ISRAELE. SI SCRIVE: FINE DELLA GUERRA, SI LEGGE: SALVARE L’ELEZIONE DI BIDEN da IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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ISRAELE. SI SCRIVE: FINE DELLA GUERRA, SI LEGGE: SALVARE L’ELEZIONE DI BIDEN da IL FATTO

Israele, si scrive: fine della guerra; si legge: salvare l’elezione di Biden

RECUPERARE – Il dem non può inimicarsi oltre i suoi supporter

 ROBERTO FESTA  3 GIUGNO 2024

Joe Biden spinge con sempre più forza per un’intesa su Gaza. Israele frena ma non può dire di no, considerato il sostegno militare, finanziario, diplomatico sin qui offerto dagli Stati Uniti. È una partita complessa di pressioni, ambiguità, ricatti, quella che si gioca in queste ore tra Washington e Gerusalemme. “È un’intesa su cui siamo d’accordo. Non è una buona intesa, ma davvero vogliamo che gli ostaggi vengano rilasciati” ha detto Ophir Falk, consigliere di Benjamin Netanyahu. Sono parole che rivelano lo scarso entusiasmo del governo israeliano di fronte al discorso in cui Joe Biden ha illustrato un piano in tre fasi per la fine delle ostilità e il rilascio degli ostaggi. Netanyahu non è appunto convinto ma quello che Netanyahu vuole è ormai in aperto conflitto con gli interessi politici del presidente Usa.

Col discorso di venerdì, Biden ha scelto di forzare la situazione. Il piano di cui ha parlato era stato presentato dai negoziatori israeliani a Stati Uniti, Qatar ed Egitto, ma non ancora sottoposto a partiti e opinione pubblica israeliana. Evidente il motivo.

Il piano dà, soprattutto nelle prime due fasi, un ruolo a Hamas nel governo di Gaza e contraddice quanto Israele ha sempre detto, e cioè che l’obiettivo della guerra è la “distruzione di Hamas”. Non sorprende che due ministri di estrema destra, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, abbiano subito minacciato di far cadere il governo nel caso Netanyahu dovesse acconsentire all’accordo. Presentandosi in tv davanti all’America e al mondo, Biden era perfettamente consapevole delle turbolenze nella politica israeliana. E sapeva altrettanto bene che il piano presenta diversi elementi irrisolti. Uno, in particolare. Ammesso che Hamas sia sconfitto, chi governerà Gaza dopo il cessate il fuoco? L’Autorità palestinese? Un governo provvisorio insediato dalle Nazioni Unite? E Israele manterrà una qualche forma di controllo militare? Sono questioni fondamentali, che Biden riduce a semplici “dettagli da precisare” e dissolve sotto un imperativo: “È tempo che questa guerra finisca”.

Ciò che Biden ha dunque fatto è forzare la situazione, dare per definito un piano che, almeno per Israele, così definito non è. La strategia americana si è ripetuta domenica, quando John Kirby, portavoce del National Security Council, ha spiegato che gli Stati Uniti “hanno tutte le ragioni” per credere che Israele andrà avanti nel piano.

A Washington è ormai chiaro che Netanyahu non ha alcun interesse a far finire la guerra, perché la fine della guerra implica un compromesso con Hamas, l’uscita dal governo dell’estrema destra, un nuovo governo con l’opposizione di Yair Lapid di cui, probabilmente, Netanyahu non farà più parte.

La fine della guerra significa la probabile fine politica di Netanyahu e per questo Netanyahu frena. L’interesse di Biden è opposto. Se la guerra non finisce, Biden rischia di perdere le elezioni del 5 novembre. Per tornare alla Casa Bianca e non cederla a Trump: il presidente ha assoluto bisogno di conquistare Michigan, Wisconsin, Pennsylvania. Sono Stati dove esistono ampi settori di voto arabo-americano, progressista, afroamericano, che in questi mesi ha mostrato delusione e indignazione per il sostegno di Biden a Israele.

Mancano cinque mesi alle elezioni. C’è ancora tempo per recuperare ma, appunto, Biden ha bisogno che la guerra finisca. Tutto il resto – Stato palestinese, possibile riconoscimento tra Israele e Arabia Saudita – può aspettare. L’importante per Biden è che le armi tacciano e la carneficina cessi. Ne va della sua sopravvivenza politica e del futuro governo degli Stati Uniti.

