COP 27: IL FOSSILE BRUCIA IL CLIMA da IL MANIFESTO
Cop27, il fossile brucia il clima: gli impegni sono carta carbone
SHARM EL-SHEIKH. Le emissioni globali di carbonio nel 2022 rimangono da record: al 50% il riscaldamento globale di 1,5°C sarà superato in 9 anni
Serena Tarabini 12/11/2022
Nella giornata di ieri i lavori della COP27 di Sharm el Sheikh hanno riguardato in particolare la riduzione delle emissioni di gas climalteranti dalle industrie dell’acciaio, del gas e del petrolio, dei fertilizzanti e del cemento. In quella che è stata nominata come la “ Giornata della Decarbonizzazione” i governi che rappresentano oltre la meta del Pil mondiale, dopo una serie di tavole rotonde ed partenariati pubblico-privati, hanno lanciato un piano d’azione di 12 mesi per decarbonizzare il pianeta a partire dai settori difficili da abbattere, almeno secondo quanto dichiarato dal presidente della Cop27, Sameh Shoukry, che a inizio lavori ha sottolineato che la crisi è” climatica, esistenziale, prioritaria, sempre presente” e che per affrontarla vanno considerati tutti i pezzi del puzzle, compresa la decarbonizzazione dei settori industriali che sono alla base dell’economia globale.
IL PIANO CONSISTE in un pacchetto di 25 nuove azioni da realizzare entro la COP28, che si terrà negli Emirati Arabi Uniti, al fine di accelerare la decarbonizzazione nell’ambito di cinque innovazioni chiave in materia di energia, trasporto su strada, acciaio, idrogeno e agricoltura. Tali azioni sono rivolte a settori che rappresentano oltre il 50% delle emissioni globali di gas serra e sono anche progettate per ridurre i costi energetici e migliorare la sicurezza alimentare per miliardi di persone in tutto il mondo. Le azioni nell’ambito di ciascuna “svolta” saranno realizzate attraverso cooperazioni di paesi impegnati – in primis dal G7, membri Commissione europea, India, Egitto, Marocco e altri, supportati da importanti organizzazioni e iniziative internazionali e guidati da un gruppo centrale di governi di primo piano. Questi sforzi saranno rafforzati con finanziamenti privati e iniziative industriali e altri paesi saranno incoraggiati ad aderire.
LE AZIONI PRESENTATE come prioritarie comprendono accordi mirati a definizioni comuni per acciaio, idrogeno e batterie sostenibili a basse e “quasi” zero emissioni, a far convergere fondi su investimenti, appalti e scambi commerciali che garantiscano credibilità e trasparenza; ad accelerare la diffusione di progetti infrastrutturali essenziali, tra cui almeno 50 impianti industriali su larga scala a zero emissioni, almeno 100 “ hydrogen valley”, delle sorte di aree di incubazione di molteplici tecnologie a base di idrogeno, e un pacchetto di progetti infrastrutturali di rete elettrica transfrontaliera. Si è anche deciso di stabilire una data per l’obiettivo comune di eliminare gradualmente le automobili e i veicoli inquinanti, coerentemente con l’accordo di Parigi.
IN AMBITO DI IMPEGNI era molto atteso l’intervento di Joe Biden, arrivato ieri a Sharm el Sheikh. Il Presidente Usa si è innanzitutto «scusato» per la decisione del predecessore, Donald Trump, di uscire dall’accordo di Parigi (gli Usa sono poi rientrati lo scorso anno) definendo “incrollabile” il suo impegno per il clima e che gli Stati Uniti rispetteranno gli obiettivi sulle emissioni entro il 2030». Le dichiarazioni di Biden hanno riguardato le emissioni di metano, che ha promesso verranno tagliate ma non si sa di quanto: le non ben specificate misure che si appresta a varare prevedono che l’Agenzia per la protezione ambientale richieda alle compagnie petrolifere e del gas di monitorare gli impianti di produzione esistenti per eventuali perdite di metano. Più dettagliato è stato l’impegno relativo al fondo per l’adattamento climatico dei Paesi in via di sviluppo, al quale gli Usa verseranno 150 milioni, il raddoppio dell’impegno precedentemente dichiarato.
