UN’ALTRA VIA PER VINCERE SULLA GUERRA? da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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UN’ALTRA VIA PER VINCERE SULLA GUERRA? da IL MANIFESTO

Un’altra via per vincere sulla guerra?

IN UNA PAROLA. La rubrica settimanale su linguaggio e società. A cura di Alberto Leiss

Alberto Leiss  01/08/2023

La guerra in Ucraina ci sta mostrando, forse più degli altri conflitti seguiti al 1945, quanto sia tragicamente assurdo pensare di risolvere i contrasti tra gli Stati, i popoli, le culture, gli interessi economici, le visioni del mondo, affidandosi alla forza delle armi. Uccidendo soldati sconosciuti, ridotti a numeri e sagome da abbattere, e civili ridotti a effetti collaterali. Distruggendo città, campagne (e il grano «dono di Dio»), infrastrutture civili, guerreggiando nei pressi di centrali nucleari…Tutto ciò in un mondo dove molti governi, a cominciare dalla Russia, dispongono di bombe nucleari in grado di eliminarci tutti.

Un capo dell’esercito americano ha detto che questa guerra non potrà essere risolta con l’azione militare. Un generale italiano ha affermato che ci vorrà un altro anno di massacri perché sul territorio si creino le condizioni di un negoziato. Se vuoi la pace, devi vincere la guerra?

Consola che molti uomini disertino in Russia, e alcuni anche in Ucraina e altrove. È un fatto che molte donne con bambini e anziani siano scappate dall’Ucraina. Molte vorrebbero tornare. Alcune tornano. Molte altre si sistemano nei paesi che le hanno accolte.

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Le opinioni pubbliche oscillano. Hanno paura. Ma è ben presente anche un sentimento di giustizia per cui chi è aggredito ha il diritto di difendersi, e va aiutato. Il pacifismo si attiva generosamente. Ma fatica a ottenere un consenso, a attivare una «mobilitazione» (parola troppo intrisa di un linguaggio militare) in grado di premere su chi avrebbe il potere di agire per un cessate il fuoco. Per passare dalle bombe a qualche scambio di parole, proposte, domande capaci di ascolto. Mi chiedo se non sia venuto il tempo di porre la questione in altri termini, più radicali. La guerra è possibile perché la fanno coloro che la combattono, trovando giustificazioni considerate moralmente alte. È bello morire per la Patria. È ancora più bello morire per la libertà e la giustizia.

E invece no. Non è mai bello morire, per nessun altissimo ideale. Ancora meno bello morire avendo messo nel conto di uccidere.

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C’è una radice antropologica della guerra, senza guardare la quale forse non si riesce a uscire dallo schema mentale e sentimentale che la sostiene e la considera giusta.

Mi è già capitato di sostenere qui – come ipotesi da investigare – che questa radice ha a che fare con il regime simbolico patriarcale. L’onore virile è alla base del duello, e il duello – Clausewitz dixit – è alla base della guerra («La guerra non è altro che un duello su larga scala»).

Oggi si comincia a vedere anche da parte maschile – ma non basta ancora – che le violenze quotidiane contro le donne, gli stupri i femminicidi, sono agiti da noi uomini. Dipendono non solo da “patologie”, ma da quella cultura patriarcale che ci attraversa, diversamente, tutti.

Dovremmo vedere finalmente che anche la guerra è sostenuta da questa visione di noi stessi, degli altri e del mondo. Fare la guerra ci fa orrore, ma ci dà anche forza, soddisfazione. Ci legittima come eroi, ci accoglie tra chi ci disprezzava persino se siamo un battaglione glbtqia+, come sta accadendo in Ucraina.

