AL SERVIZIO DEL PENSIERO UNICO da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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AL SERVIZIO DEL PENSIERO UNICO da IL MANIFESTO

Le impenetrabili nebbie della guerra e quelle oscure della pace

Putin dittatore revanscista «vince» ma a prezzo dell’erosione del suo potere e a spese del dolore di migliaia di civili ucraini e ragazzi russi mandati a morire e di milioni di profughi

Alessandro Dal Lago  18.03.2022

In ogni conflitto si sprigiona la “nebbia della guerra”, il polverone impenetrabile che si leva dal terreno. Per orientarsi, bisogna ricordare che le guerre tra imperi grandi e piccoli, in ascesa o decadenti – perché di questo si tratta oggi – seguono una logica autonoma, al tempo stesso spaziale e temporale.

Spaziale: ogni impero tenderà a crearsi una zona di influenza ai confini che lo protegga dall’analogo movimento del vicino o competitore e ne attutisca le minacce strategiche e tattiche. Così, l’aggressività nazionalista della Russia di Putin è del tutto speculare a quella della Nato, soprattutto nei membri più recenti, come i paesi baltici e tutti gli ex membri del Patto di Varsavia, a cominciare dalla Polonia, entrati poi nella Nato, e ovviamente per la crisi dell’Ucraina. Temporale: ogni impero o parte di impero, attuale o potenziale, cercherà nel passato motivazioni e giustificazioni del proprio comportamento spaziale.

È del tutto ozioso stabilire se la rivolta di piazza Maidan a Kiev nel 2014 fosse spontanea o in larga parte promossa e sostenuta da forze esterne (probabilmente, era entrambe le cose). Sta di fatto che rappresenta la base ideologica, emotiva e politica a cui entrambi i competitori attingeranno per giustificare la propria azione e motivare gli attori sul terreno (combattenti, politici ecc.). Ogni impero reale o potenziale dispone della memoria di questo complesso di motivazioni. La memoria stabilisce le condizioni di adesione a una parte o all’altra al conflitto: il revanscismo russo è del tutto speculare al timore realistico, degli stati baltici e dell’Europa orientale, che la Russia voglia ricostituire a spese loro la parte occidentale del proprio impero.

Le guerre vengono combattute in base a pianificazioni strategiche e calcoli tattici per definizione sbagliati. La storia non ha mai offerto esempi di conflitti armati che si siano conclusi in base ai piani iniziali. Ciò vale per l’invasione napoleonica della Russia, lo scoppio della prima guerra mondiale, i piani di conquista di Hitler, la guerra del Vietnam e così via. La “nebbia della guerra” viene preceduta dalla “nebbia della pace” o, se vogliamo, la “guerra in atto” segue la “guerra potenziale”, per definizione foriera di errori di valutazione. Il conflitto in Ucraina ci offre un chiaro esempio di sovrapposizione di errori speculari.

La Nato non si aspettava, sino all’estate del 2021, che la Russia accumulasse il proprio risentimento armato e si preparasse all’invasione. D’altra parte, Putin – con un’opinione pubblica in parte ostile a una guerra contro una popolazione sorella – non si aspettava che la propria armata, due terzi circa di quella disponibile all’intervento, si impantanasse in un conflitto con un’Ucraina largamente ostile.

Quanto all’Ucraina l’ingenuità del presidente Zelenskyi e il cinismo delle autorità della Nato e dell’Unione europea (in varie gradazioni) sono clamorosi. Dopo aver impostato, a partire da piazza Maidan la propria azione come filo-occidentale e filo-Nato, con la cacciata di Yanukovic, oggi il governo ucraino è disposto a rinunciare all’Alleanza e probabilmente a riconoscere le repubbliche separatiste russofone e la Crimea. Una valutazione delle forze in campo tre settimane fa avrebbe facilmente fatto prevedere questo esito. Il cinismo occidentale emerge non solo nell’incessante soffiare sul fuoco della propaganda, ma nell’aver fatto credere all’Ucraina che la Nato l’avrebbe sostenuta contro Putin, a parte l’effettiva fornitura di armi leggere, missili antiaerei e sistemi elettronici.

La richiesta incessante da parte di Zelenskyi di una no-fly zone, che non verrà mai attuata, esprime pateticamente il sovrapporsi di ingenuità dell’uno e cinismo degli altri. Né Biden, né le autorità dell’Alleanza atlantica si spingeranno mai ad avviare una sequenza di azioni e reazioni che potrebbe scatenare un conflitto generale, anche se non nucleare.
Così Putin, tatticamente sconfitto, sta vincendo sul piano strategico. A che prezzo? Per cominciare, a quello della visibile erosione di parte del suo potere politico ed economico. Il default finanziario incombente lo costringe a legarsi alla Cina, che, come unico mercato di sbocco per le materie prime russe, assoggetterà l’economia di Mosca.

E soprattutto a spese della sofferenza di migliaia di civili e militari ucraini e ragazzi russi mandati a morire nella steppa – e di milioni di profughi ucraini, donne e bambini costretti a lasciare il proprio paese bombardato.
Scrivo queste parole, deliberatamente lontane dalla facile emotività oggi dilagante, con il cuore oppresso da una sensazione di impotenza e fatalità. Sotto le logiche più o meno automatiche degli imperi ribollono le illusioni delle popolazioni, le ideologie, le proiezioni fantastiche in orizzonti spaziali e temporali, il dolore e la sofferenza vera che non verranno rimarginati se non dal tempo, ma senza alcuna garanzia che la cecità strategica e la forza delle armi dispiegata non comportino alla fine disastri inimmaginabili.

