PERÙ, TUNISIA: LA CRISI È ESPLOSIVA da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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PERÙ, TUNISIA: LA CRISI È ESPLOSIVA da IL MANIFESTO

Tunisia, la crisi è esplosiva. Tutti contro Saied

«Dégage» (Vattene), è il grido di Tunisi – come per Ben Ali 12 anni fa – contro il presidente Kaid Saied che ha tradito le aspettative del 70% di tunisini che l’hanno votato nel 2019

Giuliana Sgrena  19/01/2023

«Dégage» (Vattene). Lo slogan è tornato a risuonare nelle strade di Tunisi a dodici anni dalla cacciata di Ben Ali, il 14 gennaio 2011, benché la capitale fosse blindata dalle forze di sicurezza che per impedire proteste. Questa volta la rabbia è rivolta contro il presidente Kaid Saied, che ha tradito le aspettative di oltre il 70 per cento dei tunisini che l’avevano votato nel 2019.

Forte del supporto allora ottenuto il presidente ha concentrato nelle sue mani tutti i poteri dello stato: sospeso il parlamento, approvata una costituzione fatta su misura e inscenata una farsa elettorale che però non ha tratto in inganno i tunisini che al 90 per cento hanno disertato le urne, non per disinteresse ma per scelta politica. Lunedì è cominciata, nell’indifferenza generale, la breve campagna elettorale per il secondo turno delle legislative, che si terrà il 29 gennaio. Interessati solo i candidati e il presidente che, dopo il flop del primo turno, ha sostenuto: «La partecipazione si misura sui due tempi, come nelle partite sportive».

Il 14 gennaio in piazza i tunisini hanno riproposto le richieste del 2011: pane, lavoro, dignità. La situazione del paese, sull’orlo della bancarotta, è infatti disastroso: l’indebitamento rappresenta l’80 per cento del Pil e a causa del debito sono bloccate le importazioni, mancano latte, zucchero, burro, caffè, medicine.

La situazione è così drammatica che la Libia ha inviato nei giorni scorsi 96 camion carichi di zucchero, semola, riso e olio d’oliva! Chissà se i ministri italiani Tajani e Piantedosi, che ieri erano a Tunisi per bloccare l’e.migrazione, si sono resi conto che ai tunisini manca anche la pasta.
L’inflazione supera il 10 per cento e la disoccupazione il 15. Gli effetti sono allarmanti: la povertà colpisce il 20 per cento della popolazione. Da mesi è in sospeso un prestito del Fmi di circa 1,9 miliardi di dollari condizionato, tra l’altro, da una ristrutturazione di oltre 100 imprese pubbliche.

Si riparte dunque dal 2011? La rivoluzione dei gelsomini non ha dato l’esito sperato, ma i processi di democratizzazione dopo una dittatura sono spesso ostacolati dalla mancanza di istituzioni solide, mire personali, corruzione. Così il parlamento è stato ostaggio degli islamisti o della frammentazione politica che ha aperto la via all’autoritarismo del paladino dei senza-partito, Kais Saied.

L’opposizione al «golpe» del presidente non sembra tuttavia aver ridato credibilità ai partiti, con l’unica eccezione del Partito desturiano libero (Pdl) di Abir Moussi, la carismatica e ambiziosa avvocata già leader del partito di Ben Ali, ritenuta dai sondaggi, con oltre il 40 per cento, l’unica alternativa valida al presidente. Come gli altri partiti dell’opposizione Abir Moussi chiede le dimissioni del presidente e nuove elezioni, ma nello stesso tempo si scaglia contro l’islam politico impersonato da Rachid Ghannouchi fondatore di Ennahdha, la versione tunisina dei Fratelli musulmani, da lei considerato la causa di tutti i mali dopo il 2011.

Tuttavia, travolto da scandali e inchieste giudiziarie che hanno portato in carcere anche l’ex-primo ministro Ali Larayedh, Ennahdha ha esaurito il credito politico che aveva permesso agli islamisti di vincere le prime elezioni dopo il 2011.
In questo panorama una carta importante potrebbe essere giocata dal sindacato, l’Unione generale dei lavoratori tunisini (Ugtt). Il segretario generale Noureddin Taboubi ha invitato i sindacalisti a mobilitarsi «per una battaglia nazionale ben organizzata per salvare il paese».

L’iniziativa «di salvezza nazionale», che si propone di esaminare la possibilità di tenere elezioni presidenziali anticipate, di emendare la costituzione e la legge elettorale, è stata lanciata dal sindacato in collaborazione con l’Ordine degli avvocati, la Lega tunisina dei diritti dell’uomo (Ltdh) e il Forum tunisino dei diritti economici e sociali (Ftdes). L’iniziativa sembra prefigurare una nuova edizione del Quartetto che nel 2015 aveva vinto il Premio Nobel per la pace «per il suo contributo decisivo alla costruzione di una democrazia pluralista in Tunisia dopo la rivoluzione dei Gelsomini del 2011». Creato nell’estate del 2013, «quando il processo di democratizzazione era sul punto di crollare sotto il peso di assassini politici e disordini», era stato decisivo per evitare che il paese precipitasse nella guerra civile.

