MUOIA SANSONE CON TUTTI I PALESTINESI da IL MANIFESTO e OFFICINA DEI SAPERI
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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MUOIA SANSONE CON TUTTI I PALESTINESI da IL MANIFESTO e OFFICINA DEI SAPERI

Muoia Sansone con tutti i palestinesi

ISRAELE/PALESTINA. I ministri di estrema destra imbarcati da Netanyahu sono propensi ad accaparrarsi l’intera Cisgiordania per diritto biblico; e pazienza se la Corte Penale Internazionale ha condannato gli espropri, gli insediamenti e il muro di 700 km che toglie acqua e terra fertile a chi vive lì da sempre

Giuseppe Cassini *  04/11/2023

Narra la Bibbia (Giudici, 16): «Sansone giunse a Gaza. I Filistei, appena informati del suo arrivo, si accordarono: “All’alba lo uccideremo”. Ma egli afferrò le porte della città e le divelse… Quando infine fu catturato e incatenato, il popolo ringraziò Dio: «Ha messo nelle nostre mani colui che devastava la nostra terra e moltiplicava i nostri morti». Quindi lo incatenarono tra le colonne del tempio davanti al popolo. Ma Sansone si aggrappò alle due colonne centrali gridando: «Che io muoia con i Filistei!». E il tempio crollò. Furono più i Filistei uccisi di quanti egli aveva ucciso in vita». Tutto ciò avvenne a Gaza millenni fa, ma ora si sta ripetendo.

Si dice a ragione che la guerra fa strage della verità. Affinché non succeda stavolta, conviene riepilogare alcuni punti fermi, senza tema di venir accusato di pregiudizi, perché chi ha visitato fin da giovane Mauthausen, Dachau, Auschwitz e lo Yad Vashem resta immune da ogni traccia di antisemitismo.

Il massiccio sbarco di ebrei in Palestina è fenomeno recente. Si fonda su uno slogan coniato nel primo ‘900 dal movimento sionista: «Un popolo senza terra per una terra senza popolo». Uno slogan «fondamentalmente falso» l’ha definito l’insigne musicista Daniel Barenboim, precisando che un secolo fa «la popolazione ebraica in Palestina era solo il 9%». Lo confermano stime attendibili: gli israeliti non erano più di 50.000 e i palestinesi 500.000 circa. Ma ancora nel 1946 si contavano 600.000 israeliti in una terra abitata in prevalenza da palestinesi (molti cristiani). Oggi ebrei e palestinesi sono a parità: poco più di 6 milioni gli uni e gli altri. Non potendo negare la realtà demografica, i governanti israeliani hanno tentato di cancellarla in altro modo. «Non esistono palestinesi, esistono solo arabi» sosteneva Golda Meir nel 1969. E via negando, fino all’attuale ministro delle Finanze, Smotrich, che il 19 marzo a Parigi ha stupito i francesi affermando: «Il popolo palestinese è un’invenzione che ha meno di cent’anni. Hanno forse una storia, una cultura? No. Esistono solo arabi».

Oggi 12 milioni di abitanti convivono nella stessa terra ma fanno sogni diversi. Nel profondo di ogni palestinese si annida la convinzione che prima o poi gli ebrei se ne andranno, come se n’andarono gli ultimi crociati nel 1291. Gli israeliani, invece, sognano di tuffarsi nel Lete per uscirne beneficiati del dono dell’oblio. Questo tentativo di far sparire per magia 6 milioni di palestinesi è stato definito dal quotidiano Haaretz un «memoricidio».

Il 7 ottobre Hamas ha brutalmente trucidato 1400 israeliani; ora Tsahal punta a eliminare almeno 14.000 palestinesi, secondo la regola non scritta dei dieci contro uno. Ma la barbarie di Hamas nello sgozzare bimbi ebrei è sotto gli occhi di tutti; mentre il massacro decuplicato di bimbi palestinesi non viene percepito come altrettanto grave, perché Hamas difetta della potenza mediatica d’Israele. Il che aiuta a spiegare come mai l’Occidente usi due pesi e due misure in questo conflitto. «Il diritto internazionale è carta straccia se implementato selettivamente» ha deplorato il re di Giordania, dopo aver visto il Sud globale affollare le piazze a sostegno di Hamas e dei suoi tagliagole.

Nel frattempo Smotrich, in quanto ministro delle Finanze, deve decidere come coprire le spese del conflitto. Tagliare agli ultraortodossi i sussidi che aveva appena aumentati? Inaccettabile, anche se in genere quelli non lavorano, non servono nell’esercito, non pagano tasse e lanciano sassi a chi capita il sabato di camminare nei loro quartieri (la Bibbia imporrebbe la lapidazione – cfr. Esodo 35, 2 e Numeri 15, 32 – ma ora non si usa più).