Hamas non è sconfitto e nessuno sa a chi dare il governo della Striscia

FASI DELICATE – In un primo momento il movimento che domina dal 2006 resterà in sella. E i palestinesi non contano più sul leader dell’Anp Abbas

COSIMO CARIDI   3 GIUGNO 2024

Il gabinetto di guerra israeliano è in piena crisi. Non per come chiudere il conflitto, ma su come rimpiazzare Hamas. “In qualsiasi processo volto a porre fine alla guerra, non accetteremo il governo di Hamas. Stiamo strutturando un esecutivo alternativo a Hamas”, ha detto ieri il ministro della Difesa Yoav Gallant dopo aver visitato il comando meridionale dell’Idf, l’esercito israeliano, a Beer Sheva. “L’azione militare, da un lato, e, dall’altro, la capacità di cambiare governo – ha spiegato il ministro a capo delle forze armate israeliane – porteranno al raggiungimento di due degli obiettivi di questa guerra, lo smantellamento del governo di Hamas e della sua potenza militare, e il ritorno degli ostaggi”. Il problema è che il movimento islamista non solo è stato decapitato, ma l’idea su sui si fonda non è stata eradicata dai gazawi, anzi. I tre o quattro leader di Hamas che detengono il potere politico e militare nella Striscia sono ancora vivi.

Nonostante quasi otto mesi di bombardamenti, Yahya Sinwar è ancora in grado di organizzare da sottoterra le azioni dei suoi miliziani. A febbraio, dopo il ritiro delle truppe israeliane da Gaza city, Hamas aveva rimandato per le strade di agenti di polizia in uniforme e iniziato a distribuire parte dei salari ai dipendenti pubblici. “Cancellare Hamas” la promessa fatta dal primo ministro Benjamin Netanyahu, all’indomani del 7 ottobre, sembra più irrealizzabile con il passare dei mesi. Sono stati uccisi oltre 36mila gazawi, ci sono 10mila dispersi, e almeno i due terzi degli edifici della Striscia sono distrutti o danneggiati, ma i tra i palestinesi, anche in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, il movimento islamico è considerato come l’unica resistenza a Israele. L’alternativa, spinta e sponsorizzata dalla Comunità Internazionale, è l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp). Il presidente Mahmoud Abbas, 89 anni compiuti a marzo, è al potere dal 2005 e il suo ruolo è svuotato di ogni valore agli occhi della popolazione. Le ultime elezioni politiche si sono svolte in Palestina nel 2006, e sono state vinte da Hamas. Da allora Netanyahu ha tentato di dividere, già più di quanto fosse, la leadership di Gaza e quella di Ramallah. La strategia era indebolire entrambe le parti palestinesi e mostrare agli alleati l’impossibilità di intraprendere negoziati significativi. Dall’inizio del conflitto Tel Aviv ha bloccato i trasferimenti delle tasse all’Anp. Il ministro delle Finanze, Belazel Smotrich, sta minacciando di bloccare i sistemi di pagamento tra le banche israeliane e quelle palestinesi. Netanyahu, e il suo governo, si oppongono categoricamente a qualsiasi ruolo dell’Anp nel futuro di Gaza. “Potreste non pensare che l’Autorità Palestinese sia l’ideale – ha detto pochi giorni fa il ministro degli Esteri britannico, David Cameron, ai rappresentati del governo israeliano – potreste pensare che fallisca sotto molti aspetti. Ma dovete trovare un partner che non sia Hamas con cui lavorare a Gaza e Cisgiordania, e quel partner dovrebbe essere il nuovo governo tecnocratico gestito dall’Autorità Palestinese”. Gli Stati Uniti condividono questo punto di vista. “È imperativo non solo che il conflitto a Gaza finisca il prima possibile, ma che Israele presenti un piano chiaro su come Gaza sarà governata, protetta e ricostruita”, ha detto la scorsa settimana il Segretario di Stato, Antony Blinken, durante un’audizione alla commissione del Senato americano.

Tra i punti del piano di pace su cui si sta negoziando c’è il completo ritiro delle forze israeliane dalla Striscia. Gli statunitensi non hanno intenzione di mandare militari sul terreno per garantire ordine e sicurezza. Washington sta facendo pressione sugli alleati regionali (Egitto, Giordania, Emirati Arabi, Bahrain e Marocco) perché assicurino una presenza di truppe sul terreno. La risposta, anche se tutt’ora solo informale, dei paesi arabi è che solo un riconoscimento da parte dell’Occidente di uno Stato palestinese getterebbe le basi una missione militare internazionale. Il giorno dopo il cessate il fuoco 2,2 milioni di gazawi avranno bisogno di un esecutivo che guidi la ricostruzione. La Banca Mondiale ha tentato di calcolare i danni nella Striscia: 18,5 miliardi di dollari, il 97% del Pil combinato di Gaza e Cisgiordania. Si tratta di formare una nuova classe dirigente e affidargli il più ambizioso piano di rinascita dell’area.

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