LA GIORNATA DEI BUONI propositi per la decarbonizzazione è stata accompagnata dalla presentazione di un rapporto che ancora una volta non fa intravedere molte possibilità di riuscire a contenere il riscaldamento del pianeta al di sotto di 1,5 gradi. Lo studio è a cura del Global Carbon Project, che comprende University of Exeter, University of East Anglia (Uea), Cicero e Ludwig-Maximilian-University Munich. Per il team di esperti le emissioni globali di carbonio nel 2022 rimangono da record, quasi ai livelli del 2019: qualora il trend rimanga questo, c’è una probabilità del 50% che il riscaldamento globale di 1,5°C sarà superato in nove anni. Secondo i calcoli, le emissioni di CO2 di origine fossile «aumenteranno dell’1% rispetto al 2021, leggermente al di sopra dei livelli del 2019 prima del Covid-19».
Tale incremento è trainato principalmente dall’utilizzo del petrolio (+2,2%), con la ripresa del traffico aereo, e del carbone (+1%). Le emissioni da carbone, in calo dal 2014, dovrebbero aumentare dell’1% e tornare, o addirittura superare, il livello record di quell’anno. «Le emissioni sono ora del cinque per cento superiori a quelle che erano al momento della firma dell’Accordo di Parigi nel 2015», ha detto Glen Peters, direttore di ricerca presso l’istituto di ricerca sul clima CICERO in Norvegia e co-autore dello studio pubblicato sulla rivista Earth Systems Science Data. Sui dati convergono due fattori: il proseguimento della ripresa post-Covid e la crisi energetica dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia.
DA QUI A 30 ANNI C’È UNA possibilità su due di raggiungere l’obiettivo meno ambizioso di +2 C, e a 18 anni di +1,7 C. «Abbiamo fatto dei progressi», osserva la climatologa Corinne Le Quere, un’altra autrice dello studio, sottolineando come la tendenza all’aumento delle emissioni dei combustibili fossili sia passata da circa il 3% all’anno negli anni 2000 allo 0,5% all’anno nel corso dell’ultimo decennio.
Il rilancio delle menzogne sull’energia nucleare
AMBIENTE . Tornano a dilagare pericolose falsità: dai costi ai tempi di costruzione, dallo smaltimento «risolto» delle scorie, ai reattori di IV generazione «dietro l’angolo»
Federico Butera 12/11/2022
In campagna elettorale, e dopo, la nostra destra e il sedicente centro che in realtà guarda a destra sono stati presi da un raptus incontrollato, un amore irresistibile per il nucleare, sostenendo che:
– è la sola soluzione a emissioni zero per compensare completamente la non programmabilità delle fonti rinnovabili;
– il kWh prodotto col nucleare comporta emissioni di CO2 inferiori a quelle prodotte dalle rinnovabili, quelle dovute alla produzione dei componenti e al loro smaltimento;
– i problemi di costo e del tempo necessario per la loro costruzione sono superati con i reattori di III generazione; per costruirli bastano 7 anni, quindi in tempo per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione al 2030;
– il problema delle scorie è stato risolto;
– ci sono i reattori di IV generazione dietro l’angolo, già pronti per essere installati entro un paio d’anni al massimo, piccoli, economici, sicuri.
Ebbene, tutto falso. Andiamo per punti. Perché la non programmabilità delle fonti rinnovabili si può compensare con diversi tipi di accumulo, ampiamente sperimentati e intrinsecamente più sicuri ed economici di un reattore nucleare. Non è vero che il nucleare sia indispensabile per lo sviluppo delle fonti rinnovabili; poi, secondo l’Agenzia tedesca per l’ambiente, l’energia nucleare rilascia, sull’intero ciclo di vita, 3,5 volte più CO2 per chilowattora rispetto al solare fotovoltaico e 13 volte in più rispetto all’energia eolica. Altri, come la World Nuclear Association, mettono invece nucleare e rinnovabili sullo stesso piano: le emissioni sono irrilevanti in entrambi i casi.
E ancora, come dimenticare che l’ultimo impianto entrato in servizio in Finlandia nel gennaio 2022 è costato 11 miliardi di euro (circa 5 volte di più di parchi eolici terrestri per pari potenza in Italia) e ha richiesto 17 anni di lavori dall’inizio della costruzione. Il terzo reattore dell’impianto di Flamanville, in Normandia, non è ancora completo dopo oltre 14 anni dall’inizio dei lavori, con un budget che si è quasi quadruplicato nel corso degli anni (salito da 3,3 a 12,4 miliardi €).