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Della guerra e dei suoi nessi con la virilità abbiamo discusso nella rete di Maschile plurale. Ne è nato un testo-resoconto, «Maschi e guerra», ed è stato avviato un confronto («Cominciando a discutere. Noi maschi e la guerra»), disponibili entrambi sul sito della rete. Proveremo a coinvolgere altri, altre, altr*: non cerchiamo adesioni a una tesi. Ma approfondire i sentimenti, le opinioni, le esperienze, le domande. Soprattutto tra chi la pensa diversamente

Una figura ancestrale con la potenza della trasformazione

INDAGINI. «Grandi madri mediali», il saggio di Roberta Bartoletti in seconda edizione aggiornata, pubblicato da Liguori. Nel libro si indaga la reviviscenza nel cinema, nel fumetto e nella fiction

Tiziana Migliore  01/08/2023

Le statuette di Hohle Fels, di Willendorf e di molti altri siti del mondo, chiamate erroneamente «Veneri» preistoriche e considerate i più antichi esempi di arte figurativa, non sono solo l’emblema della fertilità. Testimoniano di società in cui prevaleva il culto per la Madre terra e la donna, con la sua potenza di trasformazione e creazione, aveva un ruolo guida. Insegnava a gestire le attività agricole rispettando le fasi della semina e del raccolto, analoghe al ciclo della vita umana come nascita, morte e rigenerazione.

L’ETÀ DEL BRONZO e i sistemi inclini all’uso e alla fabbricazione delle armi sono subentrati a questa cultura, sancendo il salto dalla terra-madre e dalle divinità ctonie al cielo-padre delle divinità uraniche. Atena, dea della guerra, nasce non da un ventre femminile ma già adulta e armata dalla testa di Zeus per affermare la supremazia del maschio. Il mito greco traduce una concezione dei rapporti familiari e politici per cui è l’uomo a trasmettere l’eredità della «pianta». In parallelo e in seguito Afroditi, Veneri romane e ninfe moderne, con un sex appeal tutto in prospettiva maschile, concorreranno a ridurre poteri e saperi della donna alla sola dimensione sessuale e seduttiva e ad inculcare il patriarcato nella coscienza delle società umane. Ma l’immagine delle dea madre perdura.

Grandi madri mediali, il saggio di Roberta Bartoletti (Liguori, pp. 168, euro 20,90) in seconda edizione aggiornata, indaga questa figura ancestrale, risalente a 35mila anni fa, e ne ipotizza la reviviscenza nel cinema, nel fumetto e nella fiction contemporanei.

IL PRIMO CAPITOLO, a firma di Lorenzo Giannini, è un’analisi sincronica e diacronica, forte del lavoro archeologico di Marija Gimbutas, della dea madre: tratti fisici – seni e natiche sproporzionati e ventre gravido – contesti d’uso e rituali – luoghi per il parto, sepolture, campi, templi, forni per il pane – e animali a lei associati, simbolo di rigenerazione: orse, uccelli, serpenti, cervi, rane.

A livello semantico, oltre al legame indissolubile fra natura e cultura come aspetti di una stessa dinamica, emerge un’ambivalenza vita-morte che rende la dea prolifica, ma anche pericolosa e terribile. Ecco allora lo sdoppiamento terra e inferi nelle coppie madre-figlia della civiltà classica Demetra-Persefone e Cerere-Proserpina, più tardi convertite nel binomio cristiano Sant’Anna-Maria distinguendo però progressivamente le capacità terapeutiche e miracolose dalla stregoneria, il lecito dall’illecito.

I MEDIA DI MASSA, predisposti ad accogliere motivi transculturali, offrono alla dea madre ambienti adatti da abitare. Tre film di Hayao Miyazaki, da un lato, e l’universo delle supereroine mutanti DC Comics e Marvel, dall’altro, sono esaminati – nota Gino Frezza nella postfazione al libro – con una domanda più ampia rispetto ai consueti studi di genere ed etnici della sociologia dei processi culturali. Le produzioni mediali che presentano questo soggetto riescono a trasformare cognitivamente ed emotivamente i pubblici, a fornire diverse versioni del ruolo del femminile, a far meglio comprendere le soglie della vita personale e pubblica, le difficoltà della crescita e dei cambiamenti? Hanno ancora l’efficacia simbolica del mito o qui la dea madre è solo sfruttata per l’intrattenimento?

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