NETANYAHU, LA CIVILTÀ DEL BOMBARDIERE da IL MANIFESTO
Netanyahu, la civiltà del bombardiere
Intanto all’Onu Se alla squadra della luce è tutto possibile, chiunque muova dissenso (l’Onu, la Corte penale, i manifestanti nelle piazze) è oscurità. Intanto, però, in piena Beirut l’esercito israeliano sbriciolava intere palazzine
Carri armati e soldati israeliani al confine con il Libano Baz Ratner/Ap
Chiara Cruciati 29/9/2024
Il discorso sulla pace che Benyamin Netanyahu ha letto ieri alle Nazioni unite non è terminato quando è sceso dallo scranno più alto del pianeta. Ma un’ora dopo, quando una serie di esplosioni senza precedenti ha ridotto in macerie sei palazzi a Beirut città, seppellendo un numero imprecisato di persone e terrorizzando un popolo intero. Poco prima che Netanyahu salisse su quello scranno all’Onu, a Berlino il presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella diceva che «la pace non significa sottomissione e abbandono dei principi di dignità di ogni Stato e del diritto internazionale».
Il riferimento era alla guerra all’Ucraina, ma quella definizione è – o dovrebbe essere – universale. Eppure c’è pace e pace. C’è una pace che può sorgere solo dalla giustizia e dall’eguaglianza e c’è una pace intesa come mera assenza di conflitto.
In questa seconda «pace» il Medio Oriente vive da tempo, dentro i vari regimi che lo costellano, silenziatori seriali di dissenso, dove il conflitto sociale e politico necessario in un sistema democratico è soffocato. I palestinesi in una simile pace vivono impantanati da 74 anni: è la condizione per cui un’occupazione militare e un sistema di apartheid possono prosperare senza troppi scossoni se li si continua a gestire, facendoli assimilare ai tuoi, trasformati in secondini, e agli altri, ridotti a prigionieri. Fino all’esplosione.
È la pace di cui ieri, di fronte a un’Assemblea generale fantasma, ha parlato il primo ministro israeliano mentre la sua aviazione si preparava a cancellare un quartiere. Un ribaltamento concettuale, quello pratico lo vediamo ormai da un anno eppure non ha trovato spazio nel discorso fiume di Netanyahu. La pace? Si fa con la guerra, perché la pace che si va cercando è l’annullamento dell’altro. L’assenza di conflitto politico necessaria a mantenere un sistema diseguale è la garanzia alla pace solo per chi detiene il potere. La guerra, quella militare, è strumento per la sottomissione.
Se la narrazione è questa, semplificata come in un colossal hollywoodiano, ci sono a contrapporsi il bene e il male, l’oscurità e la luce, gli animali e gli umani, la civiltà e la barbarie. La “civiltà”, questo dice Netanyahu, non deve temere di ricorrere alla barbarie se la esercita contro un nemico ritenuto immeritevole di dignità umana. Non deve temere di piegare le regole che essa stessa si è data per non confrontarsi più con l’orrore di cui è stata capace nei periodi più bui della propria storia.
Netanyahu lo dice con i suoi silenzi – nessun riferimento ai massacri commessi a Gaza e ora in Libano, alle bombe su scuole, ospedali, tende, alla fame come arma – e lo dice a voce alta quando racconta la terribile storia di un cittadino israeliano condotto cadavere nella Striscia, senza citare le migliaia di corpi palestinesi sottratti da Israele e mai riconsegnati alle famiglie, in Cisgiordania, a Gaza, a Gerusalemme, oggi e per decenni prima del 7 ottobre. Congelati per settimane, mesi, anni nelle prigioni israeliane o seppelliti nei famigerati cimiteri dei numeri. Il primo caso è barbarie, il secondo si può fare se di fronte si ha un “altro” considerato inferiore nella sua stessa carne e nella sua soggettività politica titolare del diritto alla dignità e alla libertà. È il manuale del colonialismo.
Se alla squadra della luce è tutto possibile, chiunque muova dissenso (l’Onu, la Corte penale, i manifestanti nelle piazze) è oscurità. Intanto, però, in piena Beirut l’esercito israeliano sbriciolava intere palazzine in dieci esplosioni «mai sentite prima», a Gaza frantumava il cortile dell’ospedale al-Aqsa e in Cisgiordania devastava e depredava un magazzino alimentare. Mentre Netanyahu parlava di pace e civiltà, il numero di libanesi uccisi in pochi giorni superava i 700, il bilancio del genocidio dei palestinesi nella Striscia raggiungeva i 42mila morti accertati.