Il reattore in costruzione a Hinkley Point nel Regno Unito – costo iniziale stimato di 18 miliardi di sterline, già lievitato a 26 – è stato finanziato grazie all’impegno del Governo (e quindi dei suoi contribuenti) a comprare la produzione elettrica per 35 anni a un prezzo più del doppio di quello prodotto con altre fonti alla firma dell’accordo nel 2016. L’elettricità ottenuta col nucleare non è certo la più economica. Secondo i dati di IEA e NEA (le agenzie per l’energia e per l’energia nucleare dell’OCSE) la fonte più economica è generalmente il fotovoltaico.
È poi vero che un reattore nucleare si può costruire in meno di 7 anni, ma va detto anche dove. Mentre abbiamo visto quali siano i tempi in Europa, e analogamente negli Usa (anzi peggio: 42,8 anni) e in Russia (tempo medio 17,9 anni), se andiamo in paesi dove non c’è alcun controllo serio dei criteri di sicurezza dei lavoratori e dell’impianto e/o dove il controllo democratico è debole o inesistente, allora i tempi si contraggono. E così troviamo che in Pakistan il tempo medio è di soli 5,6 anni, di 6 in Cina, di 7 in Bielorussia, di 8,2 negli Emirati Arabi.
Unica eccezione è la Corea del Sud, che è riuscita a costruire i suoi reattori, in media, in soli 6,4 anni, ma anche in questo caso entrano fattori culturali e socio-politici. In conclusione, l’affermazione dei 7 anni si può far diventare vera anche per l’Italia, ma solo in caso di deriva antidemocratica. Profezia che si auto-avvera?
Quanto alla dismissione, la dismissione di impianti di generazione elettrica nucleare è resa complessa e onerosa dalla gestione di materiale radioattivo, combustibile esausto e componenti irraggiati durante il funzionamento. In Italia lo smaltimento delle quattro centrali, tre piccolissime, in servizio al momento del referendum del 1987 sta risultando lento e oneroso: 20 miliardi, e a 35 anni dal referendum non abbiamo ancora finito.
Inoltre, ad oggi l’Italia non ha individuato un sito di deposito delle scorie. Il 15 marzo 2022 Sogin, la società pubblica che si occupa della dismissione degli impianti e della gestione dei rifiuti radioattivi, ha consegnato la mappa aggiornata dei luoghi idonei a ospitare il deposito al MiTE, che dovrà valutarla e approvarla. Una volta pubblicata si apriranno le candidature e inizierà la fase di negoziazione per trovare l’indirizzo finale del deposito nazionale, che difficilmente si concluderà in tempi brevi. Nessuno lo vuole, naturalmente.
Infine quello dell’indipendenza energetica con i reattori nucleari è un plateale falso. Come potremmo mai essere indipendenti quando non abbiamo alcuna miniera di uranio e quando nel 2021 il 45% di tutto l’uranio estratto nel mondo proveniva dalle miniere del Kazakistan, seguito dal 12% estratto in Namibia e il 10% in Canada? E non solo. Avere uranio naturale non serve a niente. Per usarlo nei reattori occorre arricchirlo. Ebbene, nel 2020 era la Russia ad avere il 46% della capacità mondiale di arricchimento, seguita dall’Europa (Gran Bretagna inclusa) con il 34%.
Non può stupire, quindi, venire a sapere che la Russia, attraverso l’agenzia atomica nazionale Rosatom e le sue sussidiarie, fornisce combustibile nucleare arricchito a Francia, Gran Bretagna, Germania, Belgio, Olanda, Svezia e Svizzera, probabilmente ancora ora, a guerra in Ucraina in corso. Insomma, dato che i paesi Europei che hanno impianti di arricchimento (Francia, Germania, Olanda e UK) li usano per rifornire le proprie centrali e non gli basta, anche noi dovremmo comprare l’uranio arricchito dalla Russia. Dalla padella nella brace. E non parliamo della sicurezza, che è un capitolo a parte: chiedere a chi abita vicino a Zaporizhzhia come si sente.
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