccisi, tra i quali 17 mila bambini e migliaia e migliaia di donne, dopo l’eccidio del 7 ottobre e il sequestro di 240 ostaggi israeliani da parte di Hamas. Il primo modo, tradizionale ma assolutamente necessario, è quello di valutare i pro e i contro insieme alla veridicità degli impegni presi dalle parti nell’accordo; poi chi ha vinto e chi ha perso e perché la mattanza è continuata, se è possibile dopo tanta devastazione schematizzare così il risultato, ma farlo è importante perché la tregua era possibile anche 8 mesi fa; e infine il dare e l’avere, perché è chiaro che la concessione della tregua a Gaza avvia una più mirata e non meno distruttiva penetrazione israeliana nell’occupazione, nella colonizzazione e nell’isolamento della Cisgiordania.
L’altro criterio più velleitario se non rischioso, ma essenziale e lungimirante, è quello di leggere la tregua con il metro della speranza, con gli occhi di chi la guerra di annientamento l’ha subita, “sotto”, con lo sguardo rivolto al cielo. Di chi l’ha vissuta sulla propria pelle per più di quindici mesi. Una eternità, tanto è durata la rappresaglia di vendetta israeliana fatta con le armi più raffinate e potenti, cacciabombardieri di ultima produzione, carri armati indistruttibili e droni tecno-criminali pronti a colpire nel mucchio facili bersagli di masse umane indistinte e inermi come nelle migrazioni d’uccelli, per radere al suolo scientemente centri abitati, scuole, ospedali e luoghi di culto.
E ALLORA COME non tirare un sospiro di sollievo, con due milioni e 300mila persone, un sospiro profondo, quasi impossibile tra la polvere delle macerie accumulate. Come non vedere che una piccola, ultima e fragile speranza si affaccia negli occhi dei bambini gazawi che le riviste scientifiche del mondo, le testimonianze dirette dei medici e delle Ong che hanno operato sul campo descrivono ormai come la «generazione perduta».
VALE A DIRE la generazione di centinaia di migliaia di bambini che non riescono più ad immaginare la realtà, il presente ed il futuro, senza la presenza sanguinosa della guerra, diventata per loro una coazione a ripetere che ha azzerato le menti. In una età che dovrebbe essere affettivo-formativa, abituati come sono – i più grandi tra loro lo erano anche prima del 7 ottobre per le tante guerre subite – invece alla violenza, al rumore assordante delle bombe che arrivano dall’alto di un cielo oscuro senza luce, imparando perfino a distinguerle, a evitare come in uno slalom i proiettili; ad avere terrore di perdere i propri cari, ma anche i grandi in una tale condizione hanno perso la ragione e non soccorrono – a Gaza le mamme chiedono aiuto ai bambini – ; ad essere costretti a correre ansiosi dopo ordini improvvisi di evacuazione, in fuga tra rovine, cadaveri e feriti urlanti, a scoprire la vulnerabilità di un corpo umano dilaniato. «Gaza ospita la più grande coorte di bambini amputati nella storia moderna», ha dichiarato Lisa Doughten, direttrice della divisione finanza e partnership dell’Ufficio affari umanitari dell’Onu al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. E a trovarsi ogni mattina con la fame nera dopo un finto sonno, che li ha costretti e li costringe ancora a file disperate per strappare agli altri bambini e bambine con rabbia e scoperta crudeltà un po’ d’acqua e di pane. Spesso soli, abbandonati, senza familiari o amici.
LA TREGUA CHE si annuncia naturalmente non è la pace eternamente promessa al popolo palestinese senza diritti e a cui la propria terra è negata – singolare che il segretario di Stato Blinken che ha alternato rimproveri e tanti miliardi di armi a Israele, si ricordi dello Stato di Palestina cinque giorni prima di uscire di scena con il periclitante Biden. Ma a questo punto quella raggiunta ieri è molto di più della pace mai arrivata: è una zona temporale, una «finestra di opportunità» dicono le Ong – fondamentale per recuperare umanità e diritti, per avere voce, alzarla, pretendere verità – va eseguito l’arresto per crimini di guerra di Netanyahu, magari ora pronto a cantar vittoria, a nuove candidature e avventure politiche. Perché accade il paradosso imperiale che il nuovo Congresso degli Stati uniti metta sanzioni alla Corte penale internazionale: sta per entrare in scena alla Casa bianca Trump, il mentore della supremazia israeliana nella regione e del Patto di Abramo che escludeva i palestinesi, e che nei giorni scorsi prometteva altro «inferno a Gaza…» e ora s’intesta il risultato della tregua,
SE È VERA tregua un popolo intero deve pretendere e ottenere solidarietà. Non l’elemosina televisiva dei governi che sono stati zitti e complici. I bisogni umanitari dovranno essere soddisfatti. Almeno per non morire di fame e di malattie. Allora il ruolo del sistema delle Nazioni unite, anch’esso bombardato scientemente dal governo israeliano, deve essere ripristinato.
Se è vera tregua vale la pena sperare, nel verso del poeta palestinese Ibrahim Nasrallah: «Non si allontani il cielo/ ora è giunto luminoso/ lavato nel sangue bambino/ in campi di rossi papaveri/ soffocati sotto carri cingolati/. Non si allontani il cielo/ è giunto finalmente/…/ è venuto pulito”.
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