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Ogni anno all’Assemblea generale dell’Onu Benyamin Netanyahu esibisce disegni, grafici, mappe per aiutare l’esposizione delle sue tesi e posizioni. E così ha fatto ieri issando due mappe. La prima, che ha definito della «benedizione», già nota, mostrava un immaginario ponte logistico dall’India attraverso il Medio Oriente e Israele. La seconda, della «maledizione», con gli alleati dell’Iran in tutto il Medio oriente. Eppure, lo scopo di questa messinscena non era quello di spiegare all’Assemblea dell’Onu le ragioni delle guerre di Netanyahu contro palestinesi, libanesi e nella regione. E neppure di esortare, come ha fatto, l’Arabia saudita a normalizzare le relazioni con Israele. Piuttosto Netanyahu ha preparato il terreno al vero colpo di scena confezionato nei minimi dettagli a migliaia di chilometri di distanza grazie alle numerose spie arabe che Israele gestisce in Libano: l’assassinio a Beirut di Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah. Le spie che in questi ultimi mesi hanno consentito a Israele di decapitare i comandi militari di Hezbollah avevano ieri nel mirino il bersaglio più grosso.
Nasrallah però, l’uomo dalle tante vite che vive da oltre 30 anni nascosto in bunker, sarebbe sopravvissuto all’attacco di Israele. Ieri sera veniva dato per ferito, se non addirittura illeso e lontano dal sito delle esplosioni delle bombe penetranti da una tonnellata sganciate dagli F-16 israeliani. «Si trova in un luogo sicuro ed è ancora vivo», ha scritto l’agenzia iraniana Tasnim citando fonti della sicurezza libanese. Non è escluso che l’attacco aereo più potente lanciato contro il Libano dallo scorso 8 ottobre, si riveli fallimentare per i disegni israeliani, se paragonato a quelli condotti nei giorni scorsi. E forse anche il meno letale per i civili libanesi, le prime vittime, come quelli di Gaza dei raid israeliani. Il ministero della sanità libanese, due ore dopo l’attacco, ha riferito di due morti e 76 feriti, un bilancio relativamente basso tenendo conto della potenza delle esplosioni. La scorsa settimana l’aviazione israeliana ha ucciso centinaia di libanesi.
Tutto è cominciato alle 17:40 circa, poco dopo la fine del discorso di Netanyahu. Gli Stati uniti non avevano ricevuto alcun preavviso dell’attacco a Beirut e il segretario alla Difesa Lloyd Austin lo avrebbe appreso mentre era in corso dall’omologo israeliano Yoav Gallant. Poco dopo sono arrivate le prime notizie di una forte esplosione udita a Haret Hreik, quartiere di Beirut non lontano dall’aeroporto Rafik Hariri, abitato da decine di migliaia di civili e già raso al suolo da Israele nel 2006 perché ospita sedi e uffici importanti di Hezbollah, anche nel sottosuolo. Mentre Netanyahu abbandonava la conferenza stampa prevista dopo il suo discorso e si dirigeva all’aeroporto per tornare subito in Israele, il portavoce militare israeliano Daniel Hagari ha confermato che le Forze armate «avevano attaccato il quartier generale di Hezbollah».
Della sorte di Nasrallah si saprà presto. Il leader del movimento sciita, se davvero è sopravvissuto all’attacco, non tarderà ad apparire in tv per dimostrare di essere scampato al tentativo di assassinarlo di Israele. Ieri sera si parlava soprattutto delle conseguenze immediate del pesante bombardamento aereo, al di là delle condizioni di Nasrallah. La risposta di Hezbollah stavolta, affermavano in tanti – israeliani, libanesi e arabi – con ogni probabilità prenderà di mira Tel Aviv e il centro di Israele. In tarda serata una casa di Safed è stata centrata in pieno da un razzo partito dal Libano. La reazione del movimento sciita potrebbe sprigionare la scintilla della guerra totale tra le due parti che vogliono Netanyahu e il suo governo e dare il via all’offensiva israeliana di terra.
Il portavoce in lingua araba dell’esercito israeliano, Avichai Adraee, ha comunicato ieri mattina che «è stato completato il dispiegamento lungo il confine settentrionale delle brigate Etzioni e Nahal Nord e di diversi battaglioni della riserva a sostegno dei reparti da combattimento». Un funzionario della sicurezza ha aggiunto che «qualsiasi operazione di terra contro Hezbollah in Libano sarà effettuata il più rapidamente possibile». Yediot Ahronot e altri media israeliani hanno scritto che i «carri armati attendono ordini» e che «convogli di veicoli militari e autocarri si dirigono a nord percorrendo strade poco trafficate». Ieri sera il giornale Haaretz ha riferito che l’esercito israeliano ha chiesto agli abitanti di Dahiye, il quartiere meridionale di Beirut, di lasciare le loro case e di rifugiarsi verso altre zone della città. Si tratta di una sorta di annuncio della distruzione di quella zona di Beirut, come nel 2006.
Lo scontro aperto con Hezbollah è sostenuto dalla maggioranza dell’opinione pubblica israeliana. La guerra in Libano deve andare avanti dicono in tanti mentre le opinioni divergono sulla continuazione della guerra a Gaza, anche se i suoi sostenitori sono più numerosi degli oppositori. Il 57% degli israeliani, rivela un sondaggio di Maariv, vorrebbe la guerra contro il Libano fatta solo con attacchi aerei. La popolarità di Netanyahu è aumentata in modo significativo grazie agli attacchi contro Hezbollah in Libano e il suo partito, il Likud, è dato a 24 seggi e primo fra tutte le altre formazioni politiche: non accadeva dall’attacco di Hamas del 7 ottobre.
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