CONSULTA: PULSIONI AUTORITARIE SEMPRE PIÙ SFRENATE da IL FATTO
Consulta, la “giusta” maggioranza di Meloni
Gian Carlo Caselli 10 Ottobre 2024
C’era una volta che se un politico potente non gradiva le decisioni della Corte costituzionale, perché contrarie ai suoi interessi, si rifugiava nell’irridente interrogativo: “Chi sono questi 15 signori che osano ribaltare la volontà di 450 rappresentanti del popolo?”. Fu l’onorevole Calderoli a fregiarsi di questa performance, commentando una sentenza della Consulta sul “lodo Schifani” che proprio non gli andava giù.
Ma ogni specie si evolve. Oggi il potente di turno preferisce giocare d’anticipo, dandosi da fare perché la composizione della Corte possa esprimere la “giusta” maggioranza, cercando così di scongiurare decisioni sfavorevoli su temi “sensibili”. È il caso di Giorgia Meloni la quale, essendo scaduto nel novembre 2023 un giudice costituzionale, ha congelato la nomina del sostituto per quasi un anno. Sbloccandola soltanto nel momento in cui alcuni parlamentari – cambiando casacca – sono passati dalla sua parte, facendole sperare di poter avere la maggioranza necessaria per nominare il nuovo giudice senza cercare un accordo (come d’uso) con le altre forze parlamentari.
E si è svegliata proponendo il suo consigliere giuridico di Palazzo Chigi, cioè un soggetto che di mestiere scrive le leggi, quelle che magari dovrà poi giudicare come componente della Consulta. Molti osservatori hanno denunziato un possibile conflitto di interessi, ma la preoccupazione non ha neppure sfiorato la premier, incurante del fatto che intestarsi come componente della Corte un soggetto che ha lavorato nel tuo ufficio, instaurando con te un rapporto di fiducia , significa indebolire l’argine contro l’insofferenza al pluralismo e ai diritti delle minoranze, anticamera dell’autoritarismo.
La manovra portata avanti con decisione dalla premier questa volta non ha funzionato. Ma la prossima? Dio salvi la nostra democrazia da nuovi trasformismi parlamentari e dai pretoriani che escogitassero ancora qualcosa per scavalcare l’impasse…
Pulsioni autoritarie sempre più sfrenate: la presa della Corte
SILVIA TRUZZI 10 Ottobre 2024
Se il Parlamento ha potuto dire no alle nomine di Lelio Basso (l’autore dell’articolo 3 della Costituzione) e di Vezio Crisafulli (nel 1955, quando era il costituzionalista di riferimento del Pci), potremmo farci una ragione della mancata elezione a giudice costituzionale di Francesco Saverio Marini, padre di cotanto ddl costituzionale sul premierato all’amatriciana. Invece, volendo dar retta ai retroscena dei quotidiani, sembra che la presidente del Consiglio sia furiosa per la fumata nera attorno al suo consigliere giuridico. Pare che nei pressi delle chat degli infami (copy Giorgia Meloni) pensino di non aver ancora bruciato Marini: farebbero bene a rassegnarsi, vedi mai che funziona come per Crisafulli (venne nominato da Saragat nel 1968). Ma niente, vogliono impuntarsi. E non è finita. “Dicono che il sottosegretario Fazzolari punti a eleggere 4 consiglieri su 4 alla Consulta”, scriveva Minzolini sul Giornale di ieri, in un pezzo che riportava anche le parole di Giovanni Donzelli, responsabile dell’organizzazione di Fratelli d’Italia: “Il problema è che la sinistra pretende di scegliere anche i nostri giudici costituzionali. Non è accettabile. Se noi vogliamo eleggere Marini perché non dovremmo farlo? Ha contribuito a scrivere la riforma del premierato, e allora? Se loro pensano di mandare Zagrebelsky, sono scelte loro. In realtà le opposizioni non si mettono d’accordo, perché sono divise e danno la colpa a noi. Il punto è che questa paralisi getta discredito sulle istituzioni”.
A voler essere precisi, il professor Zagrebelsky è già stato alla Corte, che ha pure presieduto, e come Donzelli dovrebbe sapere, l’articolo 135 della Carta vieta esplicitamente la rielezione. Non pretendiamo che Meloni e Donzelli ci arrivino, ma quel che getta discredito sulle istituzioni è l’idea che chi sta al governo possa prendersi tutto: non funziona così. L’elezione dei cinque giudici di nomina parlamentare prevede maggioranze ancor più qualificate di quelle imposte per l’elezione del Presidente della Repubblica. E questo perché la Corte è la massima autorità a garanzia della costituzionalità delle leggi, deve garantire i princìpi costituzionali anche contro la maggioranza parlamentare. Il contrario del prendiamo tutto che pare animare la strategia della maggioranza: nella volontà di imporre il consigliere del principe alla Corte costituzionale abita una profonda incultura costituzionale, il fastidio sempre più manifesto e spudorato (non si vergognano nemmeno più) verso il sistema di contrappesi che è proprio del costituzionalismo democratico. E del resto le riforme (autonomia, premierato, giustizia) che l’esecutivo ha apparecchiato come piatto forte dell’azione di governo vanno tutte pericolosamente verso l’accentramento dei poteri.
Il presidente emerito della Corte Ugo De Siervo, dalle colonne di Repubblica, ha definito “inopportuna” (noi diciamo scandalosa) la candidatura di Marini, “redattore di vari disegni di legge che potranno essere giudicati dalla Consulta”. A cominciare dal premierato, riforma-bignami che definire a rischio di incostituzionalità è poco: se dovessimo basarci solo su quel testo, il giudizio sul candidato non sarebbe lusinghiero. Ma qui il problema è una nomina troppo vicina alla politica che mette in discussione la natura stessa della Consulta, minando la sua credibilità. E come ha notato ancora De Siervo a proposito della Corte suprema americana, “un autorevole organo indipendente rafforza le istituzioni”. Sembra di capire che Giorgia Meloni si senta assediata e si stia rinchiudendo in un sempre maggiore isolamento: l’improvvisa urgenza di votare Marini dipende dalla fissazione dell’udienza sull’Autonomia al 12 novembre. Si deve arrendere però. È la presidente del Consiglio: può governare, non regnare. Almeno per ora.
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