Un prestito alle nuove generazioni
di Piero BEVILACQUA –
Il paradosso, clamoroso fino allo scandalo, è diventato inoccultabile, eppure il ceto politico non vuole vederlo. Il risparmio delle famiglie italiane continua a gonfiarsi – come ha ricordato di recente il governatore della Banca d’Italia – e non va agli investimenti, accresce la tesaurizzazione. Sono anni che questo accade, nonostante gli effetti della crisi mondiale e nonostante l’immobilità o quasi, quando non la regressione, dell’economia italiana. Naturalmente non tutte le famiglie risparmiano, solo una percentuale, mentre le altre non solo hanno difficoltà a risparmiare, ma vanno impoverendosi. Quindi una parte del Paese continua ad accumulare, non investe, mentre un’altra parte, crescente, perde terreno, con danno generale e lacerazione del tessuto sociale.
Ebbene, questa divaricazione distruttiva avviene in un Paese come l’Italia dove la ricchezza netta delle famiglie è fra le più alte d’Europa: quasi 8 volte il reddito disponibile, mentre quello della Francia è 7,5 volte, quello della Germania 5,5. La nostra ricchezza immobiliare, soprattutto la casa, rimane sovrastante fra tutti i grandi stati continentali (G. De Felice, Gli italiani sono un popolo di cicale che affonda nei debiti, in AA.VV. Il pregiudizio universale, Laterza 2016). A questa maggior ricchezza patrimoniale del resto corrisponde anche un minor indebitamento delle famiglie. A fine 2015 esso era intorno al 43% del PIL, contro il 54% della Germania, il 56% della Francia, l’87% del Regno Unito. Anche le nostre imprese, per quanto strano possa sembrare, sono meno indebitate della media dell’Eurozona (77% contro 105%).
A fronte di questa continua accumulazione della ricchezza privata si staglia, come una montagna, il nostro debito pubblico (oltre il 133% del PIL) che illustra, a chi ha intelligenza per leggere i fenomeni, la storia dell’economia italiana degli ultimi decenni. I privati, famiglie e imprese, si sono arricchiti a spese dello stato che è andato accumulando debiti. Si sono arricchiti, certo anche con il lavoro e l’impresa. Ma una parte crescente ha accumulato ricchezza attraverso l’evasione fiscale, grazie alle esenzioni e alle agevolazioni pubbliche, per mezzo di una corruzione famelica dilagante. Ebbene dovrebbe essere evidente a tutti che, governi di centro-sinistra o di centro-destra, nulla è cambiato e nulla cambia nel modello di accumulazione capitalistica dell’Italia. E questo è il nodo che paralizza il nostro Paese.
È noto, infatti, che le politiche neoliberistiche hanno provato, a tutte le latitudini del pianeta, il loro irrimediabile fallimento. Ma in Italia esse continuano a provarlo in maniera specifica alla luce dei caratteri storici del nostro capitalismo. L’Italia è diventato un paese industriale moderno grazie al ruolo del potere pubblico, grazie all’azione dello Stato, sia in età liberale, con l’impulso dato alla creazione delle infrastrutture ferroviarie e viarie, la siderurgia e la chimica, sia in età fascista con la nascita dell’IRI, non diversamente che nel dopoguerra con l’ENI e gran parte delle industrie a partecipazione statale. La storia naturalmente non è né un vincolo né un’ipoteca sul futuro. Ma è ormai evidente che l’Italia, senza una capacità di stimolo e di investimento diretto da parte del potere pubblico, contando sull’attrazione di investimenti esteri attraverso la precarizzazione del lavoro, annaspa e affonda.
Ebbene, come uscire dalla trappola? La politica di austerità della UE ci condanna a morte. L’ultima capitolazione del nostro ministro dell’Economia di fronte alle imposizioni di Bruxelles non lascia dubbi. L’Unione è governata da modesti contabili che stanno distruggendo uno dei più ambiziosi progetti politici del Novecento. E l’Italia non ha né le forze né il prestigio per opporre un diverso corso alla Germania e ai suoi alleati. Nel frattempo, crescita o non crescita, flessibilità del lavoro o meno, la disoccupazione della nostra gioventù naviga sul 40%. Una cifra spaventosa. Come può sopravvivere un paese che condanna alla disperazione sociale quasi la metà delle nuove generazioni?
Ma dietro queste cifre e quelle relative al risparmio delle famiglie, esiste un legame che occorre portare in luce. Perché il paradosso insostenibile non è solo quello tra debito pubblico e risparmio privato. Esso riguarda anche le generazioni. Perché le famiglie che risparmiano e non investono, sono anche quelle i cui figli non trovano lavoro o lo svolgono in condizioni precarie, o trovano rifugio all’estero. I nonni e i padri, accumulano ricchezza e i figli e i nipoti sono impossibilitati a esprimere la propria energia e creatività.
Allora, non è evidente che il passo drammaticamente necessario è trasferire una quota significativa di ricchezza privata al potere pubblico per investimenti diretti di grande peso?
È questa la leva più potente per rimettere in moto l’economia nazionale. Ma naturalmente il nostro ceto politico latita, perché teme gli esiti elettorali di una proposta di patrimoniale. Eppure qualcuno deve trovare l’onestà e il coraggio di dire ai padri e ai nonni delle famiglie abbienti d’Italia che senza il loro contributo i loro figli e nipoti non hanno avvenire e che l’Italia arretrerà, scivolando nella disgregazione sociale e nelle reti criminali.
Occorre elaborare una proposta egemonica, tecnicamente ben congegnata, una specie di prestito generazionale, per affidare alla mano pubblica un grande progetto di investimento, che può costituire anche una delle forme più dinamiche di redistribuzione della ricchezza.
[si veda il commento di Anna Marson al testo di Piero Bevilacqua]
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