OVERSHOOT DAY, LE RISORSE DEL PIANETA NON SONO INFINITE da IL MANIFESTO
Overshoot Day, le risorse del pianeta non sono infinite
Clima Le risorse naturali sono fondamentali per il benessere umano. Non possiamo vivere senza l’aria pulita che respiriamo, gli organismi vegetali di cui ci cibiamo o l’acqua che beviamo. Abbiamo bisogno […]
Stefania Papa* 05/12/2024
Le risorse naturali sono fondamentali per il benessere umano. Non possiamo vivere senza l’aria pulita che respiriamo, gli organismi vegetali di cui ci cibiamo o l’acqua che beviamo. Abbiamo bisogno di risorse naturali per costruire tetti sopra la testa e riscaldare le nostre case. Ne abbiamo bisogno per sopravvivere e prosperare. Purtroppo, oggi l’umanità vive oltre i limiti delle proprie possibilità, trovandosi cosi di fronte a un problema ambientale.
Ogni anno il totale delle risorse consumate dall’uomo supera la capacità naturale del pianeta di rigenerarle. Per divulgare questo concetto annualmente viene calcolato l’Earth Overshoot Day, cioè il giorno in cui il mondo esaurisce le risorse naturali disponibili per l’anno in corso ed inizia a sfruttare quelle previste per i 12 mesi successivi, creando così un debito ecologico che, prima o poi, dovrà essere ripagato.
L’Earth Overshoot Day per l’anno 2023 e caduto il 2 agosto. In poco più di sette mesi l’umanità ha esaurito tutte le risorse naturali e rinnovabili che il Pianeta era in grado di offrire nell’arco di un anno. In altre parole, abbiamo iniziato a sfruttare le risorse del 2024 già a partire dal 3 agosto 2023. Stiamo vivendo come se avessimo a disposizione 1,7 pianeti. Ma esiste un solo pianeta Terra! Per un’esistenza sostenibile l’Overshoot Day dovrebbe essere spostato al 31 dicembre o ancora più avanti. In questo modo l’umanità utilizzerebbe una quantità di risorse massima pari e non superiore a quelle rinnovabili.
Negli anni ’70 l’Earth Overshoot Day cadeva ancora nel mese di dicembre. Da allora ogni anno la data si è anticipata sempre di più fino ad arrivare ad agosto nel 2023. Le cause di questo fenomeno sono complesse: dalla continua crescita della popolazione mondiale, all’aumento del benessere con la conseguente crescita dei consumi, fino alla conversione degli ecosistemi naturali in aree agricole o industriali e in aree abitative.
Tutto ciò accelera i fenomeni di cambiamento climatico e, a sua volta, porta alla perdita degli ecosistemi naturali. Le strategie per un futuro sostenibile ruotano attorno a tre questioni: un uso più efficiente delle risorse, ovvero meno spreco di energia e risorse nei materiali da costruzione; superamento di un’economia della produzione lineare a favore di un’economia circolare che riduca al minimo gli sprechi puntando sulle energie rinnovabili; cambiamento permanente degli stili di vita in cui l’obiettivo è soddisfare i bisogni senza causare sprechi o consumi eccessivi.
Posticipare quindi l’Earth Overshoot Day potrebbe realizzarsi solo se l’umanità dimostrerà di avere la capacita di condurre e condividere stili di vita più sobri ed efficienti.
Tutto ciò ci porta a dover ripensare i nostri sistemi economici, sociali, politici e tecnologici che ad oggi consentono uno spreco di risorse. Allo stesso tempo, il processo decisionale dovrà essere inclusivo tenendo conto dei bisogni, dei diritti e delle conoscenze delle comunità e dei gruppi storicamente emarginati.
Per questo occorre creare spazi partecipativi dove ognuno possa, con la giusta attenzione, esprimere le proprie opinioni, condividere le esperienze e contribuire al processo decisionale. Tutto ciò porta non solo a scelte più equilibrate e giuste, ma anche a soluzioni più adatte alle esigenze specifiche delle diverse comunità, promuovendo cosi un futuro sostenibile e giusto per tutti.
* docente di Ecologia Università degli Studi della Campania «Luigi Vanvitelli».
Al summit di Busan trionfa la plastica
Clima Dopo il quasi totale fallimento della Cop29 di Baku sul clima, le potenze fossili mandano a gambe all’aria anche il vertice globale per limitare i danni delle plastiche
Marinella Correggia 05/12/2024
Al capezzale della Terra in un pugno di settimane, dal 21 ottobre al 13 dicembre, si sono concentrati quattro negoziati internazionali, tre dei quali a partire dagli accordi adottati al Summit della Terra, Rio de Janeiro, 1992. In Colombia si è tenuta la conferenza delle parti Cop16 della Convenzione Onu sulla biodiversità (Cbd). In Azerbaijan, la conferenza delle parti Cop29 della Convenzione Onu sui cambiamenti climatici (Unfccc). Ed è in corso (2-13 dicembre) in Arabia saudita – un paese che nell’immaginario collettivo è un deserto seduto sul petrolio –, la Conferenza delle parti Cop16 della Convenzione Onu per la lotta alla desertificazione (Unccd). Le prime due Cop hanno avuto risultati deludenti.