L’unica differenza rispetto ad allora è che nel Quartetto Utica (la Confindustria tunisina) è sostituita dal Ftdes, ma le proposte – sostiene l’Ugtt – saranno presentate alle organizzazioni della società civile, ai partiti politici e anche al presidente della Repubblica. Il sindacato ritiene infatti imprescindibile consultare il presidente sulle iniziative da prendere per uscire dall’impasse mentre per i partiti il punto di partenza è l’uscita di scena di Kais Saied.

In marcia verso Lima da tutto il Perù, oggi lo sciopero generale

AMERICA LATINA. Da ogni angolo del paese la protesta sfida lo stato d’emergenza E la presidente Boluarte rispolvera la solita accusa: «Terroristi»

Claudia Fanti  19/01/2023

Sono partiti da Puno come eroi, tra applausi, lacrime e raccomandazioni, i circa settemila aymara diretti a Lima per la Marcha de los cuatro suyos e decisi a restarci finché le loro richieste non saranno ascoltate. Hanno viaggiato su autobus, macchine e camion e, in ogni località per cui sono passati, hanno ricevuto dalla popolazione locale aiuti di ogni tipo: acqua, pane, frutta, alimenti e persino denaro, perché possano resistere nella capitale tutto il tempo che sarà necessario. «Siamo grati per tutto l’affetto che ci hanno dimostrato ovunque», ha dichiarato il dirigente di Ilave José Colque Mamani. E ha assicurato: «Non li deluderemo, non torneremo finché Dina Boluarte non avrà rinunciato. Ci ha cancellato, umiliato. Ora conoscerà la forza degli aymara. La forza del popolo che lavora la terra».

PRIMA DI LORO, anche decine di studenti della Universidad Nacional del Altiplano erano partiti per Lima, per unirsi ai colleghi di altre università. Mentre è già arrivata a destinazione la delegazione di Andahuaylas, malgrado gli ostacoli posti dalla polizia, che l’ha fermata più volte, portandosi via diversi partecipanti. È così ovunque, da Apurímac a Cusco, da Ayacucho ad Arequipa: da ogni angolo del paese – da los cuatro suyos, appunto – i figli di Túpac Amaru si muovono in carovane verso la capitale, sfidando i blocchi della polizia e lo stato d’emergenza proclamato a Lima, Cusco, Callao e Puno da Dina Boluarte, la sesta presidente in sei anni, sempre più una marionetta nelle mani dell’oligarchia.

E MENTRE i rappresentanti di comunità e organizzazioni continuano ad arrivare, trovando riparo presso l’Universidad Nacional Mayor de San Marcos occupata ieri mattina dagli studenti, la Confederazione generale dei lavoratori (Cgtp), con il sostegno dell’Assemblea nazionale dei popoli, ha convocato per oggi uno sciopero generale, chiedendo le dimissioni di Boluarte ed elezioni generali immediate, accompagnate da un referendum sull’Assemblea costituente. La dittatura «civico-militare-imprenditoriale» che, come si legge nel comunicato della Cgtp, controlla il potere in Perù utilizzando Boluarte come parafulmine «si serve delle accuse di terrorismo e di separatismo contro la cittadinanza mobilitata nel sud del paese» per distogliere l’attenzione dal tema che conta davvero: il controllo delle risorse naturali e degli idrocarburi.
È la famigerata pratica del «terruqueo», quella che consiste nel trasformare tutti gli oppositori in terroristi, in un paese in cui sono ancora aperte le ferite provocate dal conflitto tra la guerriglia terrorista di Sendero Luminoso e la repressione cruenta dello Stato.

Così, per il governo e chi lo controlla, le proteste portate avanti soprattutto dalle comunità indigene e contadine del sud andino, la regione più povera e discriminata – ma anche da minatori, studenti, sindacati, comitati di quartiere, organizzazioni sociali, cittadini comuni -, sono tutte manipolate o direttamente organizzate da terroristi.

E LA RISPOSTA non si è fatta attendere: arresti indiscriminati, perquisizioni, fabbricazione di prove e un’inconcepibile violenza repressiva. Delle 50 vittime, non a caso, ben 42 sono state uccise da colpi di arma da fuoco sparati dalle forze dell’ordine, le quali hanno persino fatto uso, come nel massacro di Juliaca, dei proiettili chiamati hollow point (o dum dum), quelli che al momento dell’impatto si aprono per lacerare nel modo più devastante possibile.

È COSÌ FORTE l’impegno a criminalizzare le proteste che Boluarte ha persino denunciato l’invio ai manifestanti di fucili e munizioni da parte dell’organizzazione boliviana dei ponchos rojos (che la presidente riconduce a Evo Morales). Un’accusa senza fondamento e senza logica, considerando che non un solo poliziotto è stato ucciso o ferito da armi da fuoco e che in ogni scontro tra manifestanti e forze dell’ordine si è ripetuto lo stesso scenario: proiettili contro pietre.

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