I ministri di estrema destra imbarcati da Netanyahu sono propensi ad accaparrarsi l’intera Cisgiordania per diritto biblico; e pazienza se la Corte Penale Internazionale ha condannato gli espropri, gli insediamenti e il muro di 700 km che toglie acqua e terra fertile a chi vive lì da sempre. Di fatto i coloni continuano ad avanzare metro dopo metro, rendendo inattuabile l’ormai ipocrita soluzione dei «due popoli due Stati». Se però lasciamo marcire questa crisi, la erediteranno le nuove generazion – così come per la crisi climatica non gestita da noi a tempo debito. Forse, un’alternativa sarebbe ancora esperibile, a queste condizioni: dimissioni di Netanyahu e del suo governo razzista; liberazione di Marwan Barghouti (il Mandela palestinese in carcere dal 2002); piano per una confederazione israelo-palestinese sui generis; dispiegamento dei “caschi blu” votato dal CdS dell’Onu. Utopie? Forse. Ma chi vive laggiù non ne può più di versare sangue: aspira solo alla requie, alla pace. Nel poema epico dei Maya c’è un brano che potrebbe ispirarli: «Ogni luna, ogni anno, ogni giorno, ogni vento arriva e passa. Anche tutto il sangue giunge al luogo del suo riposo (Toda sangre tanbièn llega al lugar de su quietud)».

* ex ambasciatore in Libano

Lettera agli ebrei italiani

MEMORIA ATTUALE. La distinzione fra ebraismo e stato d’Israele, che fino a ieri ci era potuta parere preziosa acquisizione contro i fanatismi, è stata rimessa in forse dall’assenso o dal silenzio della Diaspora. Una grande donna ebrea cristiana, Simone Weil ha ricordato che la spada ferisce da due parti. Anche da più di due, oso aggiungere

Franco Lattes Fortini  04/11/2023

Ogni giorno siamo informati della repressione israeliana contro la popolazione palestinese. E ogni giorno più distratti dal suo significato, come vuole chi la guida. Cresce ogni giorno un assedio che insieme alle vite, alla cultura, le abitazioni, le piantagioni e la memoria di quel popolo e – nel medesimo tempo – distrugge o deforma l’onore di Israele. In uno spazio che è quello di una nostra regione, alle centinaia di uccisi, migliaia di feriti, decine di migliaia di imprigionati – e al quotidiano sfruttamento della forza-lavoro palestinese, settanta o centomila uomini – corrispondono decine di migliaia di giovani militari e colono israeliani che per tuttala loro vita, notte dopo giorno, con mogli, i figli e amici, dovranno rimuovere quanto hanno fatto o lasciato fare.

Anzi saranno indotti a giustificarlo. E potranno farlo solo in nome di qualche cinismo real-politico e di qualche delirio nazionale o mistico, diverso da quelli che hanno coperto di ossari e monumenti l’Europa solo perché è dispiegato nei luoghi della vita d’ogni giorno e con la manifesta complicità dei più. Per ogni donna palestinese arrestata, ragazzo ucciso o padre percosso e umiliato, ci sono una donna, un ragazzo, un padre israeliano che dovranno dire di non aver saputo oppure, come già fanno, chiedere con abominevole augurio che quel sangue ricada sui propri discendenti. Mangiano e bevono fin d’ora un cibo contaminato e fingono di non saperlo. Su questo, nei libri dei loro e nostri profeti stanno scritte parole che non sta me ricordare.

QUELL’ASSEDIO PUÒ vincere. Anche le legioni di Tito vinsero. Quando dalle mani dei palestinesi le pietre cadessero e – come auspicano i “falchi” di Israele – fra provocazione e disperazione, i palestinesi avversari della politica di distensione dell’Olp, prendessero le armi, allora la strapotenza militare israeliana si dispiegherebbe fra gli applausi di una parte dell’opinione internazionale e il silenzio impotente di odio di un’altra parte, tanto più grande. Il popolo della memoria non dovrebbe disprezzare gli altri popoli fino a crederli incapaci di ricordare per sempre.

GLI EBREI DELLA Diaspora sanno e sentono che un nuovo e bestiale antisemitismo è cresciuto e va rafforzandosi di giorno in giorno fra coloro che dalla violenza della politica israeliana (unita alla potente macchina ideologica della sua propaganda, che la Diaspora amplifica) si sentono stoltamente autorizzati a deridere i sentimenti di eguaglianza e le persuasioni di fraternità. Per i nuovi antisemiti gli ebrei della Diaspora non sono che agenti dello stato di Israele. E questo è anche l’esito di un ventennio di politica israeliana.

L’USO CHE QUESTA ha fatto della diaspora ha rovesciato, almeno in Italia, i rapporto fra sostenitori e avversari di tale politica, in confronto al 1967. Credevano di essere più protetti e sono più esposti alla diffidenza e alla ostilità.

