DOPO 20 MESI DI ORRORE da IL MANIFESTO
Dopo venti mesi di orrore
Risvegli Che cos’è cambiato per cui anche i ministri degli esteri dell’Unione europea – non tutti, naturalmente non il nostro Tajani – adesso pensano che Israele stia esagerando nella sua mattanza […]
Andrea Fabozzi 21/05/2025
Che cos’è cambiato per cui anche i ministri degli esteri dell’Unione europea – non tutti, naturalmente non il nostro Tajani – adesso pensano che Israele stia esagerando nella sua mattanza a Gaza, quando fino a qualche giorno fa si sarebbero affrettati a definire antisemita chi avesse formulato un pensiero del genere? Niente, nella sostanza. Il gabinetto di guerra Netanyahu porta avanti lo sterminio da quasi venti mesi, da due ha chiuso ogni varco per gli aiuti (riaperto appena ieri e inutilmente) e scatenato la fame. Non c’è nulla che possa chiamarsi novità, c’è un orrore che si accumula, come le macerie della Striscia e come i cadaveri dei gazawi.
Quella montagna è diventata troppo alta anche per chi si è voltato dall’altra parte per non vedere Gaza? Vorremmo sperarlo, ma le prime timide prese di posizione – che non sono fatti ma annunci di fatti – non interrompono la cooperazione degli Stati europei (non parliamo degli Usa) con l’esercito distruttore di Israele. E certo potrebbero, come dichiarano sfacciatamente ministri e parlamentari di Tel Aviv, soddisfatti che «il mondo non ci ha ancora fermato». Dunque questi segnali di cambiamento sono poca cosa al cospetto dell’enormità del crimine, ma vanno colti. Così come li abbiamo colti sui media internazionali e persino nazionali; la parola «genocidio» è comparsa laddove era stata processata, a dimostrazione che chi ha voluto usarla non lo ha fatto per chiudere con superficialità il discorso ma al contrario per cercare di tenerlo aperto all’altezza della gravità dei fatti.
Questo aprire un po’ gli occhi sull’orrore, tardivo e scarso – ancora una volta con l’indegna eccezione del governo italiano – dunque non può consegnarci una fiducia nei governanti né nelle istituzioni sovranazionali che non hanno fermato Israele. Ma deve spingerci a gridare più forte l’atroce verità della pulizia etnica, raddoppiare l’impegno per incalzare chi al potere e nei media avrà sempre meno alibi per non vederla. Lo fanno con forza milioni di persone nelle piazze di tutto il mondo sfilando con la bandiera della Palestina. Ormai incontestabilmente dalla parte giusta della storia.
Ingegneria coloniale a Gaza, la fame per distruggere il patto sociale
Palestina Un’ingegneria sociale violenta, attuata attraverso fasi precise e pianificate. Svuotare le aree dal cibo non significa solo affamare, ma rappresenta un atto simbolico e concreto: la frammentazione dell’identità collettiva. Quando il sistema alimentare crolla, crollano anche i valori della solidarietà e della dignità e l’individuo comincia a pensare soltanto al proprio “io” affamato
Yousef Hamdouna 21/05/2025
Ciò che sta accadendo a Gaza non è semplicemente una guerra militare o una tragedia umanitaria, ma un momento cruciale di trasformazione nell’approccio alla questione dei popoli sottoposti a occupazione. Siamo di fronte a un momento storico in cui viene attuata una strategia complessa che mira non solo a smantellare le strutture dei movimenti di liberazione di tali popoli, ma anche a disgregarne la società stessa dall’interno, ricostruendola con una forma fragile, incapace di riorganizzarsi se non secondo le condizioni imposte dall’occupante.
Da qui, l’uso della fame come arma non può essere compreso se non come parte di un’ingegneria sociale violenta, attuata attraverso fasi precise e pianificate. Svuotare le aree dal cibo non significa solo affamare la popolazione di Gaza, ma rappresenta allo stesso tempo un atto simbolico e concreto che determina importanti conseguenze. In primo luogo, il crollo del concetto di sicurezza autonoma: nessuno Stato, nessuna istituzione, nessuna capacità collettiva di sopravvivere riescono a trasmettere un senso di sicurezza.
