MA TRUMP È SOLO IL FIGLIO DEGLI SQUILIBRI DI SISTEMA da IL FATTO
Ma Trump è solo il figlio degli squilibri di sistema
Francesco Sylos Labini 4 Maggio 2025
Alla fine della Seconda guerra mondiale l’Europa e il Giappone erano in macerie, mentre gli Stati Uniti emergevano come potenza egemone sul piano economico e militare: con un Pil pari alla metà di quello mondiale, un apparato industriale in piena espansione e una posizione di creditore netto verso l’estero, consolidavano il loro ruolo dominante.
George Kennan, uno degli strateghi della politica esterna americana nel dopoguerra, scriveva già nel 1948: “Abbiamo circa il 50% della ricchezza mondiale ma solo il 6,3% della popolazione… Il nostro vero compito è mantenere questa posizione di disparità”. Al di là della retorica su “democrazia”, “diritti umani” o “sicurezza nazionale”, la priorità storica della politica estera americana è sempre stata la difesa della propria egemonia e dei privilegi economici.
Proprio in questo contesto prese forma, sia negli Stati Uniti sia nei paesi occidentali, la promessa di benessere, sicurezza e mobilità sociale: il cosiddetto “sogno americano”. Durante i “gloriosi trenta” (1945-1975), la crescita industriale garantì occupazione stabile, salari dignitosi e lo sviluppo di un welfare state diffuso, capace di assicurare sanità, tutele sociali e istruzione di qualità. Oggi però quel sogno sopravvive solo nell’immaginario cinematografico. Dalla fine degli anni 80, con il passaggio da un’economia produttiva a una dominata dalla finanza, il sogno americano è stato rimpiazzato da un’ideologia meritocratica che giustifica le disuguaglianze crescenti con il “darwinismo sociale”: pochi vincitori, molti perdenti.
In questo scenario, la “meritocrazia” funziona più come ideologia che come realtà. Si afferma proprio quando il sogno americano – fatto di lavoro duro e opportunità – diventa inaccessibile: quando i salari si comprimono, le tutele spariscono e il lavoro perde dignità. È il segno che il vecchio capitalismo industriale è stato definitivamente rimpiazzato da un’economia post-globale che concentra ricchezza e svuota la promessa di mobilità sociale.
Negli Stati Uniti, l’1% più ricco detiene quasi un quarto del reddito nazionale (contro il 9% nel 1976) e la metà di tutte le azioni, obbligazioni e fondi comuni, mentre il 50% più povero possiede appena lo 0,5% di questi strumenti. Questi non investono: sopravvivono.
Un amministratore delegato guadagna oggi 380 volte più di un dipendente medio. Le 19 famiglie più ricche controllano una ricchezza pari a 2.600 miliardi di dollari – quasi quanto la metà più povera della popolazione americana – e nel solo 2024 hanno visto aumentare il loro patrimonio più del Pil della Svizzera. L’imponente aumento della ricchezza miliardaria è intimamente connesso con l’aumento del potere economico e monopolistico delle imprese. Tale potere economico, insieme alle correlate rendite di posizione, favorisce l’accumulo di immense fortune nelle mani di pochi individui e accentua le disparità economiche che si traduce in un condizionamento della politica. Trump non è la causa di questo squilibrio, ma il suo prodotto: l’espressione politica di un Paese profondamente diviso tra le élite finanziarie di Wall Street, quelle tecnologiche della Silicon Valley e un entroterra deindustrializzato e impoverito. Le tariffe protezionistiche imposte dalla sua amministrazione, in particolare nei confronti della Cina, non riescono a invertire il declino industriale degli Stati Uniti, la cui economia dipende oggi dalle importazioni di tecnologie avanzate dalla Cina, mentre esporta beni primari come gas e cereali, facilmente sostituibili sul mercato globale.
Anche i tentativi di avviare un processo di pace in Ucraina riflettono una consapevolezza strategica: gli Stati Uniti non dispongono più della capacità economica e industriale per sostenere a lungo una guerra nel cuore dell’Europa, soprattutto se al contempo continuano a garantire un sostegno incondizionato a Israele e a mantenere un confronto commerciale aperto con la Cina.
Ma il nemico più ostinato non proviene dall’esterno: è rappresentato da quelle élite economiche che, avendo prosperato negli ultimi anni, continuano a esercitare un’influenza decisiva sull’agenda politica, economica e, ovviamente, mediatica. Oggi tengono in ostaggio l’Europa, ostacolando qualsiasi iniziativa di pace in Ucraina, un’apertura strategica verso la Cina e riforme redistributive all’interno dei singoli Stati. Sembrano incapaci – o non disposte – a confrontarsi con un ordine mondiale in rapida e profonda trasformazione.
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