Onoriamo dunque chi resiste nella ragione e continua a distinguere fra politica israeliana e ebraismo. Va detto anzi che proprio la tradizione della sinistra italiana (da alcuni filoisraeliani sconsideratamente accusata di fomentare sentimenti razzisti) è quella che nei nostri anni ha più aiutato, quella distinzione, a mantenerla. Sono molti a saper distinguere e anch’io ero di quelli. Ma ogni giorno di più mi chiedo: come sono possibili tanto silenzio o non poche parole equivoche fra gli ebrei italiani e fra gli amici degli ebrei italiani? Coloro che ebrei o amici degli ebrei – pochi o molti, noti o oscuri, non importa – credono che la coscienza e la verità siano più importanti della fedeltà e della tradizione, anzi che queste senza di quelle imputridiscano, ebbene parlino finché sono in tempo, parlino con chiarezza, scelgano una parte, portino un segno. Abbiano il coraggio di bagnare lo stipite delle loro porte col sangue dei palestinesi, sperando che nella notte l’Angelo non lo riconosca; o invece trovino la forza di rifiutare complicità a chi quotidianamente ne bagna la terra, che contro di lui grida. Né mentiscano a se stessi, come fanno, parificando le stragi del terrorismo a quelle di un esercito inquadrato e disciplinato. I loro figli sapranno e giudicheranno.

E SE ORA MI SI CHIEDESSE con quale diritto e in nome di quale mandato mi permetto di rivolgere queste domande, non risponderò che lo faccio per rendere testimonianza della mia esistenza o del cognome di mi padre e della sua discendenza da ebrei. Perché credo che il significato e il valore degli uomini stia in quello che essi fanno d sé medesimi a partire dal proprio codice genetico e storico non in quel che con esso hanno ricevuto in destino. Mai come su questo punto – che rifiuta ogni «voce del sangue» e ogni valore al passato ove non siano fatti, prima, spirito e presente; sé che partire da questi siano giudicati – credo di sentirmi lontano da un punto capitale dell’ebraismo o da quel che pare esserne manifestazione corrente.

IN MODO AFFATTO diverso da quello di tanti recenti, e magari improvvisati, amici degli ebrei e dell’ebraismo, scrivo queste parole a una estremità di sconforto e speranza perché sono persuaso che il conflitto di Israele e di Palestina sembra solo, ma non è, identificabile a quei tanti conflitti per l’indipendenza e la libertà nazionali che il nostro secolo conosce fin troppo bene.

Sembra che Israele sia e agisca oggi come una nazione o come il braccio armato di una nazione, come la Francia agì in Algeria, gli Stati uniti in Vietnam o l’Unione Sovietica in Ungheria o in Afghanistan. Ma, come la Francia era pur stata, per il nostro teatro interiore, il popolo di Valmy e gli Americani quelli del 1775 e i sovietici quelli del 1917, così gli ebrei, ben prima che soldati di Sharon, erano i latori di una parte dei nostri vasi sacri, una parte angosciosa e ardente della nostra intelligenza, delle nostre parole e volontà. Non rammento, quale sionista si era augurato che quella eccezionalità scomparisse e lo stato di Israele avesse, come ogni altro, i suoi ladri e le sue prostitute. Ora li ha e sono affari suoi. Ma il suo Libro è da sempre anche il nostro, e così gli innumerevoli vivi e morti libri che ne sono discesi. È solo paradossale retorica dire che ogni bandiera israeliana da nuovi occupanti innalzata a ingiuria e trionfo sui tetti di un edificio da cui abbiano, con moneta o minaccia, sloggiato arabi o palestinesi della città vecchia di Gerusalemme, tocca alla interpretazione e alla vita di un verso di Dante o al senso di una cadenza di Brahms?

LA DISTINZIONE fra ebraismo e stato d’Israele, che fino a ieri ci era potuta parere una preziosa acquisizione contro i fanatismi, è stata rimessa in forse proprio dall’assenso o dal silenzio della Diaspora. E ci ha permesso di vedere meglio perché non sia possibile considerare quel che avviene alle porte di Gerusalemme come qualcosa che rientra solo nella sfera dei conflitti politico-militari e dello scontro di interessi e di poteri. Per una sua parte almeno, quel conflitto mette a repentaglio qualcosa che è dentro di noi.