IN SECONDO LUOGO, la disgregazione del patto sociale: l’essere umano non percepisce più il proprio ambiente come una “società”, ma come un insieme di concorrenti in lotta per la sopravvivenza. Infine, la frammentazione dell’identità collettiva: quando il sistema alimentare crolla, crollano anche i valori della solidarietà e della dignità e l’individuo comincia a pensare soltanto al proprio “io” affamato.
La fame non è solo uno strumento di sottomissione, ma un processo di «frattura interiore» che distrugge la coesione dell’identità individuale e della società nel suo complesso, ed è proprio qui che risiede la pericolosità della fame: non a caso, la starvation della popolazione civile è considerata un crimine di guerra.
Nel caso della Striscia di Gaza, essa rappresenta uno strumento per provocare un «cambiamento percettivo forzato» all’interno delle comunità, spostandone il focus e le priorità: dal pensiero rivolto alla liberazione collettiva al pensiero rivolto alla sopravvivenza individuale a qualunque costo. Questo apre la strada a uno stato di caos interno che può portare ad accettare soluzioni che, prima della crisi, sarebbero state completamente rifiutate, o a negoziare cose prima ritenute non negoziabili.
NON SOLO. Questo porta anche al dissolvimento del legame sociale dei movimenti di liberazione con la popolazione: essi si trasformano da «protettori» a «impotenti», e forse persino ad «accusati». Tutto ciò contribuisce a ridefinire il concetto stesso di autorità e leadership nella coscienza collettiva della società, trasferendo così il potere dalla leadership politica a chi possiede e controlla cibo e acqua.
Quando si nega il cibo alle persone e la forza della fame le spinge al saccheggio e al caos, non le si sta solo affamando, ma si compie un’operazione più profonda: si priva quel popolo della propria immagine morale agli occhi del mondo, si costruisce una nuova narrazione secondo cui non è in grado di autogestirsi e si apre così la strada a una «ri-colonizzazione umanitaria», attraverso una gestione internazionale o araba – in ogni caso straniera – subordinata a specifiche condizioni politiche e di sicurezza.
Ci troviamo di fronte a una forma di colonialismo che non impone la propria autorità solo attraverso la forza militare, ma riscrive la struttura psicologica e sociale delle persone mediante strumenti «soft», come la gestione del cibo e il controllo degli aiuti. In questo modo si impone una nuova realtà, presentata come un passaggio necessario per porre fine alla sofferenza della popolazione.
Il problema non è solo ciò che sta accadendo, ma ciò che si vuole che diventi. Ciò che sta accadendo oggi a Gaza rappresenta un momento cruciale nella storia palestinese, e forse anche nella storia moderna in generale: è il più grande esperimento di «ingegneria sociale violenta» condotto su un intero popolo, all’interno della propria terra (senza via di fuga) e sotto il giogo dell’occupazione.
Il caos attuale non è un effetto collaterale, ma parte integrante di un progetto volto a distruggere la società palestinese dall’interno, per poi ricostruirla o come un corpo senza anima, o come un popolo disposto ad accettare di (soprav)vivere senza alcuna prospettiva politica e senza diritti.
IL FATTO che tutto ciò stia accadendo in diretta, davanti agli occhi del mondo intero, rappresenta una riscrittura dei concetti e dei principi del diritto internazionale umanitario nella coscienza collettiva delle società. Sta educando le menti delle nuove generazioni a una verità amara: che la legge della giungla è l’unica legge dominante in quest’epoca; che libertà, giustizia e uguaglianza sono utopie platoniche del nostro tempo; che chi osa opporsi all’ingiustizia e alla tirannia subirà ciò che oggi stanno subendo i palestinesi; e che non sono il diritto internazionale umanitario e i diritti umani a determinare il destino dei popoli, ma la forza e gli interessi.
Questa grande verità la si sta toccando con mano in una terra che si preferisce percepire come altra, lontana, mentre ci si abitua all’idea che «è una questione troppo complicata» o che «è qualcosa di più grande di noi». Eppure, queste verità si riflettono anche a livello micro, nelle relazioni tra le persone in ogni parte del mondo e si manifestano in modo già tangibile nelle nostre società, spesso in maniera inconscia.
Ne sono prova il diffuso e indefinito senso di incertezza, la paura del futuro, l’individualismo crescente e l’investimento – globale, nazionale, comunitario – negli strumenti di forza, mentre si screditano quelli del diritto. Per questo motivo, la questione non riguarda solo Gaza o la Palestina, ma riguarda l’intera umanità. Ed è nostro dovere lottare, affinché possiamo restare umani.
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