Frumento: antiche varietà e genocidio genetico
di FRANCESCO SANTOPOLO –
Il recupero dei grani antichi, come di altri semi che hanno aiutato l’uomo a “costruire” la civiltà, passa da un ragionamento complesso sui valori della cultura liberista della crescita a tutti i costi.
Da una parte, consumi e sprechi alimentari nella fascia opulenta del mondo, dall’altra fame cronica per il sud del mondo. Da una parte obesità e sovrappeso, dall’altra denutrizione.
Uno dei modi per interrompere questo processo è quello di impedire che i nuovi pirati dell’economia si impadroniscano definitivamente dell’unico patrimonio dei poveri: la biodiversità, all’interno della quale i grani rivestono importanza primaria.
Grani antichi e coltivazione intensiva
Com’è noto, il grano è stato domesticato circa 9.000 anni fa, unitamente a piselli e olivo (Diamond, 2005), Circa mille anni dopo sarà la volta del riso e del miglio.
Per circa 10.000 anni l’uomo ha utilizzato grani selezionati in base a valutazioni empiriche in relazione all’ambiente e agli aspetti morfologici del seme.
A metà degli anni ‘60 del ‘900, l’uomo scoprì che i grani tradizionali crescevano molto alti e che, in determinate condizioni, si allettavano e non si prestavano a coltivazioni intensive. Il primo passo fu la messa a punto del cloruro di cloroclorina (CCC), una molecola di sintesi in grado di ridurre la taglia delle piante, consentendo concimazioni azotate più spinte. L’operazione non ha funzionato e nel 1974 si passò a mutazioni genetiche indotte.
La selezione più nota è quella ottenuta bombardando il grano duro Cappelli con raggi gamma (che provocano modifiche nel DNA) e scegliendo poi, tra le piante mutate, la variante nanizzata che produce spighe basse.
Il grano ottenuto fu denominato “Creso” ed è utilizzato nel 90% della pasta prodotta in Italia, cancellando antiche varietà che solo in Sicilia erano 52.
La mutazione genetica dei grani moderni, è correlata ad una modificazione della gliadina, che è un proteina basica del glutine, dalla quale per digestione peptica- triptica, si ottiene una sostanza chiamata frazione di Frazer, alla quale è dovuta l’enteropatia infiammatoria, intolleranza al glutine e allergie. Il rischio potenziale dei grani transgenici è quello di trasmettere geni di resistenza all’ampicillina attraverso frammenti di DNA del grano, non completamente digerito, ai simbionti del microbioma umano e sono segnalati nella letteratura scientifica. Non a caso l’incidenza della celiachia è passata da 1 su 1.750 a 1 su 105 persone.
E non è ancora finita perché in agguato c’è il grano Roundup ready , un grano transgenico nel cui DNA è stata inserita la resistenza al glifosate, potente erbicida Monsanto di cui è stata dimostrato l’effetto mutageno.
Per favorire questo processo di pirateria genetica, 50 paesi europei nel 1991, hanno adottato le risoluzioni del TIPS (Trade-related aspects of intellectual property rights) e dell’OMC (Organizzazione mondiale per il Commercio), che stanno determinando la scomparsa delle varietà autoctone italiane che rappresentano un germoplasma di grande interesse.
L’accordo internazionale proibisce lo scambio di seme tra agricoltori, impedendo la possibilità di mantenere e conservare i semi di varietà autoctone per le proprie semine, per favorire le multinazionali che impongono le regole di coltivazione.
Successivamente, il Decreto Ministeriale n. 8139 del 10 agosto 2011 ha introdotto l’obbligo delle sementi di grano duro certificate.
Dal 2014 una nuova normativa (Pac 2014-2020) prevede che: “tutte le sementi commercializzate devono essere ufficialmente certificate”, con esclusione di alcune specie agrarie minori.
Le risposte a questa tendenza possono essere formulate con criteri scientifici come sta facendo la Stazione Consorziale Sperimentale di Granicoltura per la Sicilia, di Caltagirone lavorando sul recupero di 63 varietà di grani siciliani e, soprattutto, dal successo che sta ottenendo il grano duro Cappelli, con una crescita di domanda/offerta.
La ricerca condotta a Caltagirone, pubblicata nel 2010, suggerisce interessanti differenze tra alcune varietà di grani duri antichi siciliani e moderne varietà di grani duri, a vantaggio dei primi.
A questo punto si pone una riflessione più generale sull’alimentazione e sulla distribuzione del cibo nel mondo.
Nel 2011 la FAO ha stimato gli sprechi alimentari nel mondo pari a 1,3 miliardi di tonnellate l’anno, circa un terzo della produzione totale di cibo destinato al consumo umano.
Limitandosi agli sprechi domestici e utilizzando diverse fonti statistiche risulta che ogni anno una persona spreca: 110 kg di cibo commestibile negli Stati Uniti, 108 in Italia, 99 in Francia, 82 in Germania e 72 in Svezia (Stuart, 2013).
Questo mentre di fronte ad una disponibilità di cibo pari a 1,5 volte il fabbisogno della popolazione mondiale (Smith, 2004) ci sono 1,2 miliardi di affamati e, secondo i dati del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (PNUD): il 20% della popolazione mondiale più ricca dispone dell’83% della ricchezza, il 20% della popolazione più povera dispone dell’1,4% e al restante 60% della popolazione rimane il 15,6% (Madera, 1999).
Il solo cibo sprecato negli Stati Uniti ammonta a un miliardo e 961,3 milioni di kcal, sufficienti ad alimentare 1,5 volte i poveri del mondo (Stuart, 2013).
Dall’altra parte, il modello quantistico della crescita, ha prodotto 2,1 miliardi di persone che soffrono di obesità o sovrappeso, come emerge da uno studio pubblicato sulla rivista Lancet, condotto dall’Institute for Health Metrics and Evaluation di Seattle. Si tratta di una valutazione effettuata basandosi su dati relativi a 188 Stati, raccolti dal 1980 al 2013. Nell’arco di 33 anni il numero di persone affette da problemi di peso è passato da 857 milioni nel 1980 a 2,1 miliardi nel 2013.
I più colpiti da queste patologie sono i bambini (47% del totale, contro il 28% degli adulti)
L’Organizzazione mondiale della sanità stima che ogni anno nel mondo muoiono circa 3,4 milioni di persone a causa di patologie legate al sovrappeso e all’obesità.
Ma lo spreco comporta anche un carico ambientale perché per produrre il cibo sprecato, si impegnano 8 milioni di ettari di superficie, con un’emissioni di 74 milioni di tonnellate di CO2 (Stuart, 2013).
Sarebbe interessante, allora, definire la crescita una volta per tutte e decidere se produrre di più o produrre meglio, avere obesi nella fascia opulenta del mondo e affamati nella fascia più povera.
Bibliografia
Diamond, J. (1998), Armi, acciaio e malattie, Torino, Einaudi.
Diamond, J. (2005), Collasso, Torino, Einaudi.
Madera, R. (1999), L’animale visionario, Milano, Il Saggiatore.
Rifkin, J. (1998), Il secolo biotech, Milano, Baldini & Castoldi.
Smith, J., M., (2004), L’inganno a tavola, Ozzano dell’Emilia, Nuovi Mondi Media.
Stuart, T. (2013), Sprechi, Milano, Bruno Mondadori.
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