IRAN “AVVISATO”, MA NON È GUERRA IN GUANTI BIANCHI da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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IRAN “AVVISATO”, MA NON È GUERRA IN GUANTI BIANCHI da IL MANIFESTO

Iran «avvisato», ma non è guerra in guanti bianchi

La resa dei conti Il patto di Abramo, voluto da Trump e appoggiato da Biden, attende le monarchie arabe, basta leggere il comunicato dell’Arabia saudita che ieri condannava «la violazione della sovranità iraniana» ma non aveva neppure il coraggio di nominare Israele

Alberto Negri  27/10/2024

Un attacco «telefonato», «oltre a Washington anche l’Iran è stato avvertito», «gli iraniani non risponderanno»: così dicono i media nel tentativo di tenerci tranquilli.

Sembra che la rappresaglia israeliana contro l’attacco di Teheran del primo ottobre sia una sorta di guerra «in guanti bianchi». In realtà è una guerra e basta, che aspetta solo il suo tempo – forse il prossimo presidente Usa – per sfociare in una escalation. Tutti sanno che l’Iran e il suo programma nucleare sono la vera ossessione di Netanyahu da decenni: ma per colpire al cuore la Repubblica islamica serve l’imprescindibile sostegno militare americano. Resa dei conti rinviata?

La guerra però continua, eccome, a mietere vittime e distruzione. Nella notte tra venerdì e sabato in cui è stata colpita anche Teheran – per la prima volta dagli Scud scagliati da Saddam Hussein nel 1988 – gli israeliani hanno scaricato bombe in Libano, a Gaza, a Damasco, giusto per far capire che le premesse di una tregua per ora sono ancora deboli, in attesa anche di capire cosa accadrà oggi a Doha nel vertice tra i capi di Cia, Mossad e Qatar, primo tentativo di riaprire la finestra dei negoziati dopo l’uccisione del leader di Hamas Yahya Sinwar.

Ma se pensiamo che questa sia una guerra soltanto di Israele ci sbagliamo di grosso. Non ci sono soltanto le forniture belliche miliardarie a Tel Aviv. Un’inchiesta trasmessa da Al Jazeera – la rete del Qatar – ci informa che Usa e Gran Bretagna hanno attuato in un anno un vero e proprio «ponte aereo» su Israele con 6mila voli militari, di cui almeno 1200 cargo. Ma c’è dell’altro. Su oltre 1200 voli di ricognizione e intelligence per individuare i bersagli da colpire il 20% sono stati attuati da aerei israeliani, il 33% da quelli americani e il 47% dagli inglesi. In poche parole il 70% dei sorvoli di ricognizione per colpire Hamas e Hezbollah – salvo poi contribuire ad abbattere edifici, ospedali, scuole, e uccidere dei civili – sono stati effettuati dagli anglo-americani i cui veivoli decollano dalle basi in Germania, Grecia, Cipro e da quelle dell’Italia nel centro del Mediterraneo. Ecco come siamo coinvolti in questa guerra senza che naturalmente nessuno ci dica nulla.

Forse quando il governo Meloni, come annunciato, aprirà una base logistica militare in Qatar anche noi come Al Jazeera verremo informati di quello che accade in Medio Oriente, visto che i nostri alleati della Nato si guardano bene dal farlo.

Quindi quando di parla di legalità internazionale dobbiamo stare molto attenti. In realtà anche con il «ponte aereo» stiamo aiutando Israele a compiere la distruzione di Gaza e del Libano mentre chiediamo anche a Netanyahu di fare un accordo di tregua a Gaza e in Libano. Siamo scivolati in una situazione paradossale e alla lunga insostenibile, almeno per le coscienze se non per la bieca realpolitik.

Questa settimana i peacekeeper delle Nazioni Unite hanno affermato che i soldati israeliani hanno di nuovo sparato contro uno dei loro posti di osservazione nel Libano meridionale, aggiungendo che la situazione della sicurezza era «estremamente difficile». I soldati dell’Idf hanno sparato contro un posto di osservazione Onu vicino al villaggio di confine di Dhayra, e l’Unifil ha dichiarato che «le guardie di turno si sono ritirate per evitare di essere colpite». Sappiamo come la pensa Tel Aviv: i caschi blu con la loro presenza, dice Netanyahu, fanno da scudo ai terroristi.

Gli attacchi alla missione dell’Unifil non sono «incidenti» perché per il premier israeliano Netanyahu pure il diritto umanitario internazionale è un nemico. Lo ha detto lui stesso nel discorso all’assemblea generale dell’Onu quando ha l’ha definito una «palude di bile antisemita», un linguaggio che riprende un ritornello di Donald Trump, senza contare che al segretario generale alle Nazioni Unite Guterres è stato vietato l’ingresso nello stato ebraico come «persona non grata». E noi assecondiamo il premier israeliano con un profluvio di ipocrisia. Il segretario di stato Blinken nel suo ultimo viaggio in Medio Oriente ha affermato «che le forze di pace dell’Onu devono essere protette». E lui cosa fa? Manda con gli inglesi i suoi aerei da ricognizione per favorire i bombardamenti israeliani in Libano ma si guarda bene dal fare qualcosa per garantire la missione Unifil. I radar dei suoi aerei devono essere ciechi quando sorvolano i caschi blu nel mirino dell’esercito israeliano. Del resto che cosa aspettarsi da un’amministrazione che come inviato di pace in Libano ha mandato Amos Hochstein, un ex ufficiale dell’Idf?

Questa non è un guerra «in guanti bianchi» per un nuovo ordine in Medio Oriente ma ha l’obiettivo di disgregare questa regione frantumandola per linee etniche, religiose e settarie. Divide et impera. Il patto di Abramo, voluto da Trump e appoggiato da Biden, attende le monarchie arabe, basta leggere il comunicato dell’Arabia saudita che ieri condannava «la violazione della sovranità iraniana» ma non aveva neppure il coraggio di nominare Israele. Ubi maior

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