IL QUARTO NEGOZIATO RIGUARDAVA un’emergenza che al tempo di Rio non era così minacciosa: la plastica, derivato degli idrocarburi. Lo scorso 1 dicembre in Corea del Sud la quinta sessione del Comitato negoziale intergovernativo (Inc5) ha rimandato al 2025 il raggiungimento di un Global Plastic Treaty: un trattato globale e giuridicamente vincolante contro l’inquinamento da plastica, ovvero uno storico quadro normativo per proteggere la salute umana e degli ecosistemi, la biodiversità (acquatica e non solo) e il clima, evitando che la produzione annua di 500 milioni di tonnellate si moltiplichi per tre entro pochi decenni, visti gli attuali tassi di crescita di questo settore dell’industria petrolchimica, centrale nella domanda di petrolio (si veda Et del 21 novembre).
LO SLITTAMENTO RISPECCHIA LO SCONTRO fra due schieramenti. Da un lato, circa 100 paesi della High Ambition Coalition to End Plastic Pollution che volevano un accordo vincolante a livello mondiale per limitare la produzione di plastica vergine «a livelli sostenibili» (?) ed eliminare gradualmente le sostanze nocive e i prodotti non necessari. Dall’altro il gruppo delle nazioni affini (like minded nel gergo delle conferenze onusiane) intenzionate a concentrarsi sulla gestione dei rifiuti plastici; al loro fianco, tanti lobbisti. I rappresentanti dell’industria dei combustibili fossili e chimica hanno costituito la «delegazione» più numerosa. Del resto i mezzi economici non mancano: il comparto a livello globale vale circa 700 miliardi di dollari.
POCO HA POTUTO LA DICHIARAZIONE firmata da 900 scienziati indipendenti che invitava i negoziatori a concordare un trattato globale e ambizioso, basato su prove scientifiche solide, per porre fine all’inquinamento da plastica entro il 2040. Secondo la dichiarazione, migliorare soltanto la gestione dei rifiuti è un palliativo. Poco ha potuto anche una petizione di circa tre milioni di persone da 182 paesi che ugualmente chiedeva misure drastiche su produzione e riuso.
QUALI PAESI HANNO BLOCCATO IL TRATTATO opponendosi a una riduzione obbligatoria della produzione e ad altri vincoli ambiziosi? Sulla base delle loro dichiarazioni durante i lavori, Arabia saudita, Iran, Russia e altri. Abdulrahman al-Gwaiz, delegato saudita, ha parlato di linea rossa rispetto ai tagli, perché «se si vuole affrontare l’inquinamento da plastica, produrla non dovrebbe essere un problema, perché il problema è appunto l’inquinamento, non la plastica in sé».
LOBBISTI DELL’INDUSTRIA DELLE MATERIE plastiche hanno poi partecipato all’Inc-5 nel quadro delle delegazioni governative: fra queste Cina, Repubblica dominicana, Egitto, Finlandia, Iran, Kazakistan e Malaysia. Dal canto loro, gli Stati uniti hanno chiesto riduzioni solo su base volontaria, attirandosi le accuse del gruppo Center for International Environmental Law (Ciel), autore mesi fa di un rapporto sull’impronta climatica imputabile al pianificato boom nordamericano della petrolchimica, minaccia «importante e crescente».
INCERTI DATA E LUOGO del prossimo round negoziale. Inger Andersen, direttrice esecutiva del Programma delle Nazioni unite per l’ambiente (Unep) incaricato del processo verso il Plastic Treaty, ha riconosciuto che sono rimaste differenze profonde e che sono dunque indispensabili «scambi importanti» prima di sedersi nuovamente a un tavolo globale; «altrimenti sarà inutile».
DELUSE, MA PERENTORIE LE ASSOCIAZIONI ambientaliste internazionali. Graham Forbes, capo della delegazione di Greenpeace ai negoziati di Busan e responsabile della campagna globale per le plastiche presso il ramo statunitense dell’associazione, ha dichiarato: «Ogni volta che i governi permettono agli inquinatori di continuare a inondare il mondo di plastica, tutti noi ne paghiamo il prezzo. Questo ritardo comporta conseguenze terribili per le persone e per il pianeta, sacrificando coloro che si trovano più esposti ai danni dell’inquinamento da plastica».
VIENE VALORIZZATO il blocco dei quasi 100 paesi illuminati che, prosegue Greenpeace, deve «superare l’ostruzionismo dell’industria dei combustibili fossili per raggiungere un accordo globale efficace (…) Deve impegnarsi contro le sostanze chimiche pericolose, ottenere un divieto sulla plastica monouso e obiettivi chiari di riutilizzo, nonché un piano di finanziamento equo. Deve usare il suo potere per garantire che il processo Inc sia inclusivo e giusto, dando priorità all’accesso delle comunità più colpite dall’inquinamento da plastica». Insomma, le lobby dei combustibili fossili e della petrolchimica, «sostenute da una piccola minoranza di paesi», non devono avere la meglio sulla maggioranza: «Siamo a un bivio storico. Un accordo forte che protegga le persone e il pianeta è la nostra unica opzione». Anche per il Wwf, le misure essenziali di un trattato devono includere divieti globali e eliminazioni graduali di plastiche e sostanze chimiche dannose, standard per la progettazione dei prodotti, un meccanismo di finanziamento robusto e strumenti per rafforzare il trattato nel tempo.
RICORDIAMO POI QUANTI USI DELLA PLASTICA sono evitabili o sostituibili. Ad esempio, totalizzano un terzo dei consumi gli imballaggi e contenitori quasi sempre usa e getta (eterni rifiuti), spesso contenenti cibi e bevande non salutari. Quanto ad altri settori, non mancano nell’edilizia i materiali alternativi, e nel tessile il riuso è una miniera non estrattivista da esplorare.
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