C’erano alternative? Risponderò con un apologo storico, che trovo in Counterpunch una rivista della sinistra americana specializzata in analisi politiche interne e internazionali. Quando i nazisti invasero Danimarca e Norvegia nel 1940, si trovarono di fronte a due reazioni diverse. La combattiva Norvegia scelse di resistere, sostenuta da Inghilterra e Francia, fu occupata dopo un breve conflitto e il suo governo andò in esilio. La disarmata Danimarca scelse la resistenza passiva – accettò la sconfitta – e cercò di coesistere con il regime nazista. Il re girava con la stella gialla sul petto e i nazisti non sapevano come comportarsi.

Nel 1943, nel corso di una notte, pescatori e diportisti danesi riuscirono a trasportare in Svezia gli ebrei di Danimarca attraverso l’ Øresund, beffando Hitler. Un’azione diversamente eroica, che esprime la nobiltà di quella società nordica. Resistere con le armi o accettare una sconfitta oggi che potrebbe portare a una vittoria domani: ecco una scelta tra due strategie che non possiamo chiedere al dittatore revanscista Putin, ma a chi lo contrasta in nome dei valori democratici. Qualche leader Nato avrebbe dovuto suggerirla a Zelenskyi, se solo entrambi avessero un minimo di cultura storica.

Al servizio del pensiero unico

Media. L’informazione è oggi una componente attiva della guerra: in Russia si rischia la prigione se viene rotta l’omertà e il dissenso è proibito con logiche fasciste; nel democratico occidente censure e autocensure impazzano.

Vincenzo Vita  18.03.2022

A leggere il lungo post pubblicato sulla sua pagina di Facebook dallo storico Angelo d’Orsi c’è da rabbrividire. Si racconta di una lettera inviata al direttore de La Stampa per protestare legittimamente contro una grande fotografia pubblicata in prima pagina.

Dal quotidiano raffigurante una carneficina di civili a Donetsk dello scorso 14 marzo. Si attribuiva ai russi la colpa del macello e non – come comprovato- all’esercito ucraino. Nel post si evoca persino la fonte incerta e non trasparente della foto medesima.

Guai a difendere Putin, ovviamente. Tra l’altro, se c’è una voce insospettabile di strane simpatie è proprio il manifesto, ben più lesto di tanti commentatori di oggi ad individuare la degenerazione profonda del modello sovietico e il baratro di quelli succeduti al cosiddetto socialismo di stato. Tuttavia, l’informazione non deve mai sedersi su qualche curva da stadio, avendo il compito deontologico di rendere consapevoli le persone che usufruiscono dei media.

Fa impressione, quindi, che una storica testata guidata peraltro da uno stimato professionista scada a tali livelli, mostrandosi persino offesa per le critiche. In verità, proprio una simile contraddizione ci racconta la realtà della sottomissione verso le linee ufficiali, che prendono (strumentalmente?) le difese del popolo ucraino (cosa sacrosanta) per rinvigorire nei fatti la religione atlantista: così scolorita nel tempo e ora ringalluzzita con l’aumento delle spese militari.

L’informazione è oggi una componente attiva della guerra: in Russia si rischia la prigione se viene rotta l’omertà e il dissenso è proibito con logiche fasciste; nel democratico occidente censure e autocensure impazzano.

Il sindacato dei giornalisti della Rai ha chiesto all’azienda di chiarire come mai il servizio pubblico italiano non riprenda le corrispondenze da Mosca, a differenza di ciò che hanno deciso le testate internazionali e pure diverse italiane. I giornalisti hanno sottolineato che nessuno di loro aveva chiesto di rientrare. Inoltre, aggiunge l’UsigRai, continua nei programmi di rete e nei telegiornali il ricorso ai freelance, senza neppure chiarire se ne siano garantiti la sicurezza e un equo compenso. Il precariato prevale a dispetto dei santi?

Insomma, che ne è delle inviate e degli inviati? La Rai è embedded? Eppure, la percentuale delle notizie sulla guerra, in termini di titoli, è di circa il 75% del totale delle edizioni e gli ascolti aumentano moltiplicati dalla relazione non conflittuale ma sinergica con i social. La tendenza è simile per le emittenti private e una parte dei talk (in particolare, Presa diretta e Piazza pulita). Non dimentichiamo, però, che l’apparato pubblico ha un surplus di obblighi, come recita il contratto di servizio che giustifica la concessione. Il sindacato chiede di sapere e pone così una questione strategica: l’informazione è la trama nervosa della società e l’utilizzo del segreto è un’arma impropria. Non bastano le non stop delle redazioni centrali con una nuova compagnia di giro di ospiti.

La riduzione a sloganistica manipolatrice è la negazione della ricerca della verità e del metodo dell’argomentazione. Ciò significa che la stessa presunta verità va proposta, discussa, analizzata. Se è imposta come naturale e lineare, perentoria e aprioristica, è la prima vittima del conflitto bellico. Se l’informazione prevalente assume le sembianze di un pensiero unico, la guerra ottiene un ulteriore effetto collaterale: il bavaglio di regime. Con tanti saluti all’articolo 21 della Costituzione.

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