OGNI CASA CHE gli israeliani distruggono, ogni vita che quotidianamente uccidono e persino ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di Palestina, va perduta una parte dell’immenso deposito di verità e di sapienza che, nella e per la cultura d’Occidente, è stato accumulato dalle generazioni della Diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti. Una grande donna ebrea cristiana, Simone Weil ha ricordato che la spada ferisce da due parti. Anche da più di due, oso aggiungere. Ogni giorno di guerra contro i palestinesi, ossia di falsa coscienza per gli israeliani, a sparire o a umiliarsi inavvertiti sono un edificio, una memoria, una pergamena, un sentimento, un verso, una modanatura della nostra vita e patria. Un poeta ha parlato del proscritto e del suo sguardo «che danna un popolo intero intorno ad un patibolo»: ecco, intorno ai ghetti di Gaza e Cisgiordania ogni giorno Israele rischia una condanna ben più grave di quelle dell’Onu, un processo che si aprirà ma al suo interno, fra sé e sé, se non vorrà ubriacarsi come già fece Babilonia.

LA NOSTRA VITA non è solo diminuita dal sangue e dalla disperazione palestinese; lo è, ripeto, dalla dissipazione che Israele viene facendo di un tesoro comune. Non c’è laggiù università o istituto di ricerca, non biblioteca o museo, non auditorio o luogo di studio e di preghiera capaci di compensare l’accumulo di mala coscienza e di colpe rimosse che la pratica della sopraffazione induce nella vita e nella educazione degli israeliani.

E ANCHE in quella degli ebrei della Diaspora e dei loro amici. Uno dei quali sono io. Se ogni loro parola toglie una cartuccia dai mitra dei soldati dello Tsahal, un’altra ne toglie anche a quelli, ora celati, dei palestinesi.
Parlino, dunque.

* «Il manifesto» ha pubblicato questo testo la prima volta il 24/5/1989 e una seconda volta il 18 gennaio 2009. I problemi e le domande che pone restano ancora oggi aperti e immutati. Semmai «solo» aggravati.

Un dolente spirito di verità

UN TESTO ACCORATO. Franco Fortini scrisse il suo testo biografico più incandescente nel giugno del ’67, appena dopo la guerra dei Sei giorni, e si intitolava, quella memoria di lui nato Lattes da […]

Massimo Raffaeli  04/11/2023

Franco Fortini scrisse il suo testo biografico più incandescente nel giugno del ’67, appena dopo la guerra dei Sei giorni, e si intitolava, quella memoria di lui nato Lattes da padre ebreo e battezzato valdese, I cani del Sinai, titolo ambivalente, come spiegava introducendolo: quella immagine vuol dire sia che nel Sinai in realtà non ci sono cani sia, più fondatamente, un sinonimo di correre in soccorso del vincitore.

Fortini ritorna agli anni della sua educazione in rapporto e in corto circuito con il suo presente sotto la pressione che su di lui fanno da un lato l’opinione di chi gli è vicino dal punto di vista ideologico e dall’altro suoi parenti ebrei che vorrebbero un sostegno all’azione dei carri con la stella di Davide comandati da Moshe Dayan.

Fortini non si sottrae ma analizza criticamente, discerne, una materia per lui così personalmente toccante e arrischiata: quello che gli preme intendere e sottolineare è il pericolo stesso di oggi per cui non gli interessa un prendere parte quale a priori o , peggio, metafisica dei buoni e dei malvagi. Di quella, di ogni guerra interroga invece il pericolo capitale e dunque non solo la perdita non rsarcibile di vite umane ma anche la disumanizzazione progressiva tanto di chi viene offeso quanto di chi offende. Gli hanno insegnato le Scritture che la spada ferisce e sanguina da due lati: scrive nel ‘67, sa quale strage incommensurabile stia alle spalle degli ebrei ma si sottrae al coro di quanti vedono negli arabi, indistintamente, dei sostenitori del nazionalismo aggressivo di Nasser e non invece masse di sfruttati e di esseri umiliati, senza voce e destino.

Preme a Fortini di salvaguardare sempre la zona di umanità comune fra le parti in conflitto: ai suoi occhi chi dà il primo colpo, che oggi è l’aggressione criminale di Hamas, rende subito possibile la rappresaglia indiscriminata, e viceversa. Manzoni ha insegnato a Fortini il principio della corresponsabilità di chi fa il male, che induce la vittima a farlo.

Come Fortini, sarà Primo Levi a richiamare la terribile diagnosi del Manzoni ne I sommersi e i salvati.

Chi guardi oggi ai fatti di Gaza deve constatare per la ennesima volta una dinamica tanto antica da apparire purtroppo fatale.

A distanza dal 1967 Fortini tornerà a discorrerne dopo i massacri di Sabra e Chatila, nel 1982, e poi per la Prima Intifada, con questa «lettera agli ebrei italiani» uscita su il manifesto il 24/5/1989 – nel momento in cui il popolo palestinese si ribella in maniera cosciente al suo stato di umiliazione e segregazione: si tratta di un testo che nulla ha perso della sua radicalità e del suo accorato dolente spirito di verità.

Piero Bevilacqua:

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